di Emilio Quadrelli e Bruno Turci

È l’appartenenza a un campo – la posizione decentrata – a permettere di decifrare la verità e di denunciare le illusioni e gli errori attraverso cui vien fatto credere – gli avversari fanno credere – che ci si trova in un mondo ordinato e pacificato. (Michel Foucault, Bisogna difendere la società)

1. Bravi ragazzi

Nel testo che segue proveremo a descrivere un passaggio storico del mondo della prigione e dei coevi mondi illegali. Andando decisamente contro corrente cercheremo di evidenziare come questi, contrariamente alle retoriche discorsive dominanti e alla considerevole letteratura di genere che l’accompagna siano del tutto interne a ciò che comunemente vengono definiti mondi legittimi e rispettabili. Basti pensare alle fortune a cui sono andati incontro romanzieri come Auguste Le Breton ed Edward Bunker che hanno costruito i loro successi inventando mondi criminali, e coeve retoriche culturali ed esistenziali, del tutto privi di fondamenti. Mentre l’esatto, e ben più realistico, modello narrativo decisamente in opposizione a questo genere di scrittura lo si trova, per esempio, in uno scrittore come Gian Carlo Fusco di cui è senz’altro utile ricordare Duri a Marsiglia (Einaudi, 2005). Sottolineando come, a conti fatti, i mondi illegali abbiano ben poco del carnevale ma, al contrario, siano una sorta di sintesi estrema del mondo e delle sue trasformazioni, ma non solo. Secondo gli autori tanto i mondi illegali ma soprattutto la prigione sono una corposa anticipazione di quanto, attraverso un processo a cascata, si sta delineando per farsi modello egemone in tutti gli assetti sociali1.

Metodologicamente il testo utilizza lo stile di ricerca proprio dell’etnografia e all’importanza che questa assegna e riconosce alla narrazione degli attori sociali2. Una di queste, quella di Bruno Turci, coautore del testo, è riportata con nome e cognome mentre per le altre due, su richiesta esplicita degli intervistati, ci si è limitati a una semplice sigla.
Detto ciò entriamo nel merito della questione iniziando con il dire che il testo che presentiamo prende le mosse da un evento che, all’epoca, suscitò non poco clamore: l’uccisione di Francis Turatello3 avvenuta il 17 agosto 1981 nel Super carcere di Nuoro. Un evento che, almeno in apparenza, potrebbe rientrare in quel consueto ‘regolamento di conti’ di cui il mondo illegale non è certo parco e, per questo, essere tranquillamente circoscritto ai rituali propri di un determinato ambito sociale e coeve retoriche ‘culturali’ Un fatto, sicuramente eclatante visto lo spessore del personaggio, ma che avrebbe ben pochi motivi per andare oltre i perimetri della ‘cronaca nera’. A uno sguardo solo un poco più attento, invece, la morte di Turatello assume a pieno titolo la caratura del ‘fatto storico’ tanto da potersi considerare lo sparti acque tra due epoche storiche. Vediamone il perché.

Cominciamo intanto, al fine di non creare malintesi di sorta, con l’inquadrare la figura di Francis Turatello. Questi non ha nulla di romantico e solo in parte ha a che fare con la cornice culturale ed esistenziale delle batterie degli anni Settanta4. Turatello è figlio di un’altra epoca anche se, non diversamente dalle batterie, rappresenta una rottura radicale rispetto ai mondi tradizionali della malavita. Turatello è, con ogni probabilità, la prima figura di gangster5 che si affaccia sulla scena dei mondi illegali di questo Paese. Non per caso la sua storia si dipana a Milano una città che da sempre ha anticipato, e anche di molto, le profonde trasformazioni sociali ed economiche dell’intera nazione. Per chi ha poca dimestichezza con questi mondi può essere utile richiamare alla mente il Delon della saga Borsalino. Turatello ha molto del Roch Siffredi così come non poche sono le analogie dei mandanti del suo assassinio con il Giovanni Volpone, ‘anima nera’ della saga sopra ricordata. Niente a che vedere, quindi, con i personaggi maledetti e dannati del noir francese degli anni Sessanta e primi Settanta, e neppure con quella pur particolare critica dell’economia politica che caratterizza i personaggi e le gang di gran parte di questo genere cinematografico6. Turatello, nonostante nella sua carriera possa vantare furti, rapine e sequestri, passa alla storia come il ‘re delle bische’ tanto che, non casualmente, è praticamente irrisoria la bibliografia che lo riguarda, minima la rievocazione cinematografica e sempre in relazione ad altri personaggi7 così come quasi inesistente il materiale documentario che lo riguarda. Nelle numerose riprese che ricostruiscono le vicende criminali degli anni Settanta e primi Ottanta sono tantissimi i casi in cui i personaggi della malavita parlano di lui, ma egli non compare pressoché mai8. Del resto: «io sono solo un commerciante» era il modo in cui amava definirsi e di solito i commercianti risultano poco appetibili a qualunque forma di mitopoiesi. Da buon ‘commerciante’ dedito agli affari Turatello ha sempre evitato con cura ogni forma di notorietà e protagonismo tanto che, ricordando uno degli episodi mediatici maggiormente noti della sua biografia, ha sempre cercato di minimizzare la ‘guerra’ avuta con la ‘banda Vallanzasca’ riconducendola a una semplice incomprensione dovuta a una serie di spiacevoli malintesi, ma non solo. Vista l’eccessiva notorietà che, grazie a una campagna stampa particolarmente ghiotta di climax noir, quella vicenda gli stava provocando, Turatello fece di tutto non solo per smorzarne i toni ma per approdare velocemente e senza colpo ferire a una pacificazione. Strategia che portò avanti con non poco successo visto che, di lì a poco, non solo la pace fu ampiamente sancita ma Turatello fece da testimone di nozze a Renato Vallanzasca. La ricerca della notorietà non era proprio nelle corde di Turatello, gli affari sicuramente sì.

Gestire le bische e i locali notturni di una città come Milano significa avere tra le mani un giro di affari se non di una multinazionale sicuramente di una grande azienda e intrattenere rapporti che vanno di gran lunga al di là dei ristretti mondi illegali. I locali e le bische di Turatello non sono scalcinati bar dove attempate entreneuse spillano qualche quattrino a sprovveduti e mesti avventori o retrobottega dove per qualche ora accanto a salumi e formaggi si stende un improvvisato panno verde ma vere e proprie eccellenze frequentate da un pubblico per lo più rispettabile e con grande disponibilità di mezzi. In sostanza Turatello fornisce un servizio sicuramente illegale sotto il profilo giuridico-formale ma del tutto legittimo per la stragrande maggioranza della popolazione milanese9. Grazie a ciò il potere di Turatello è enorme, ma è un potere che non esercita in maniera dittatoriale e tanto meno ha tendenza al monopolio. Certo il business delle bische è suo e su quel terreno, come non poche testimonianze dell’epoca sono lì a ricordare, non ammette intrusi, ma tutto ciò che si muove fuori dal gioco d’azzardo per Turatello non ha interesse10. Blindati rigidamente i confini delle bische la filosofia di vita di Turatello è molto semplice: vivi e lascia vivere. È un uomo che sicuramente esercita potere senza esserne però particolarmente attratto e questo è del tutto in linea con la sua dimensione di gangster. Turatello è figlio di quella mentalità dove l’essere un ‘bravo ragazzo’ – di qua la sua obiettiva affinità elettiva, culturale più che esistenziale11, con il mondo delle batterie – è il solo e unico passaporto che conta. Nel corso della sua vita Turatello, per esempio, non si fece problemi a aiutare, attraverso l’invio di vaglia postali e pacchi di cibo e vestiario, un numero cospicuo di detenuti in difficoltà senza chiedere nulla in cambio. Nella weltanschauung di Turatello centrale ed essenziale è il modo in cui il singolo si comporta nel mondo, il suo agire e l’onestà che dimostra nella relazione con i suoi simili tutto, questo indipendentemente dallo spessore delle sue gesta e, ancor meno, dai legami organizzativi che può vantare. Questo credo Turatello non lo ha mai abbandonato neppure quando una sospensione della sua weltanschauung gli avrebbe consentito di risolvere in fretta e furia i suoi problemi con la giustizia.

Nel 1978, infatti, durante il sequestro Moro si ritrovò a colloquio con alcuni emissari dei Servizi che gli offrirono una libertà pressoché immediata e successive coperture per i suoi affari se si fosse adoperato, attraverso i suoi uomini, per picchiare e torturare i brigatisti di maggior spicco al fine di ottenere una qualche utile informazione su Moro. Turatello, uomo di destra, neppure portò a termine il colloquio mandando, ancorché in modo garbato a quel paese, gli emissari dello stato12. Tentativi di questo tipo, del resto, sono stati tutto tranne che fulmini a ciel sereno e pare opportuno ricordarne almeno un paio sia per dare modo al lettore di calarsi il più possibile nello scenario che stiamo descrivendo, sia per evidenziare quanto il mondo della prigione soggiace per intero al cosiddetto mondo normale. Al proposito basta ricordare l’offerta fatta dai carabinieri a Rossano Cochis, un esponente della ‘banda Vallanzasca’, della libertà in cambio dell’assassinio di Renato Curcio insieme al quale era detenuto nel carcere dell’Asinara. Anche in questo caso, benché in maniera decisamente meno elegante, Rossano diede una risposta del tutto identica a quella di Turtello13. Questi episodi hanno ben poco della curiosità ‘esotica’ ma, al contrario, rafforzano sia l’idea di quanto il carcere abbia ben poco del ‘mondo alla rovescia’ ma sia parte costitutiva e costituente del mondo reale, di quanto lo stato, sicuramente in quel periodo, vi entrò prepotentemente e vi giocò un ruolo di primo attore e, per altro verso, di come il gangster quanto il ragazzo delle batterie condividessero una comune ‘visione del mondo’ che impediva loro, si potrebbe dire ontologicamente, di scendere a patti e collaborare con gli apparati statuali. Questa non è cosa da poco e spiega, già di per sé, il motivo per cui le organizzazioni criminali si siano sbarazzate di Turatello.

Proprio in relazione ai loro comportamenti nei confronti dei prigionieri comunisti e della guerriglia è possibile trovare un non secondario indicatore di come questi mondi dovessero essere rimossi al fine di ricondurre crimine e prigione in quella relazione di et et con la polizia che ha, almeno in gran parte, caratterizzato il rapporto tra mondi illegali e forze dell’ordine14.
Significativamente, quello che non riuscì con Turatello e Cochis andò, almeno parzialmente, a buon fine poco dopo quando nel carcere di Cuneo, il 2 luglio 1981, si consumò il tentato omicidio di Mario Moretti15. Qui, però, le cose vedono come protagonisti attori sociali di tutt’altro tipo. A sferrare l’attacco a Moretti fu Salvador Farre Figueras e si trattò di un evento che lasciò tutti stupiti poiché i due neanche si conoscevano e, per di più, pensare a Figueras come braccio armato dei carabinieri sembrava a dir poco impossibile. Questi era stato condannato all’ergastolo proprio per l’uccisione di due carabinieri a Moncalieri e, una volta catturato, fu sottoposto a torture tali che lo resero impotente. Difficile, per tanto, pensarlo come possibile collaboratore di questi. Solo qualche tempo dopo, e sul piano della sola deduzione, una spiegazione divenne possibile. Figueras era un uomo di Tommaso Buscetta il quale proprio nel carcere di Cuneo ottenne la semi libertà. Sicuramente, anche se la cosa venne fuori in tempi successivi, aveva iniziato a collaborare sin da subito e, con ogni probabilità, l’agguato a Moretti faceva parte del pacchetto degli accordi stipulati con i carabinieri dell’Antiterrorismo i quali avevano fatto del carcere di Cuneo un loro centro operativo in stretta cooperazione con i Servizi. Lo stesso maresciallo del carcere Angelo Incandela, come egli stesso ha ammesso nella biografia pubblicata a fine carriera, era a tutti gli effetti al servizio dei gruppi speciali dei carabinieri16. Buscetta, con ogni probabilità, non ha dovuto fare altro che mandare una fibbia 17 a Figueras e questi, da buon soldato della famiglia, ha eseguito l’ordine senza domandarsene il motivo. Tali fatti hanno ben poco della nota di colore ma diventano elementi estremamente utili per immergersi nel clima che si respirava dentro le carceri speciali, per rendersi conto di quanta aderenza avessero essi con quanto andava delineandosi nel Paese e, per altro verso, dell’assoluta complementarietà tra apparati statuali e organizzazioni criminali. All’interno di questo scenario va colta l’origine della morte di Turatello. Proviamo a spiegarlo.

2. Uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraqua

Per comprendere ciò che andremo ad argomentare occorre fare una, per quanto sintetica, immersione nella dimensione ‘macro’, dobbiamo, cioè, descrivere il mutamento epocale entro il quale tutti i rapporti sociali iniziano a scomporsi e a ridefinirsi. Sul finire degli anni Settanta, come è stato ben argomentato da Foucault 18, siamo di fronte a una trasformazione che, per molti versi, ha la stessa intensità e radicalità di quella conosciuta dentro il primo conflitto mondiale e del suo corollario, la crisi del ’29. Due passaggi storici che avevano obbligato il comando del capitale a prendere atto del ruolo strategico che le masse subalterne rivestono all’interno dei nuovi assetti sociali e la necessità di un loro riconoscimento politico e sociale. Questi passaggi erano stati caratterizzati dalla messa in forma del modello keynesiano che nello stato-piano aveva trovato il suo involucro politico19. Negli anni Settanta assistiamo alla messa in mora di tale modello e all’affermazione delle retoriche ordoliberali e neoliberiste. Questa la cornice entro la quale iniziano a ridefinirsi tutti i rapporti sociali e la conseguente frantumazione del ‘mondo di ieri’. La prigione non solo non è esente da tutto ciò ma ne viene letteralmente travolta così come travolti risultano tutti quegli ambiti dove le masse, nella loro dimensione collettiva, avevano svolto un ruolo di assoluto protagonismo. Ciò che si consuma attraverso l’omicidio Turatello, o meglio il senso di questa operazione, ha una non secondaria avvisaglia dentro il mondo della fabbrica. Come vedremo, l’arco di senso di quanto si consuma in fabbrica soggiace a retoriche e logiche del tutto simili se non proprio identiche a quelle del mondo della prigione.

C’è un passaggio, il licenziamento dei 61 operai Fiat avvenuto il 9 ottobre 197920, che farà da apripista alla cosiddetta marcia dei 40.00021 che ne incarna al meglio il senso. Al proposito riportiamo brevi passi di un’intervista a un operaio Fiat coinvolto in quell’episodio il quale, di qui l’interesse per questa testimonianza, giunge alle medesime conclusioni a cui perviene Bruno nell’intervista riportata in seguito.

Tralasciando gli aspetti propriamente più politici dei licenziamenti e di ciò che si portavano appresso, vorrei capire che cosa cambia in fabbrica tra gli operai?

Cambia molto, per non dire tutto. Cambia soprattutto quel clima di fratellanza e unità che da anni era stata la grande forza della fabbrica. Vi è in atto una trasformazione che non è solo politica ma, come dire, culturale, esistenziale… per spiegarti: è come se ci fossero gli operai ma la classe operaia fosse assente. C’è sicuramente paura, perché l’offensiva Fiat è grossa, ma c’è anche la perdita di una identità. Forse perché non si vedono sbocchi, forse perché nel frattempo la società è cambiata e la stessa idea di appartenenza di classe comincia a non essere più percepita come un valore aggiunto ma addirittura come un qualcosa di negativo. L’impressione che si ha è che di fronte si abbia a che fare con tanti singoli per i quali essere operaio non significa più nulla. La battaglia che conduciamo è tutta sulla difensiva e non per caso la perdiamo. Solo qualche tempo prima questo sarebbe stato impensabile, la Fiat avrebbe corso sul serio il rischio di essere occupata e invece ciò che si muove intorno ai nostri licenziamenti non è molto.

Quindi, per chiudere, quando ci sarà la cosiddetta marcia dei cosiddetti 40.000 non sarà proprio una sorpresa?

Assolutamente no. Quella marcia è stata il semplice corollario di un clima che in fabbrica si era ormai fatto egemone. La stessa lotta che si stava consumando ai cancelli della Fiat era solo una parodia delle lotte di un tempo. La fabbrica si era normalizzata, le gerarchie nuovamente in sella ma questo era successo anche dentro la testa di gran parte degli operai. Se alla marcia dei capi non c’è stata reazione è perché la classe è come se fosse implosa. Questa, almeno così la vedo io, è stata la conseguenza di quello che iniziavi a vedere fuori dalla fabbrica. Tutta quella socialità operaia che prima faceva parte di un comune modello di vita era evaporata, ognuno stava cominciando a vivere isolato dagli altri, chiuso in casa, viveva, ecco, privatamente. La marcia dei capi ha registrato tutto questo. In poche parole rimanevano gli operai ma non c’era più la classe operaia. [N. A.]

Quanto ascoltato descrive, seppure in maniera sintetica, una mutazione che non può che definirsi epocale. Ciò ha ricadute radicali all’interno di tutti gli ambiti sociali e i mondi illegali non ne sono certo immuni: anzi, per molti versi, ne sintetizzano la portata nella maniera più cinica e brutale. La nuova grande trasformazione pone drasticamente fine a quel mondo eroico che aveva fatto da sfondo all’epopea dei banditi, trasformando, tranne rare eccezioni, l’insieme di quei soggetti sociali che per anni avevano calpestato i re, o almeno ci avevano provato, in individui privi di vincoli e legami sociali. A riprova di come i mondi illegali siano ben distanti dall’essere altro ma costituiscano l’esemplificazione portata sino all’estremo degli ordini discorsivi dominanti finendo con l’anticipare quella ‘società degli individui’22 che, qualche anno dopo, diventerà la cornice della teoria critica politica e sociologica. Se, come precedentemente ricordato, l’autunno nero della Fiat dell’80 segna il corposo incipit della nuova era, anche all’interno dei mondi illegali è possibili datare la formalizzazione di quest’ultima con il 17 agosto 1981, giorno in cui nel carcere speciale di Nuoro viene ucciso Francis Turatello.

Il senso di questo passaggio viene osservato, con non poca lucidità, da Bruno che della vicenda Turatello coglie sia le ricadute per l’intero mondo illegale sia l’inizio della fine anche della propria batteria. Ciò che per le cronache giornalistiche si riduce a un semplice, per quanto ‘eccellente’ regolamento dei conti tra criminali, per Bruno il portato di ciò è ben distante dall’essere una banale questione interna alla malavita ma è il dispiegarsi per l’appunto di una nuova era che, nella trasvalutazione di tutti i valori, porrà una pietra tombale sul mondo di ieri.

Non è privo di interesse e significato osservare la sostanziale affinità, sul piano dell’ordine di senso, tra il modo in cui Bruno analizza questo evento e come l’operaio precedentemente ascoltato racconta ciò che ha comportato la sconfitta subita alla Fiat per la classe operaia. Si tratta di una relazione che ha ben poco di eccentrico e ancor meno di ideologico poiché banditi e operai hanno scandito il tempo dell’utopia e dell’assalto al cielo pressoché in contemporanea. Mondo della prigione e mondo della fabbrica hanno segnato e scandito, quasi in simultanea, i passaggi storico-politici della radicalità proletaria di questo Paese. Tanto che a ogni insorgenza operaia ha corrisposto un’insorgenza prigioniera e viceversa. Molti eventi sono lì a confermarlo. L’11 aprile del 1969, in concomitanza con le giornate operaie a ridosso dei fatti di Battipaglia23, a Torino scoppia la rivolta delle Nuove24 ed è solo un anticipo di quanto, neppure due mesi dopo, andrà in scena a corso Traiano 25. Facendo un rapido passo in avanti arriviamo al 1976/1977 quando le evasioni armate e di massa diventano la normalità dentro la prigione26, e su quello che, nel frattempo, sta maturando all’esterno non sembra neppure il caso di doversi soffermare: nel momento in cui il punto più alto della critica alla prigione prende forma e sostanza, nella società l’utopia si fa concreto progetto storico-politico. Non è difficile, allora, comprendere come quando la grande sarabanda giunge al termine altri eventi finiscano con l’assumere un significato storico. Se la ‘marcia dei 40.0000’ ha comportato la fine della forza del mondo operaio, la morte di Francis significa la messa in mora di una certa tipologia di illegalità e di tutte le retoriche che l’avevano sostanziata. Così come dopo la sconfitta Fiat scompare la classe operaia e rimangono semplicemente gli operai, con l’omicidio consumato a Nuoro iniziano a evaporare gangster e batterie e al loro posto rimangono solo figure illegali che inizieranno a rapportarsi al mondo come individui senza più tempo e storia. Chiusa questa sintetica introduzione entriamo direttamente nel vivo del racconto.

(Fine prima parte – continua)


  1. Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane: modelli disciplinari e strategie di resistenza, Firenze, La Casa Usher, 2013.  

  2. Per una buona esposizione del metodo etnografico e della sua validità per i mondi della ricerca sociale si veda, A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Roma – Bari, Laterza, 2002.  

  3. Cfr. A. D’Agostino, Francis faccia d’angelo. La Milano di Turatello, Milano, le Milieu, 2012.  

  4. Cfr. E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, Roma, Derive Approdi, 2004.  

  5. Sul carattere urbano del fenomeno gangsteristico rimane fondamentale, per quanto datato, il lavoro di F.M. Trasher, The gang: a study of 1.313 gangs in Chicago, Chicago, University of Chicago Press, 1927. La Scuola di Chicago è stata, con ogni probabilità, uno dei più fecondi e innovatori istituti di ricerca sociale con un approccio non positivista e funzionalista, ma particolarmente attento al punto di vista degli attori sociali così come, al contempo, ha messo in campo un’analisi dei fenomeni urbani che, ancora oggi, almeno sul piano metodologico, offre preziose indicazioni. Sui fenomeni urbani rimane ancora oggi particolarmente stimolante il lavoro di R.E. Park, E.W. Burgess, R.D. McKenzie, La città, Edizioni di Comunità, Milano 1965.  

  6. Esemplificativi al proposito film come La gang del parigino di J. Deray (Francia – Italia 1977) e I senza nome di J.P. Melville (Francia – Italia 1970).  

  7. Turatello fa una fugace presenza nel film di G. Tornatore, Il camorrista (Italia 1986), che è incentrato sulla figura di Raffaele Cutolo; compare, come personaggio di sfondo, in Altri uomini di C. Bonivento (Italia 1997), che ruota intorno al personaggio di Angelo Epaminonda, mentre in Gli angeli del male di M. Placido (Francia – Italia – Romania 2010) è un personaggio del tutto secondario rispetto a Renato Vallanzasca che è il vero soggetto del film.  

  8. Si vedano a esempio i filmati, reperibili su YouTube, prodotti da Spazio 70 che raccolgono le principali vicende criminali degli anni ’70 e primi anni ’80.  

  9. Sull’interazione tra mondi criminali e società legittima si veda: A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Milano, Feltrinelli, 2003.  

  10. A tale proposito è particolarmente indicativo il filmato Epaminonda racconta la Milano delle bische, Spazio 70.  

  11. Culturale più che esistenziale poiché in Turatello era del tutto assente quella contrapposizione al potere propria delle batterie. Cfr. E. Quadrelli, Andare ai resti, cit., pp. 66 – 71  

  12. In D’Agostino, Francis, p. 163  

  13. In Quadrelli, Andare ai resti, p.123  

  14. Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014.  

  15. Cfr. M. Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, a cura di C. Mosca e R. Rossanda, Milano, Baldini & Castoldi, 2002.  

  16. P. Nicotri, Agli ordini del generale Dalla Chiesa. I misteri degli anni ’80 nel racconto del maresciallo Incandela, Venezia, Marsilio, 1994.  

  17. Gergale, significa mandare o ricevere un messaggio il quale, il più delle volte, implica l’ordine di una esecuzione.  

  18. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2015.  

  19. Cfr. A. Negri, Crisi dello stato-piano, organizzazione, comunismo, Milano, Feltrinelli, 1974.  

  20. Al proposito si veda il libro–testimonianza di P. Baral, Niente di nuovo sotto il sole…i 61 licenziati Fiat preparano l’autunno ’80 e le fortune dell’automobile?, Torino, Edizioni Ponsimor, 2003.  

  21. Per una buona ricostruzione di questa vicenda si veda Con Marx alle porte. I 37 giorni della Fiat, Milano, Nuove Edizioni Internazionali, 1980.  

  22. Cfr. Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna, Il Mulino, 2002.  

  23. Per una ricostruzione di questi eventi si veda V. Campagna, La rivolta di Battipaglia, Padova, Ar, 1988.  

  24. Cfr. Ci siamo presi la libertà di lottare, Torino, Edizioni Lotta continua, 1973.  

  25. Per un’ottima ricostruzione di questi fatti si veda D. Giacchetti, La rivolta di Corso Traiano. Torino luglio 1969, Pisa, BFS Edizioni, 2019  

  26. Cfr. Quadrelli, Andare ai resti, pp. 203 – 215