di Marco Gabbas

Ho saputo con molto ritardo della morte di Claudio Venza, professore anarchico triestino che avevo conosciuto nel 2009. Claudio era nato a Trieste nel 1946 in una famiglia proveniente dalla Sicilia. Si era politicizzato durante gli studi universitari svolti negli anni ’60, e da allora era rimasto sempre coerente ai suoi ideali anarchici. La sua lunga attività si può dividere sommariamente in due filoni: da un lato, l’attività militante che ha sempre svolto nel circolo anarchico triestino Germinal (con relativa rivista); dall’altro, la sua attività di storico della contemporaneità, e più precisamente dell’anarchismo e della Spagna contemporanea. Io non ho titoli per parlare della sua attività nel gruppo Germinal, che ho incontrato solo fugacemente. Oltre al ricordo umano che ho di Claudio, posso però parlare della sua attività di storico. Fu appunto durante un corso da lui tenuto nel 2009 che lo conobbi, e io mi sono potuto in seguito avvicinare allo studio della storia a livello professionale proprio grazie a lui. All’epoca, io studiavo in tutt’altra facoltà, ma decisi di frequentare il corso di Claudio, che verteva sul biennio rosso 1968-69, come corso a scelta. Devo dire che fu una scelta molto azzeccata, perché mi trovai di fronte a una persona appassionata che riusciva davvero a coinvolgere chi lo ascoltava.

Ricordo ancora le lezioni che si svolgevano di sera in una specie di soffitta dell’università di Trieste, con il soffitto che aveva le travi di legno a vista (se da un lato questa sistemazione dava un po’ di colore, è anche un’allegoria dell’importanza che l’università italiana dà alle materie umanistiche). Con i suoi occhiali spessi e il berretto che spesso indossava anche al chiuso per proteggersi dal freddo, Claudio ci coinvolgeva con discorsi lunghi ma mai noiosi, spaziando fra i temi più vari e accompagnandosi con grandi gesti.

Oltre alla passione che mi ha trasmesso per questo specifico periodo della storia d’Italia (gli anni ’60 e ’70), Claudio è stato anche autore di opere interessanti sull’anarchismo e sulla Spagna contemporanea. In particolare, vorrei ricordare il libro da lui curato Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona (Odradek, 2011). Questo libro raccoglie per iscritto ore e ore di interviste orali fatte da Claudio e da altre persone a Umberto Tommasini, anziano anarchico triestino che aveva combattuto nella guerra di Spagna. Il libro è di particolare interesse dato che non è la storia di un leader anarchico come sono stati per esempio Bakunin o Malatesta, ma di un militante anarchico apparentemente anonimo e non particolarmente istruito. Come disse Claudio in un’intervista, e riferendosi alla professione di fabbro svolta da Tommasini, era una persona abituata a maneggiare più l’incudine e il martello che non la penna. Il merito di Claudio è stato non solo quello di raccogliere una testimonianza interessante prima che andasse perduta, ma anche quello di darle una continuità narrativa, di modo che fosse godibile e leggibile come un romanzo. In una sua corposa introduzione, Claudio ha toccato temi spinosi come i dissidi anche cruenti che vi furono fra anarchici e comunisti durante la Guerra civile spagnola. Nella stessa introduzione, ha anche menzionato un tema praticamente sconosciuto ai più, cioè i comunisti italiani finiti nei gulag sovietici. Dettaglio particolarmente interessante è che Tommasini, da anarchico, aveva mantenuto rapporti cordiali con un suo amico comunista italiano che era stato internato in un gulag. Per quanto possa essere incredibile, i due riuscivano a scriversi.

Altro libro di Claudio che vorrei ricordare è Anarchia e potere nella guerra civile spagnola (1936-1939) (elèuthera, 2016). In questo agile volume, Claudio aveva abilmente analizzato la contraddizione nella quale gli anarchici spagnoli si erano trovati durante la guerra civile. Pur professando un’ideologia che si opponeva non solo allo stato, ma anche all’autorità e al potere in quanto tali, erano stati costretti dalla guerra ad affrontare la questione del potere. Ciò significò la collaborazione con altre forze ritenute autoritarie, la partecipazione al governo repubblicano con diversi ministri, e probabilmente l’introduzione di una certa disciplina anche nelle truppe anarchiche. Verso la fine della guerra, alcuni anarchici spagnoli avevano riconosciuto che per la sopravvivenza della repubblica o anche solo per evitare la conquista del potere da parte di Franco, un cedimento all’autorità era inevitabile.

Oltre a queste opere meritevoli, ciò che mi resta di Claudio Venza è il suo esempio umano, politico e morale, e in generale la sua passione per la storia. Dopo il corso fatto con lui nel 2009, eravamo entrati in confidenza e ci tenevamo sempre in contatto, pur a distanza. Parlavamo di tante cose di storia, ci scambiavamo libri, e ci punzecchiavamo bonariamente. A lui piaceva darmi dell’autoritario, nonostante avesse circa quarant’anni più di me. Fu grazie a lui se riuscii a entrare in un corso magistrale di storia in una università straniera. In molte università straniere, infatti, per fare domanda di ammissione è necessario allegare delle lettere di presentazione firmate da studiosi che hanno conosciuto il candidato. Claudio accettò di buon grado di scrivere questa lettera, e fu anche grazie ad essa che fui ammesso e che sinora ho potuto continuare ad occuparmi di storia a tempo pieno.

Ci sono alcune sue frasi particolari che mi sono rimaste impresse. Accennando al fatto che spesso una persona può insegnare all’università solo se è “figlia” di qualcuno, lui si era definito «figlio di nessuno». Quando una volta avevo accennato che lui era stato il mio maestro, lui mi scrisse memorabilmente: «Ognuno è maestro soprattutto di sé stesso». Ironizzando sui suoi problemi cardiaci, mi aveva detto di recente: «Vedi, io quando insegnavo ci mettevo il cuore, ecco perché si è stancato così tanto e ora sta male». Nonostante io non abbia mai pienamente condiviso la sua impostazione libertaria (anche se la ritengo foriera di una critica salutare verso gli autoritarismi), ho sempre ammesso e ammirato la sua coerenza. Come mi aveva detto un’altra volta: «Io cerco di fare l’anarchico da qualche decennio». Per finire, un’altra sua frase che mi è rimasta impressa verteva su una sua critica ai giovani “estremisti” che una volta sistemati abbandonano gli ideali di un tempo e passano dall’altra parte. Parafrasando Rudi Dutschke, aveva detto: «Vedi, anzi che marciare attraverso le istituzioni, questi qua ci hanno marciato dentro e sono rimasti lì!» (in posizioni ben pagate e privilegiate, aggiungo io).

Insomma, ora che Claudio Venza non c’è più, mi mancherà quel professore che mi chiamava autoritario…

Come spesso firmava le sue mail, «Abrazos», Claudio!