di Mauro Baldrati

Quel gomitorio di Everything Everywhere All at Once

Nel dialetto della latitudine nord della bassa ravennate “vomitare” si diceva “gomitare”; per cui “ho il vomito” diventava “ho il gomito”; e una pietanza dal sapore particolarmente disgustoso si definiva “un gomitorio”. E’ un aggettivo perfetto per definire questo film. Ha avuto recensioni positive, alcune inneggianti al “capolavoro indie”, un “vortice anarchico di generi”, un “favoloso delirio”. Di favoloso c’è ben poco, ma il delirio dilaga. In alcuni punti il frenetico caleidoscopio di rimandi al mondo del “multiverso” raggiunge un parossismo privo di qualsiasi senso, non riscattato da una ricerca multigenere né tanto meno intriso di sperimentalismo estetico e narrativo. Dopo meno di un’ora, in cui il furore orchesco dei due registi/sceneggiatori è abbastanza sotto controllo, la storia inizia ad avvitarsi nello tsunami di grida, mitragliate di immagini provenienti dai vari universi paralleli, tanto che lo spettatore o si addormenta, o si impone di restare per non subire la frustrazione dell’abbandono, preferendo quella di una stoica sofferenza. Oppure, reazione incomprensibile, si diverte.

La vicenda in sé non è particolarmente originale, ma neanche troppo banale. Una famiglia americana di immigrati cinesi gestisce una grande lavanderia a gettoni in crisi finanziaria. La moglie è la vera imprenditrice, sempre esasperata e sgridante, mentre il marito è un debole, sottomesso e, scopriremo, stufo del matrimonio con una virago sempre spazientita, per cui ha chiesto il divorzio. Entrambi sono contrariati dalla decisione della figlia di affermare palesemente la propria omosessualità. Tutto procede quasi come nel quadretto di uno Spielberg nevrastenico, la rappresentazione della middle class americana molto poco edificante ma segnata dalla crisi, dalla perdita dei valori eccetera. Il tutto veicolato da una recitazione e da un flusso narrativo sempre sopra le righe. Poi iniziano le incursioni. Per mezzo di una specie di cuffia, e di varie madeleine disseminate qua e là – lo sgabuzzino delle scope, farsi la pipì addosso e così via – si aprono dei gates coi vari universi del Multiverso, dove ognuno di noi vive esistenze differenti, con qualità e talenti diversi. Due alter ego multiversiani interferiscono coi due protagonisti: una specie di agente segreto prende il posto del marito, cercando di rendere cosciente la moglie, che sarebbe l’eroina prescelta per fronteggiare una creatura del male che viaggia attraverso gli universi ed è arrivata fino a noi. Da qui in poi, inesorabile, parte la macchina scalena della follia metanfetaminica, così poco favolosa ma così aggressiva nei confronti del povero, ignaro, ingannato dalle recensioni, spettatore.

Un aspetto interessante, forse l’unico, sono i combattimenti di arti marziali. Davvero spettacolari, con soluzioni tecniche mai viste prima. Ma non bastano, purtroppo, per risarcire, neanche in parte, il senso di insopportabile inutilità che pervade tutta l’opera. (In sala.)

Quel capolavoro nero di Niente di nuovo sul fronte occidentale

La guerra, questa compagna inseparabile della specie umana, ha offerto moltissimi spunti per la cinematografia, producendo opere importanti, opere di denuncia per questa follia senza fine. Una fra tutti, ambientata nella Grande Guerra, la prima guerra moderna: Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick. Ci sono molti punti in comune, la trincea come sprofondamento nella malattia, nella morte lenta, la disperazione ma anche l’istinto di sopravvivenza, la pazzia criminale dei generali. Questo film accetta la sfida, avventurandosi, con una solida guida estetica e politica, nell’immensa, feroce giungla dell’Inferno.

Notevole è l’inizio, la ricostruzione dell’ambiente tedesco anteguerra, il furore interventista che ebbe, come interfaccia speculare, lo stesso fanatismo italiano. I giovani maschi, irretiti dalla propaganda, dalla promessa di gloria e onore, come gli antichi guerrieri greci e romani fremevano per arruolarsi, per la patria. Il protagonista Paul, poiché è ancora minorenne, arriva addirittura a falsificare la firma dei genitori per avere l’assenso. E mentre partono, quanta allegria, quanta esaltazione, quante aspettative.

E quanto dolore, quanta disillusione quando arrivano al fronte. E quanto orrore nella trincea, in inverno, piena d’acqua lurida e di fango, dove affondano e si congelano, sempre affamati e assetati. Ogni tanto arriva l’ordine, “attacco!”, e nessuno sa se tornerà vivo nella orribile cloaca paludosa del dolore e dell’impossibile. Sbucano fuori dalla fossa, come topi, e si gettano nella terra desolata crivellata di buche e di alberi morti, flagellati dalla mitragliatrice, cadendo come birilli, smembrati dalle granate. Attacchi privi di senso, prodotti dal delirio di potenza di generali felloni, indifferenti alla tragedia dei loro sottoposti, indignati perché la brioches che l’attendente ha loro servito non è abbastanza fresca. Il generale capo dell’esercito tedesco, un fanatico guerrafondaio, non volendo accettare la resa della Germania, arriva a ordinare l’ultimo attacco, poiché mancano alcune ore all’entrata in vigore dell’atto, provocando altre migliaia di morti.

Fin qui pare l’ennesimo film sulla guerra horror, già segnato da molti capolavori. Non è così. Riesce a produrre un altro step verso l’originalità, nella discesa agli inferi della follia, e della paura che questo possa essere il nostro immutabile destino, la nostra maledizione atavica: un predatore maligno che avanza nel presente e nel futuro come un immenso serpente velenoso per ingoiarci tutti. E mentre precipitiamo nel pozzo nero dell’incubo, dei fantasmi e dei non morti, avvertiamo anche l’alito gelido del demone successivo, quando sia in Germania sia in Italia, a guerra non terminata ma solo sospesa, un altro predatore affiancò il serpente, un mostro che si nutriva di povertà, di rabbia e di sconfitta: si chiamò nazi-fascismo. Pronto per scatenare un’altra mostruosa guerra di sterminio. (Su Netflix.)