di Luca Baiada

A settembre 1944, per la riapertura dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei fa un discorso che verrà stampato col titolo L’Italia ha ancora qualcosa da dire. L’anno che si apre sotto il governo Meloni, invece, consegna al futuro un paese impoverito, confuso, profondamente ingiusto e innamorato di tristi balocchi: sport corrotto, barbarie da schermo, ossessioni mangerecce, devozionismi piazzaioli, sottocultura fisica fatta di tatuaggi, di tinture per capelli, di sesso ginnico, seriale o immaginato.

Le rovine non sono quelle della battaglia di Firenze, non c’è un comandante «Potente» da piangere insieme, stretti alla Brigata Sinigaglia, ma non c’è neanche da festeggiare la sconfitta dei cecchini, i terroristi del gerarca Pavolini tirati giù dai tetti a fucilate. Anzi, solo a parlare di combattimento a mano armata si rischiano accuse di odio, perché adesso, fra gli ammennicoli di una società rigidamente classista, c’è un accessorio da psicopolizia: l’accusa di malanimo. Un po’ è nipote dei sospetti di stregoneria e malocchio, un po’ è figliastra di certi reati d’opinione evanescenti, quelli nel codice penale che porta la firma di Mussolini, e che la mano del nuovo quadro politico potrebbe persino peggiorare.

Il buon uso delle rovine, alla Franco Fortini, ha fatto poca scuola, e se si dovesse guardare a Firenze si avrebbe un bel campionario: la città vetrina, coi negozi tirati a spolvero, con le luci giuste e il diffusore di profumo, non è quella in Mara di Blasetti (ma da Vasco Pratolini), con Yves Montand, nel 1954. Nel senso che la devastazione, a Firenze come nelle altre città italiane, passa dagli occhi, dalle mani, dai cellulari, c’è chi la trova divertente e c’è chi l’ha trasformata in spettacolo senza intervallo, monolocale nei contenuti e tascabile nei terminali. È il trionfo di un affarismo estrattivo, a spese dell’ambiente naturale, umano, culturale. Persino a spese di qualcosa che si potrebbe chiamare anima, se il concetto non fosse stato prima abusato nelle sacrestie, ma adesso, con più furbizia, accaparrato dalla pubblicità dei prodotti per animali da compagnia.

Bolton King, nel suo Fascism in Italy del 1931, bollava Mussolini come «cattivo europeo» e denunciava: «Odia il “malsano internazionalismo” ed è stato amaro contro le “parole di pace, di umanità, di fratellanza tra i popoli”; accetta la Società delle Nazioni solo in quanto vi è obbligato». Le parentele di questo col sovranismo del XXI secolo sono carsiche e alterate da convitati di pietra: una massa di denaro europeo da spartire, uno sciame di investitori che si sposta secondo le convenienze, un ceto di mediatori che ci fa la cresta con le provvigioni. Di Fascism in Italy, libro asciutto e molto british, stampato clandestinamente da Giustizia e libertà, Lauro De Bosis gettò un po’ di copie, in volo su Roma, prima di inabissarsi nel Mar Tirreno col suo piccolo aeroplano. Oggi De Bosis sembrerebbe un Icaro in vestaglia, un esteta balordo con le paturnie, perché fra le cose che ci hanno rubato c’è il senso profondo di santità civile. È stato sostituito da una italica levitas immutabile, tornata su dai tempi dei cicisbei, degli abatini e delle accademie, come le blatte, inesorabilmente, tornano su dall’acquaio, a dispetto di tutti i disinfettanti.

Anche Cesare Zavattini aveva fiutato la trappola, aveva capito che ci sono molti modi per dire, e molti di più per mettere a tacere: «Per la verità la censura è come Proteo, si trasforma continuamente»; l’autore di Totò il buono vedeva lontano: «Insomma è un modo di vita, un modo di governo». Lo scriveva a proposito di cinema: censura attraverso i finanziamenti, i suggerimenti politici, i premi; ma vale per tutto. Le sue parole riemergono in la Pace. Scritti di lotta contro la guerra (La nave di Teseo, 2021), e il titolo è proprio così, comincia con la minuscola e poi s’ingrossa. Somiglia a lui. Me lo ricordo nel suo studio, coi fiaschi di vino sugli scaffali, insieme ai libri. Adesso il Proteo piglia la forma di una memoria ingessata, innocua, imprigionata in una pappa di chiacchiere, come certi insetti di milioni di anni fa, che non pungono più perché sono avvolti in una goccia d’ambra, mutati in gioielli. La memoria diventata soprammobile: un fermacarte chiamato memoria. Un accompagnamento indispensabile nelle case perbene, come quei fiori da niente in cui Raffaello Giolli vedeva il sunto atroce della sconfitta del Risorgimento, fin nel privato, nella prostituzione degli intellettuali: la conservazione era già riuscita a impadronirsi di ogni cosa; «ma non della storia, che è un’altra cosa. Tutt’al più, s’è detto, dei libri degli storici: ma anche questi non erano che oggetti deperibili, un illuso ornamento dell’ora, altri fiori di carta». Così scriveva, quel grande, prima di essere deportato a Mauthausen Gusen, da cui non avrebbe fatto ritorno.

In questo momento l’Italia non ha nulla da dire perché si parla nell’ombelico, perché non ha niente da dire agli altri, perché è un paese rattrappito.
Gli avvertimenti non erano mancati, e presto. Nell’Antologia della Resistenza, ideata nel 1950 a Torino, al congresso nazionale dei centri del libro popolare, c’è un’introduzione di Augusto Monti, che ci tiene a far sapere di averla scritta a Cavour:

Oggi, a cinque anni soli dalla Liberazione, in Italia c’è di nuovo il fascismo, nella Europa occidentale e centrale c’è di nuovo il nazifascismo, in America è spuntato e s’espande il fascismo. E si voleva, di nuovo, dare l’allarme: ricordare che il fascismo è come la gramigna, che finché non s’è fatto tutto per estirparla non s’è fatto niente; e un campo dove alligni anche una piccola radice di tale zizzania non può portar nulla di buono. Il fascismo è il fior del male. È il grido della civetta, segna la morte. È come la stella cometa che viene ad annunciare la guerra: oggi il fascismo, domani il peggio.

Ma nel 1950 l’unità del fronte antifascista era già quasi un ricordo. Tutti si sentivano più furbi di quell’arnese superato, troppo corto per una rivoluzione e troppo lungo per il quieto vivere, come l’abito smesso di un fratello a cui si rimproverano oscure colpe, per nascondere la propria inadeguatezza. Tutti avevano priorità urgenti, escatologie formidabili, promesse dell’avvenire, di qua o di là dalla morte. Qualcuno voleva imparare da Machiavelli i trucchi per giocare d’astuzia il papato, mentre il Vaticano si leccava ancora le labbra per il buon boccone concordatario, incassato nel 1929 ed entrato nella nuova Costituzione, nel 1947, a dispetto della Repubblica.

Le promesse al di qua della morte, prima della fine del secolo si sarebbero rivelate più facili da mettere alla berlina: sarebbe bastato prendere a picconate un muro. Le altre, si sa, si prestano meglio a differimenti controllati, a indulgenze, a compravendite di anime del Purgatorio, al «vi faremo sapere». Questo spiega perché la morte di un tedesco coi modi zuccherini dell’Omino di burro di Collodi, un bavarese che nel 1950 era un giovane chierico, ma che pochi anni prima aveva fatto parte della Hitlerjugend, della Wehrmacht e della Flak, combattendo per Hitler, nel 2023 attira folle a Roma, e si sente gridare «santo subito» come per il suo predecessore polacco, che lui stesso canonizzò a furor di popolino.

Il secolo breve che comincia a Sarajevo, finisce a Sarajevo, nota Eric Hobsbawm in The Present as History, uno scritto vertiginoso pubblicato come «Creighton Lecture», perciò rispettabile come una bombetta londinese. Le questioni nazionali si ripresentano, ombre col corpo, false perché hanno qualche verità fra parentesi. Le insiemistiche umane che le solidarietà di classe perdono di vista, tornano a braccetto delle sorellastre identitarie e viscerali, e finisce l’incantesimo: Cenerentola si ritrova nei cenci di serva, la carrozza d’oro torna a essere una misera zucca.
L’Italia, un po’, aveva provato a fare chiarezza, soprattutto quando era stata chiarezza di parte. Raffaello Ramat, nel melmoso clima badogliano dell’agosto 1943:

Di questo avvilimento generale una classe sopra tutte è responsabile: quella degli scrittori. Gli scrittori hanno il compito di educare. Non si venga fuori con l’autonomia dell’arte: quello è un altro discorso, e chi lo incominciasse ora, vorrebbe imbrogliare le carte. […] In ispecie agli scrittori dei giornali, si deve la situazione che si era stabilita in Italia, per cui ciascuno mentiva e chi l’ascoltava fingeva di crederlo in buona fede perché gli altri fingessero di crederlo in buona fede quando fosse arrivato il suo turno di mentire.

Si vede che non era stato ascoltato, molto tempo prima, Giuseppe Mazzini: «Pensate a rinnovare l’edificio intellettuale con gli scritti poiché il politico non potete; scotete le menti, mutando il punto di mossa e la linea di direzione, scrivete storie, romanzi, libri di filosofia, giornali letterari; ma sempre colla mente all’intento unico che dobbiamo prefiggerci, col cuore alla patria». Patria. Si ascolta male, questa parola, se a ripeterla adesso è un governo che vuole togliere ai poveri un misero sussidio, persino diversificare i diritti sociali secondo le regioni, chiamando l’inganno «autonomia differenziata». Si ascolta male, mentre ragazzini imberbi cadono sul lavoro, in omicidi chiamati «incidenti». Ma il senso del discorso era forte, in Mazzini: l’Italia e l’unificazione nazionale, o sono per l’umanità, o non sono. Pericoloso o inconfessabile?

Renzo Renzi, che era stato fascista, che si era chiarito le idee in guerra, e che nel 1953 finì in galera per il progetto di un film imbarazzante, L’armata s’agapò, mise in guardia: «Il fascismo era la patria. Com’era possibile rovesciare il fascismo senza rovesciare anche la patria, religiosa comunità degli italiani? (Simili giochetti sono di moda anche oggi da parte di chi si identifica con la patria, quindi esige il massimo rispetto)». Ma neanche negli anni Cinquanta, un partito si sarebbe cucito un nome sforbiciando le prime parole dell’inno nazionale.

Quando il progetto fu continentale, invece, patria si poté dire con altri sensi. Una fotografia, a Montefiorino. Due partigiane armate ne affiancano una terza, raggiante, che srotola da un pennone una bella bandiera. Guardi meglio, cerchi il punto alla Roland Barthes, e vedi che il pennone è un mattarello, la bandiera è una sfoglia di farina: forse serve per una grossa piadina, forse è la base per ritagliarci i tortellini. Una frugale abbondanza armata, una padronanza del proprio destino che sprizzano gioia. Allora, l’Italia ebbe qualcosa da dire, affidando l’orazione a una pagina appetitosa e a grosse biro d’acciaio, di quelle col manico e la cinghia a tracolla. Ma il volume era un’opera aperta, che sotto raspava la terra e intorno la sognava tutta quanta, come il trattore della famiglia Cervi, col mappamondo montato sopra il motore.

Antonio Gramsci, ricordando il primato italiano riconosciuto proprio da Mazzini, come da Gioberti, lo considera retorico ma salva la sostanza: c’è un cosmopolitismo italiano, non perché romano né perché cattolico, ma come produttore di civiltà: «La tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale o nell’intellettuale tradizionale». È il «popolo lavoratore», cosmopolita per vocazione storica, che non sfrutta ma coopera alla costruzione del mondo, perché «si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione». Di questo non c’è una migliore spiegazione, ma quel che conta è che Gramsci finisca per salvare un primato. Eppure, persino lo storico Cesare Balbo aveva messo in guardia dalla pretesa di imitare l’impero romano: «Per non essere degeneri bisogna saper essere decaduti», aveva scritto nel Sommario della storia d’Italia, lettura d’uso dell’Ottocento. E Benedetto Croce, in La storia come pensiero e come azione, ha buon gioco a chiarire che gli italiani non sono gli antichi romani, insomma a spiegare:

Un popolo nuovo col nostro male e col nostro bene, strettamente legato al mondo tutto del nostro momento storico, un popolo che si ricongiunge, ma solo idealmente, agli altri che vissero sulla medesima terra (medesima a un dipresso), quando compie nella vita civile cose grandi come le compierono quelli.

Una continuità in funzione del merito, ma non quello che nel 2023 dà il nome a un ministero. E poi: cose grandi, ma non si sa come. Tutto questo non ricorda il barone di Münchhausen e il suo gesto salvifico, quando si solleva da un fosso, lui e il cavallo, tirandosi per il codino? In ambito marxista, c’è un ruolo messianico della classe operaia, specialmente quella tedesca. Secondo Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, negli «Annali franco-tedeschi», il proletariato che è vittima dell’ingiustizia assoluta può riscattare l’uomo e tutta la società, e questa è l’emancipazione tedesca; l’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo, filosofia e proletariato possono realizzarsi ed emanciparsi solo insieme, «il giorno della resurrezione tedesca sarà annunziato dal canto del gallo francese». Negli stessi «Annali», però, ci sono i versi di Georg Herwegh, un poeta oggi trascurato:

Su un altare arroventato,
com’è l’uso dei tedeschi,
ci indoraste le catene
per non farle arrugginire.
Tirapiedi dei Borboni –
puah! che storia fastidiosa!
Quale mai, fra le nazioni
la Germania non tradi? […]
Testimone, quella morta
Repubblica italiana.

Un secolo dopo gli «Annali franco-tedeschi» il gallo francese, servo dell’aquila con la svastica, produrrà il mostro di Vichy agli ordini di Berlino. Ma contemporaneamente un altro poeta, stavolta italiano, Pier Paolo Pasolini, si sottrarrà alla divisa della Rsi, e in seguito darà il titolo al primo romanzo prendendolo proprio da Marx, da una lettera del 1843, negli stessi «Annali»:

Riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente.

Come si sia potuto, partendo da questo sogno e da questa liberazione, mettere sugli altari il diamat, materialismo dialettico in confezione staliniana, è un’opera al nero che può sorprendere chi non considera altre imbalsamazioni: partendo dalla presa della Bastiglia, si è arrivati a incoronare Napoleone e consorte, imperatore e imperatrice, direttamente in una cattedrale; partendo dal Discorso della montagna, si è arrivati allo Ior e ai patriarchi ortodossi che benedicono le armi russe e ucraine, magari litigando sul calendario del Natale.

Ha qualcosa da dire, chi fa e dice per gli altri. Per questo, l’Italia incapricciata d’un padrone, o al limite d’una padroncina, può tutt’al più borbottare.
L’ultima lettera dell’austriaco Rudolf Fischer alla figlia ce la consegna la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, a cura di Malvezzi e Pirelli, con prefazione di Thomas Mann: «Credimi: chi vive solo per sé, chi solo per sé cerca la felicità, non vive bene e nemmeno felice. L’uomo ha bisogno di qualcosa che sia superiore alla cornice del proprio io, dico di più, che sia sopra al suo stesso io». Fischer è decapitato dai nazisti il 28 gennaio 1943.