di Gioacchino Toni

Il volume di Alice Mammola, Voci. Storia di un corredo orale (Armillaria, 2022), in uscita proprio in questi giorni, analizza i contenuti di canzoni popolari intonate dalle donne in risposta a un bisogno di prendere la parola e di rompere il silenzio loro storicamente imposto.

Nel libro viene evidenziato come in diversi canti intonati dalle donne si manifesti un «atteggiamento consapevole, risoluto e di sfida delle norme, ben lontano dai sentimenti di sottomissione e rassegnazione che caratterizzano altri linguaggi».

In un contesto in cui la Storia ha tolto voce ed espressione alle donne, per farsi narratrici queste hanno individuato nel canto un’occasione di elaborazione di un discorso autonomo capace di divenire memoria storica tramandata come “corredo orale”. «Una memoria in cui si affermano in prima persona e che ha trasformato la loro voce, fornendo uno spazio per esprimere il loro contributo partecipativo ed emotivo, discostandosi dalle esposizioni che su di loro sono state fatte in letteratura e altri campi».

Si tratta di canti intonati in luoghi pubblici come cortili, lavatoi, stalle, risaie, fabbriche e piazze, raramente accompagnati da strumenti musicali. «Voce vera che dice. Voce sporcata dalla fatica del lavoro. Niente a che vedere col bel canto e l’esercizio del solfeggio. È voce che tiene il ritmo mentre lavora, voce che serve da accompagnamento al fare».

Al pari di altre produzioni orali, i canti popolari, sostiene Mammola, possono essere considerati proprietà collettiva della comunità. «Restituire il contesto storico-sociale in cui queste storie sono immerse, non come singole biografie e nomi propri ma come collettività, ripulendo le narrazioni dall’inquinamento protratto per secoli dal sistema patriarcale, significa riprendere in mano la complessità, ampliare spazi, intravedere le voci messe in sordina che erano anch’esse protagoniste vive e attive».

Quelli analizzati dalla studiosa sono canti che non hanno paura di nominare le sofferenze, i desideri, le aspirazioni lavorative di una collettività, capaci di farsi «strumento di resistenza e di richiesta», di opposizione alla concezione dominante della condizione femminile.

A differenza della produzione intellettuale e letteraria delle classi più agiate, le canzoni popolari danno voce alle speranze, le rivendicazioni e le emozioni della classe povera e lavoratrice, molto spesso analfabeta o comunque priva di un accesso diretto alla parola scritta. Ne emerge una presa di coscienza in termini di genere, classe sociale, disparità che si traduce talvolta in un grido di denuncia. Il racconto delle cose nomina e riconosce. Le parole diventano patrimonio di tutte. Le figure liminali che hanno trasmesso e riportato molti di questi canti hanno il grande merito di aver tramandato una visione del mondo ricca di elementi sovversivi, rispetto al destino che molto spesso viene tracciato nei canti di stampo maschile.

Mammola passa in rassegna i canti popolari femminili indagando come le voci delle donne abbiano saputo e voluto narrare dal loro punto di vista la vita quotidiana, il mondo del lavoro, le lotte e la guerra. A proposito di quest’ultima la studiosa si è sofferma soprattutto sui canti corali delle donne nel periodo della prima guerra mondiale in cui

con coraggio sfidavano il destino, rivendicando la loro sessualità, denunciando le oppressioni, ribaltando la condizione di vita domestica e infrangendo le regole della castità, dell’eteronormatività o della mancanza di desiderio sessuale. Nelle canzoni la loro voce diventa quella di un soggetto parlante, desiderante, che si esprime e autodetermina senza la paura di dire come vive e come soffre. Far uscire con la voce cantata problemi come la violenza di genere, le molestie, gli stupri, il diritto a un salario giusto e paritario significava portare queste questioni dal privato al pubblico e quindi farne un tema politico.

In diversi canti le donne denunciano «l’insensatezza della guerra e rivendicano al contempo una forza militante e combattente. Pur nella loro diversità, il servizio militare e il lavoro delle mondariso hanno alcuni punti in comune: sono esperienze di giovani che si allontanano dalle famiglie e dai contesti conosciuti per vivere un’esperienza dura e faticosa insieme a persone provenienti da altri luoghi».

Non a caso, nota l’autrice, diversi vocaboli utilizzati dalle mondine per raccontarsi sono derivati dalla vita militare, così come vari canti da esse creati e intonati sono mutuati da canzoni di caserma. A proposito della vita nella risaia, ad esempio, un canto afferma: «È già da un mese che faccio la monda, / la disciplina è come i soldati: / mangiare, dormire come i carcerati, /e tutto il giorno non debbo mollar».

L’ostilità nei confronti della guerra che si ritrova nelle strofe intonate dagli uomini al fronte – «Prendi il fucile e gettalo per terra, / prendi il fucile e gettalo per terra, / vogliam la pace, vogliam la pace, / vogliam la pace e non vogliam la guerra!» – si ritrova anche nei canti delle donne nelle risaie: «E se qualcuno vuol far la guerra / tutte unite insieme noi lo fermerem, / vogliam la pace sulla terra / e più forti dei cannoni noi sarem».

Dai canti dei soldati in trincea emerge spesso la consapevolezza di come la guerra non rappresenti gli interessi della popolazione e ciò viene espresso attraverso un senso di rassegnazione e fatalismo incentrato sulla retorica dell’uomo costretto ad allontanarsi dall’amata e dalla madre andando probabilmente incontro alla morte.

Le donne a cui rimandano i canti degli uomini al fronte sono le mogli, le fidanzate e le madri a cui si rivolgono spesso in forma di “lettera cantata”, come se si trattasse delle ultime parole rivolte loro prima di andare inesorabilmente incontro alla morte. Sono canti in cui non di rado si «toccano i sentimenti condivisi della famiglia sganciandosi dalla retorica maschilista e patriarcale. Il tono di queste testimonianze è indubbiamente in opposizione alla narrazione ottimista della partenza e all’esaltazione eroica della missione».

Quasi in risposta ai canti intonati al fronte che fanno riferimento al timore del tradimento da parte della fidanzata o della moglie, le mondine delle risaie vercellesi intonano versi come questi: «I nostri richiamati sono andati da Cadorna / perché le loro mogli gli fan portar le corna. / Bom bom bom sotto il rombo del cannon, / Cadorna gli ha risposto, non fate meraviglia / quando andrete a casa troverete più famiglia. / Sta attenta Filomena, che lo dico a tuo marito / che i soldi del sussidio li mangi con l’amico. / Il povero marito faceva il pecoraio, / le capre ci morivano le corna ci restarono».

Ai canti militari enfatici e patriottici disseminati di riferimenti virili e nazionalisti, in cui si racconta «di giovani combattenti valorosi, di mostrine e stelle, di onore e di vittoria contro gli antagonisti nel tentativo di infiammare i cuori della nazione», si contrappongono «quelli di trincea sull’amore, la fame e il desiderio di tornare a casa». La voce delle donne, invece,

mette in guardia dalla morte e dalla stupidità di combattere: la guerra per le donne è maledetta. Il punto di vista femminile nelle canzoni rivela infatti una visione coraggiosa che affronta scientemente l’argomento della guerra. I nemici da maledire sono lo Stato, il re, chi decide di mandare i loro cari a morte certa. La donna canta il lutto e la fatica di restare da sola ma senza far ricorso a un tono pietistico e drammatico, anche in questo frangente i testi delle canzoni sono taglienti. La parola è pragmatica e arrabbiata; nel condannare l’insensatezza del conflitto si fanno i conti con la vita quotidiana […]. Il grido che si sprigiona nei canti femminili che vivono la guerra da un ‘fronte interno’ è ribelle, vibra della consapevolezza che le guerre le decidono i ricchi e le combattono i poveri per conquistare un palmo di terra (da Fuoco e mitragliatrici). Conoscono bene le conseguenze drammatiche che peseranno sui poveri, per il loro legame con il territorio depredato, le case distrutte, la fame, la precarietà; sanno la fatica della ricostruzione e denunciano il costo umano che verrà pagato dagli ultimi e dalle ultime.

Ecco allora, scrive la studiosa, che le parole di rabbia delle donne divengono un canto apertamente antimilitarista capace di gridare a voce alta e corale: «E maledico chi vorse la guerra, / i primi son stati gli studentini / e quanta gioventù caduta ‘n terra / e quanto sangue sparso pe’ confini. / Vittorio Emanuele re del regno, / o quanta gente hai fatto macellare, / se vuoi i sordati fatteli di legno / ma i’ mi morino lasciamelo stare. / Vittorio Emanuele cosa fai, / la meglio gioventù tutta la vòi, / la meglio gioventù tutta la vòi, / e l’amor mio quando me lo ridai?».

Siamo dunque lontani, sottolinea Mammola, dalla rassegnazione; la voce delle donne «tende semmai a porsi in modo sabotante, a essere controcorrente, un pensiero lungimirante veicolato da parole coraggiose. Nei canti esprimono il rifiuto di partecipare alla distruzione e alla sopraffazione, denunciano come l’autoritarismo intensifichi le disuguaglianze e calpesti i diritti umani. Non hanno il dubbio dell’eroismo e della missione, e soprattutto non hanno niente da perdere nel dichiarare la loro disapprovazione».

Negli anni del fascismo, alla retorica del regime che distribuisce medaglie alle madri di famiglie numerose, diverse canzoni delle donne rispondono protestando della situazione in cui si sono venute a trovare con la guerra che le vede lasciate sole a gestire la fame propria e dei famigliari mentre il marito è al fronte. Sempre a proposito di guerra, nell’analisi di Mammola non mancano canti in cui compaiono o prendono la parola donne combattenti, soprattutto durante la stagione della Resistenza.

Oltre al punto di vista delle donne sulla guerra che emerge dai canti popolari, il volume indaga le canzoni intonate a proposito della loro condizione di vita, di lavoro e di lotta ricostruendo una modalità di presa di parola spesso sovrastata dalle voci e dagli immaginari maschili. Certamente un libro utile a chi desidera imparare ad ascoltare.