a cura di Giorgio Bona

Viviamo insensibili al paese che ci regge

Le nostre voci non si sentono a pochi passi

Ma basta una mezza conversazione

Per evocare il montanaro del Cremlino.

Le sue grasse dita sono gonfie come bachi,

le sue parole scendono come un peso di cento chili.

Ridono gli enormi baffi da scarafaggio,

luccicano i suoi stivali, catturano lo sguardo.

Intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,

mezzi uomini con cui si diverte notte e giorno.

Uno fischia, l’altro miagola, un  terza ghigna,

solo lui tiene il timone e indica la rotta.

Batte regole su regole, sembra un vero fabbro,

le pianta a chi nell’inguine, a chi negli occhi, a chi dritto in fronte.

Ogni esecuzione è per lui piacere,

si lecca i baffi l’Osseta dal grande stomaco.

 

Sono i passi dell’ultima versione de Il montanaro del Cremlino che il poeta Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938) scrisse su Stalin.

Così si rivolse il poeta, quando nel 1938, ormai minato nel corpo e nella mente, perduto in un labirinto di ossessioni, dialoghi immaginari che ripercorrono con passo leggero quella che è stata la sua poesia e la sua prosa, i versi di Dante e il ricordo del viaggio in Armenia, si avvicina alla morte in un campo di transito per la Siberia.

Di questo lungo viaggio verso la deportazione parla Varlam Šalamov ne I racconti della Kolyma, precisamente in un racconto che ha per titolo Pane. Šalamov, arrestato per attività controrivoluzionaria trockista, viene condannato a cinque anni di lavori forzati prolungati fino alla fine della guerra.

Venus Khoury-Ghata, scrittrice di origine libanese che vive in Francia, nel suo libro Gli ultimi giorni di Mandel’štam, racconta il poeta raggomitolato sotto una coperta in un campo di transito vicino a Vladivostock.

La pagnotta del mattino, la zuppa della sera. Il braccio del poeta ormai privo di forze alzato dal vicino per avere una razione di pane in più.

Il poeta non arriverà mai a Kolyma. Il suo cadavere gettato in una fossa comune, un corpo anonimo con altri corpi.

Kolyma prende il nome dal fiume omonimo che sfocia nel Mare Siberiano Orientale. Scriveva Michail Geller: Kolyma era un’industria sovietica che dava al paese oro, carbone, stagno e uranio, nutrendo la terra di cadaveri.

 

Campo di concentramento di Vtoraja Rečka presso Vladivostok

Avanti, oltre la selva oscura che la diritta via era smarrita.

Il dolore, il male, non hanno vie d’uscita.

Soltanto vicoli ciechi.

Facce scavate, che venivano da anni di persecuzioni, di non appartenenza a nessun luogo.

Quando il treno dei deportati si avviava ecco levarsi un brusìo, una protesta molle come la scorreggia di un verme.

Puzza di petrolio, di pagliericcio fradicio e del secchio di rifiuti cosparso di acido fenico.

Ripeteva di continuo che sentiva la mancanza dei suoi libri, che non gli avevano consentito di portarne nemmeno uno e che La Divina Commedia era stata sottratta dalle sue tasche.

Ora sono suoi quei versi di Dante che pungevano il cuore dei pellegrini d’amore.

I naviganti delle incerte rotte, dell’esilio, sospinti verso l’ignoto condannati a sentire in lontananza il pianto musicale della squilla, la campanella dell’ultima ora che fa tremare l’aria di tenerezza e porta il ricordo dell’oblio ai dolci amici in patria.

Il diavolo osservava la scena dal liquame in cui era immerso.

In attesa dell’angelo vendicatore.

Nelle onde dell’etere, nello spazio e nel tempo, ascoltava soltanto la voce che veniva da dentro: risveglia il poeta che si è addormentato dentro di te!

Steso su una tavola di legno sentiva la vita sfuggirgli di mano.

Le sue mani, gonfiate dalla fame, le dita esangui e le unghie sporche, erano incrociate sul suo petto nella posizione del riposo eterno.

Stava morendo, forse era morto da lungo tempo

Eppure, ogni tanto, la vita tornava a fargli visita, gli occhi si aprivano, si sforzava di pensare.

Non credeva nell’immortalità.

Credeva soltanto nell’immortalità dei suoi versi.

In quei momenti in cui ritornava la vita, la poesia fluiva nella sua testa come lo scalpitare di un branco di cavalli al galoppo.

Giaceva immobile come se fosse davanti a un foglio bianco.

Qualcuno gli aveva sottratto la forma di pane che aveva accanto.

La fame era una brutta bestia, tanto lui in quelle condizioni non avrebbe toccato una briciola.

Amico segreto, amico lontano, guardami! Sono la fredda e mesta luce dell’alba… il freddo e mesto di primo mattino, amico segreto, amico lontano, io morirò.

Perché questi versi giungano al destinatario ci vorranno forse le medesime centinaia di anni che ci mette una stella per far giungere la propria luce a un pianeta lontano.

Ora le immagini che si presentavano ai suoi occhi non erano più quelle dell’infanzia, della giovinezza, dei periodi felici con la famiglia.

Nel suo delirio, nel suo estraniarsi da un mondo terribile avrebbe continuato a scrivere con più passione di prima.

Chi avrebbe desiderato leggerlo poteva farlo.

Lui avrebbe riempito la pagina di più eternità possibile.

Doveva solo dar tempo ai suoi fantasmi di andarsene.