di Gioacchino Toni

Oltre che un audiovisivo interattivo, il videogioco è anche una precisa architettura di game design. Visto che la narrazione e le meccaniche ludiche operano in base a logiche differenti, un’analisi ideologica del videogioco dovrebbe esplorare entrambi gli ambiti anche perché, in taluni casi, possono palesarsi delle importanti dissonanze ludonarrative. Óliver Pérez-Latorre e Mercè Oliva, Videogiochi, distopia e neoliberismo: BioShock Infinite, uno studio di caso, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi (Mimesis 2023) [su Carmilla], concentrandosi proprio su come tali dissonanze incidano sull’esperienza di fruizione, sviluppano una riflessione sull’intero universo videoludico a partire dall’approfondimento di un caso specifico.

Ad essere preso in esame dal saggio in questione è il videogame di successo BioShock Infinite (2013), terzo capitolo di una serie retrofuturistica, sviluppato da Irrational Games e pubblicato da 2K Games. Si tratta di uno “sparatutto in prima persona” che, nel palesare evidenti contraddizioni tra ciò che si fa effettivamente nel gioco e ciò che questo suggerisce, evidenzia come i videogame siano «artefatti ideologicamente complessi che riflettono in modo non triviale le inerenti tensioni ideologiche. Ergo, la dissonanza ludonarrativa è un sintomo socioculturale anziché un deficit progettuale» (p. 296).

BioShock Infinite è ambientato a inizio Novecento nella fittizia “città volante” di Columbia, fondata da Zachary Hale Comstock su commissione dal governo statunitense, fatta “decollare” in occasione dell’Esposizione Universale del 1893 di Chicago per intraprendere un tour mondiale volto a propagandare la superiorità tecnica, culturale e morale degli Stati Uniti. A distanza di pochi anni i Fondatori, che governano Columbia, dopo aver diffuso tra i cittadini l’idea che la madrepatria fosse ormai avviata a un inesorabile declino morale, economico e sociale, decidono di staccarsi dagli Stati Uniti dando vita a una società utopica in grado, a loro dire, di salvaguardare gli ideali e i principi originali del modello americano. Ai Fondatori si oppone il gruppo Vox Populi, guidato da Daisy Fitzroy, basato sulla composizione sociale sfruttata dal sistema.

Il giocatore è destinato a immedesimarsi con il personaggio di Booker DeWitt, uno “straniero”, ex-investigatore, che giunge a Columbia nel 1912 con l’incarico di trovare e potare a New York una ragazza di nome Elizabeth. Ben presto l’impressione di essere stato catapultato in un’utopia lascia il posto nel protagonista/giocatore alla consapevolezza di trovarsi di fronte a uno scenario di ben altra natura, contraddistinto da fanatismo religioso, razzismo, autoritarismo tecnocratico e capitalismo selvaggio. Visto che anche il gruppo ribelle Vox Populi, palesemente connotato con una simbologia “di sinistra”, viene mostrato, nei fatti, non dissimile dai nemici Fondatori, si può dire che il discorso politico del videogioco sia situato «in un’arena post ideologica, ivi intesa in senso letterale: una cornice concettuale nella quale le ideologie sono presentate come costrutti socio-culturali obsoleti, anacronistici, se non esplicitamente dannosi» (p. 305).

Strada facendo non mancheranno colpi di scena volti ad approfondire o a rileggere sotto nuova luce gli eventi e i personaggi, tanto che persino il protagonista si rivelerà, in qualche modo, parte in causa nella deriva di Columbia e ciò contribuisce a rafforzare nel giocatore l’idea che non sono contemplate alternative. «Il contrasto tra il senso illusorio di libertà del personaggio/giocatore e la rivelazione finale che “i giocatori stanno solo adempiendo al ruolo che gli è stato prescritto” è un tema ricorrente nella saga di BioShock. Nei vari capitoli, la libertà è rappresentata come un’utopia inaccessibile, irraggiungibile. Anzi, è necessario rinunciare alla libertà per intraprendere l’unico itinerario contemplato» (p. 307). Pérez-Latorre e Oliva sottolineano però come nel caso di BioShock Infinite il finale si mantenga è più aperto permettendo una lettura della storia tanto nel solco dell’anti-utopia quanto in quello della distopia critica.

Se ci atteniamo alla logica interna del gameplay, BioShock Infinite è composto da una successione di fasi o “livelli di gioco” che pongono diversi problemi, pericoli e sfide al giocatore. Il giocatore può sempre (o quasi) superare questi problemi, pericoli e sfide ed è ricompensato in forma simbolica (potenziamenti, cutscenes e così via). Il finale narrativo di BioShock Infinite è senza dubbio tragico e frustrante, ma de facto è una lunga sequenza scorporata dall’esperienza di gioco in quanto tale. Per converso, la ludologica in senso stretto, segue uno schema epico che si fa man mano più roboante e iperbolico; detto altrimenti, non prevede reali momenti di frustrazione: è piuttosto una successione di vittorie che producono un’intensa gratificazione psicologica per il giocatore (p. 308).

Se dal punto di vista narrativo BioShock Infinite concede di essere letto come una distopia critica, da quello delle regole e delle meccaniche di gioco le cose, secondo Pérez-Latorre e Oliva, sembrano invece permeate da valori essenzialmente neoliberisti: «la personalizzazione dell’avatar che riflette una precisa logica imprenditoriale del sé; una logica di consumo e cumulativa legata all’autoformazione; un’epica individualista e una competitività nonché un sistema di ricompensa idealizzato» (p. 311).

Circa la customizzazione dell’avatar e del sé imprenditoriale è interessante notare come il gioco, attraverso «il monitoraggio costante dei livelli di salute, munizioni, sali e danni al casco dell’avatar [incoraggi] il giocatore a fare scelte strategiche basate su queste informazioni, inquadrando queste pratiche di auto-sorveglianza come positive, legittime e “normali”. In questo modo, BioShock Infinite è strettamente connesso al concetto di biopotere» (p. 314).

A proposito del consumo e della logica cumulativa legata all’autocostruzione, nel videogame «più cose il personaggio/giocatore raccoglie, maggiori sono le sue possibilità di progredire all’interno del gioco» (p. 315); «il giocatore è incoraggiato a fare acquisti giudiziosi e oculati per migliorare le abilità, i poteri e l’equipaggiamento di Booker. Queste attività esplicitano la logica neoliberista per cui lo shopping, l’acquisto continuo, l’accumulo di merci rappresentano la modalità privilegiata di costruzione e affermazione identitaria»; secondo questa logica il consumo rappresenta «la soluzione ottimale a ogni tipo di problematica che affligge il soggetto » (p. 316).

Per quanto riguarda l’epica individualista, BioShock Infinite fornisce al gamer l’illusione di disporre di un “potere individuale” di “dimensioni epiche” in linea con l’immaginario dei popolari eroi hollywoodiani. Pérez-Latorre e Oliva sottolineano come persino alcuni dialoghi rafforzino «l’individualismo come valore di “senso comune”» (p. 316).

Circa la competitività, come molti videogiochi manistream, anche BioShock Infinite contempla un unico vincitore il cui trionfo presuppone la sconfitta degli altri. Il gioco prevede un meccanismo di ricompensa “idealizzato”; la ricompensa al personaggio/giocatore aumenta al progredire con successo nell’avventura. La competitività premiata da un sistema di ricompensa idealizzato propria di numerosi videogiochi manistream, ricordano Pérez-Latorre e Oliva, non è l’unica opzione possibile, così come non lo è il neoliberismo.

«L’idea di un sistema di ricompensa idealizzato riflette la nozione che una società ideale opera secondo valori meritocratici: pari opportunità e risultati diseguali basati sul talento e sul duro lavoro» (p. 318). Se la retorica meritocratica prevederebbe che tutti e tutte, indipendentemente dalla posizione sociale iniziale, fossero messi nelle condizioni di poter conseguire il risultato grazie al talento e al duro lavoro, il concetto meritocratico ha finito per essere sfruttato dal neoliberismo per motivare, legittimare e mantenere le disuguaglianze sociali promuovendo competitività e atomizzazione sociale.

La logica neoliberista in ambiente ludico non è certamente introdotta dai videogame: «l’intero genere dei giochi di ruolo tradizionali (RPG da tavolo), nati negli anni Settanta, glorifica i principi e i valori della logica neoliberista: la libertà associata al consumo (la “scelta oculata” tra le varie opzioni offerte dal mercato), la soggettività dell’homo economicus e la cultura imprenditoriale, l’autocontrollo e il costante lavoro sul sé, la costruzione ottimale, e così via, sono elementi centrali in molti generi ludici mainstream» (p. 319).

Resta il fatto che in BioShock Infinite, sottolineano Pérez-Latorre e Oliva, la logica neoliberista è centrale e lo si percepisce bene indagando «la creazione e lo sviluppo del personaggio da parte del giocatore, i sistemi di implementazione delle competenze dell’avatar, una costante analisi dei rapporti costi-benefici, e la gestione delle attrezzature al fine di ottimizzare le risorse» (p. 319).

Insomma, «l’incorporazione di elementi tipici dei giochi di ruolo nel genere action-adventure e la loro relazione con l’ideologia neoliberista non rendono BioShock Infinite un caso peculiare o idiosincratico. Semmai, ciò che lo rende unico è l’interazione tra la componente neoliberista espressa dal gameplay e la componente critica progressista veicolata dal racconto distopico» (p. 320).