di Carlo Modesti Pauer

(Terza parte)

Il libro

Il lavoro come bibliotecario non è certo il frutto di un’offerta d’impiego accidentale. L’accesso immediato alle pubblicazioni in tema, comprese le novità, consente a Roy un risparmio di tempo e denaro che gli permette di imparare sul campo i rudimenti del mestiere di storico, di cui però egli si serve per scopi politici. L’Autore ha appena compiuto 50 anni, è impegnato nella lotta per l’indipendenza da trenta e i suoi studi disorganici sono per lo più in ambito tecnico, la formazione umanistica è una costruzione d’autodidatta, così anche l’approccio alla storiografia sul Gesù opposto al mito della Fede. La bibliografia è dunque secondaria e infatti, in una recensione di una rivista scientifica dell’epoca si legge: “l’autore è un giornalista franco-canadese, pioniere del Movimento per l’indipendenza del Québec”.

È difficile stabilire quando e in che modo l’immagine del “cristo” con cui è cresciuto il piccolo Raoul, ovvero quella cattolica nel Québec anni Venti, trasfiguri nei pensieri del “militante rivoluzionario” in un uomo, in fondo non troppo diverso da lui e dai suoi compagni solo vissuto duemila anni prima. È possibile però individuare uno snodo centrale perché all’onnivoro Lettore, da sempre attento a intercettare voci del clero cattolico più che eretiche, non è sfuggita in quel 1965 la pubblicazione di un libro sorprendente, su un ancor più straordinario personaggio. A Parigi, lo storico e sindacalista rivoluzionario Maurice Dommanget ha dato alle stampe un libro con un titolo scioccante: Le Curé Meslier, athée, communiste et révolutionnaire sous Louis XIV (Padre Meslier, ateo, comunista e rivoluzionario sotto Luigi XIV).

Jean Meslier è “un curato di campagna”, come il protagonista del romanzo di Georges Bernanos (Journal d’un curé de campagne, 1936) portato sullo schermo da Robert Bresson nel 1951, ma non tiene un diario, scrive un incredibile testamento. Dopo aver esercitato per quarant’anni il suo ministero di parroco senza far registrare alle cronache particolari eventi, nel 1724 a sessant’anni si sente prossimo alla fine (1729) e decide di mettere mano al suo lascito che in previsione dell’effetto redige precauzionalmente in tre copie manoscritte, affidate al suo successore. Alla morte di Meslier, il nuovo parroco legge il documento e ne rimane sconvolto, così come gli altri preti della diocesi ai quali lo sottopone. Presto lo scandalo si propaga e giunge alla corte del re, costringendo il vescovo – che avrebbe voluto bruciarlo – alla consegna del materiale agli uffici giudiziari per la custodia in quanto ultime volontà di un defunto senza eredi. La curiosità degli intellettuali e dei nobili oziosi dell’epoca è tanta e può essere soddisfatta corrompendo con pochi spiccioli un impiegato, il quale chiudendo un occhio permetta di ricopiare il famigerato testamento. Che diventa presto un segreto di Pulcinella. Nel 1733, uno dei tanti manoscritti “clonati” finisce nelle mani di Voltaire che ne pubblicherà alcuni frammenti, peraltro molto edulcorati, nel 1762. La Chiesa di Roma tenterà di derubricare i fatti a leggenda nera, giungendo a negare l’esistenza dello stesso Meslier, ma riuscendo solo a limitare la conoscenza dell’eretico curato presso il grande pubblico, sostanzialmente nello Stato Pontificio e poi nell’Italia unitaria.

Nel testamento, Meslier chiede scusa ai suoi parrocchiani cui ha mentito tutta la vita, per aver predicato sulla base di una religione fondata sull’errore, la menzogna, l’illusione e l’inganno, come si legge fin dal titolo integrale di un testo che a una prima stampa completa[1] occuperà 1200 pagine: Memoria dei pensieri e delle opinioni di Jean Meslier, prete, curato di Étrépigny e di Balaives, su una parte degli errori e degli abusi del comportamento e del governo degli uomini da cui si dimostrano in modo chiaro ed evidente le vanità e le falsità di tutte le divinità e di tutte le religioni del mondo, affinché sia diretto ai suoi parrocchiani dopo la sua morte e per essere usata da loro e da tutti i loro simili quale testimonianza di verità. Una bomba.

Nella ricostruzione storica di Dommanget consultata da Roy, si legge che Meslier dopo aver confutato la figura assurda e contraddittoria che ne propongono le Scritture, considera Gesù un piccolo impostore locale, un sedicente messia capace di provocare a Gerusalemme uno dei tanti tumulti repressi dai Romani e sempre sedati con la condanna a morte per crocefissione del leader con i suoi seguaci. A partire da ciò, nella ricerca di una interpretazione più moderna dell’uomo celato dietro al fantomatico Cristo della fede, Roy – nell’archivio presso cui lavora – incontra la bibliografia essenziale del dibattito sul Gesù storico, a cominciare dalla ponderosa opera del poliedrico studioso Robert Eisler. Ebreo austriaco, docente a Oxford e alla Sorbona, Eisler è l’autore di Iesous basileus ou basileusas (Il re che non ha regnato) pubblicato in tedesco nel 1929, poi rivisto, asciugato e tradotto in inglese due anni dopo con il titolo The Messiah Jesus and John the Baptist,[2] in cui sostiene che dalla morte di Erode il Grande (4 p.e.v.) fino all’esplosione della Guerra Giudaica (66 e.v.), la Palestina è interessata da un’ondata di nazionalismo militante tenuto sotto controllo con difficoltà dai Romani e dalle autorità ebraiche “collaborazioniste”. In tale contesto, i rivoltosi acclamano Giovanni (cd. Battista) come Sommo sacerdote – alternativo al clero filoromano del Tempio – il quale annuncia la necessità di purificazione collettiva dal giogo straniero mediante “battesimo” e profetizza l’avvento di un successore che avrebbe dovuto regnare da “Unto del Signore” su tutto il mondo. Entrano perciò in scena tre Messia rivali tra loro e gli ovvi dissidi interni ne facilitano la repressione da parte delle guarnigioni di Roma; poi a essi se ne aggiungerà un quarto: Gesù. Anche lui finirà appeso alla croce come latrones (bandito).

In questo solco “nazionalista”, per puntellare il suo lavoro Roy attinge a una vasta letteratura scientifica e divulgativa, all’interno della quale tra i testi più significativi si trovano: Joël Carmichael, La mort de Jésus (Parigi, 1962); e Samuel George Frederik Brandon, Jesus and the Zealots (Manchester, 1967).

Carmichael, storico di professione e Presidente dell’Organizzazione Sionista d’America, in La morte di Gesù presenta un ebreo che predica agli ebrei su questioni che interessano solo agli ebrei; e sono gli ebrei i responsabili della sua morte, benché di fatto, sia giustiziato dai dominatori romani come ribelle dello stato. Per l’Autore, il cristianesimo è una derivazione di un fenomeno storico attinente al mondo ebraico, ovvero quella febbre messianica che ha attanagliato l’epoca a causa dell’irritante occupazione Romana.

Sacerdote anglicano e professore di religione comparata all’Università di Manchester, anche Brandon raffigura Gesù come un attivista politicamente consapevole che agisce vigorosamente contro l’establishment palestinese. In qualità di paladino dei poveri, Gesù si spinge al punto di condurre una fallimentare irruzione nel tesoro del Tempio per spodestare i suoi amministratori affamati di denaro. Il blitz – mimetizzato nei Vangeli come un assalto individuale ai banchi dei cambiavalute profani – porta in breve alla denuncia di Gesù da parte dei sommi sacerdoti e poi al suo processo romano. Lungi dal morire ignominiosamente come ebreo rifiutato dalla sua nazione, Gesù in realtà perì da patriota, un martire ribelle per il suo popolo, un insurrezionalista contro l’oppressione straniera influenzato dagli zeloti.

Aderente a questa lettura, cui affianca un “confortante” apparato di note desunte dalla vasta bibliografia di contorno, Roy scrive nell’introduzione: “Gesù trovò la morte su un patibolo rizzato dagli occupanti la Palestina, perché lottava per liberare il suo popolo. La speranza di libertà che da millenni anima l’umanità ha circondato la sua vita di un’aureola di leggenda al punto che non è facile seguirne lo svolgimento. Ma basta il solo supplizio della crocefissione – marchio indelebile del colonialismo romano – per autorizzare un altro «colonizzato» a descrivere la vita di Gesù dall’unico punto di vista che può render conto delle sue motivazioni profonde e dei suoi reali obiettivi”. Poi si colloca all’interno del dibattito (nel gruppo c) descrivendo i tre grandi filoni di pensiero su Gesù: a) i cristiani [Gesù è davvero quello delle Scritture]; b) i mitologi [Gesù è una delle tante figure irreali delle religioni]; c) gli storicisti [Gesù è un uomo ebreo da indagare]. E chiarisce una differenza tra lui e taluni autori sullo stesso tema: “Non tutti gli «storicisti» sono politicizzati, e di conseguenza alcuni non son disposti ad allinearsi con la tesi di un Gesù capo di partigiani della liberazione nazionale […] Questo libro si rivolge all’uomo onesto del nostro tempo, a quello soprattutto che sa come la politica abbia sempre condizionato l’esistenza dei popoli e degli individui”.

Il ponderoso volume, frutto di un’acribia encomiabile, si pone quindi dichiaratamente al di fuori della ricerca accademica per proporsi a supporto teorico-politico della causa di tutti gli indipendentismi e ha come perno “teorico” nientemeno che il fondatore del cristianesimo, la religione più potente della Storia. Il lungo minuzioso lavoro di Roy, sottrae Gesù al dispotico governo patristico-ecclesiastico che ne ha annullato lo sfondo storico, salvo conservare quel panorama sociale presepistico, funzionale al sostegno del paradigma cristiano scevro da ogni eco di conflittualità materiale. Ma non solo. La storicizzazione, è anche – e forse soprattutto – un rovesciamento dell’uso politico messo a punto dagli imperialismi europei, discendenti dal colpo di coda Romano realizzato nel IV secolo da Costantino e scolpito nell’immaginario della cultura occidentale con l’iconica vittoria di Ponte Milvio su Massenzio (28 ottobre 312[3]). Il Cristo identificato nella croce apposta sugli scudi delle legioni, è un “condottiero celeste” (Sol invictus[4]) e nelle mani scaltre del Vescovo d’Ippona diverrà una giustificazione ineffabile delle guerre “giuste”[5](sante) di volta in volta scatenate da papi, re, imperatori, per disegni politici e\o fini economici, i più diversi. Roy, dunque, armeggiando con gli strumenti del metodo storico – seppur da una posizione indipendente rispetto alla comunità scientifica – rovescia il punto di vista “divino” e trasforma Gesù in un “guerrigliero terrestre”. Dal Cristo metafisica degli oppressori al Gesù microfisica degli oppressi.

L’Autore compie in questa direzione anche una precisa scelta linguistica. La terminologia delle fonti antiche, spesso oscura per i non addetti ai lavori, è tradotta attingendo dal vocabolario del presente. I significati delle parole quando occorre sono modernizzati, attuando uno svelamento della politica che nel mondo antico appare “naturalmente” intrecciata all’immaginario del sacro, dei culti e dei riti organizzati nella religione (romana come ebraica). E quindi il fondamentale məšīa (in aramaico messia) che in greco diventa Χριστός, “unto”, è tradotto nel libro come “liberatore”.

In diversi casi, Roy smonta invece la lezione vulgata tesa a occultare la vera natura delle parole[6]. Valga per tutti, l’esempio della traduzione del celebre Matteo 16,18 “Tu sei Pietro, ecc.…”. È noto che Pietro (Πετρος in greco e Kēp̄ā [Kefa] in aramaico, cioè “roccia”) sia il soprannome – secondo i vangeli – attribuito da Gesù al robusto pescatore Simon bar Jona, dove “bar Jona”[7]scritto così, diventerebbe un comodo “Simone figlio di Giona” (o Giovanni) ma il termine corretto del testo greco, lingua in cui sono tramandati i vangeli, è un inequivocabile Βαριωνᾶ ovvero “Barjona”, vocabolo aramaico (derivante dall’accadico) che significa un più problematico “terrorista, bandito, latitante”. La versione offerta dalla ricostruzione di Roy è allora quella di un minaccioso “Simone il terrorista”, quanto di più lontano dall’immagine falsificata dalla gerarchia cattolica del santo titolare della maestosa basilica romana.

In generale, il Gesù di Roy userebbe così una sorta di linguaggio cifrato, carico di allusioni e di allegorie per non essere compreso dai romani o dalle spie mescolati nella folla radunata per ascoltare i suoi discorsi. Fatto che sarebbe confermato da Gesù stesso quando avvertendo i seguaci dice “parlo in parabole: perché guardano e non vedono, ascoltano e non capiscono” (Mt 13,13).

Nel saggio, infine, emerge l’aspetto del Gesù che aveva anche predicato la condivisione della ricchezza, la giustizia sociale e il collettivismo, un messaggio rivoluzionario scritto chiaramente nel Vangelo e quindi giunto fino a noi se purificato dalle strumentali incrostazioni teologiche[8]. In questo senso, prima del famoso passo sul cammello e la cruna dell’ago, nel vangelo di Marco si legge di un ricco che chiede a Gesù “Ho rispettato la Legge, cos’altro devo fare?” e quello risponde: «“Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (Mc 10,21).

A distanza di mezzo secolo, con le sue licenze poetiche, i deragliamenti metodologici, le ingenuità del novizio, la peculiarità ideologica, il libro di Roy si inserisce nel più ampio insieme di opere per le quali il paradigma di partenza è costituito dalla esclusiva “ebraicità” di Gesù, in opposizione alla versione “universalista” tramandata dalla interpretazione paolina che spogliandolo dell’umanità, ne fece “divinizzandolo” il pilastro della fede cristiana[9]. Tuttavia, l’Autore francocanadese non racchiude e spedisce Gesù indietro nel suo tempo, piuttosto ne traduce l’escatologia ortodossa entro una dimensione – quella del profeta “rivoluzionario” – eretica, capace di attraversare i secoli per parlare nel mondo in tumulto degli anni Settanta.

 

 

 

 

 

[1] Nel 1861, l’editore Van Giessenburg di Amsterdam pubblica una prima edizione integrale in 3 volumi del Testamento. In Francia si dovrà attendere il 1970.

[2] Il titolo completo dell’edizione tedesca in due volumi è: Iesous basileus ou basileusas. Die messianische Unabhängigkeitsbewegung vom Auftreten Johannes des Täufers bis zum Untergang Jakobs des Gerechten. Nach der neuerschlossenen Eroberung von Jerusalem des Flavius Josephus und den christlichen Quellen dargestellt; Nella versione inglese: The Messiah Jesus and John the Baptist According to Flavius Josephus’ Recently Rediscovered ‘Capture of Jerusalem’ and the Other Jewish and Christian Sources.

[3] Occorre segnalare, fatto esemplare, come la data fondante per l’ideologia fascista del 28 Ottobre, giorno della marcia su Roma, fu prontamente associata, in nome dell’assimilazione tra Mussolini, promotore dei Patti Lateranensi (1929), e Costantino, campione della fede cristiana, a quella della fatale battaglia di Ponte Milvio.

[4] Per un’introduzione su questo, tra i tanti, si veda l’ancor valido: R. Merkelbach, Mitra, Genova, Ecig, 1988.

[5] Il sintagma bellum iustum è presente in sei passi nelle opere di Agostino; tre sono contenuti nel De civitate Dei, due nelle Quaestiones in Heptateuchum e uno all’interno del Contra Faustum Manichaeum. Cfr. Aug., Civ., IV, 15; XIX, 7; 15; Quaest. Hept., IV, 44; VI, 10; C. Faust., XXII, 74-75.

[6] Uno dei casi più noti in assoluto, è la manipolazione del termine αδέρφια (fratelli) riferito agli altri figlia di Maria (Giacomo, Ioses, Giuda e Simone, e almeno due sorelle), che una Chiesa impantanata dopo l’invenzione della Madonna vergine, traduce subdolamente con “cugini” (ξαδερφια) di Gesù, avocando un – provvidenziale – errore di trascrizione.

[7] Questa attestazione appare per la prima volta in una traduzione del 1607.

[8] Su questo si veda – ad esempio – il quasi coevo: A. Ancel, Per una lettura cristiana della lotta di classe, Queriniana, Brescia, 1977.

[9] Le dispute su chi sia stato davvero Paolo, quale ruolo abbia avuto, le interpretazioni delle Lettere – in particolare quella ai Romani, costituiscono un importante corpus parallelo alla questione del Gesù storico. Fuori dalle trite ortodossie fideistiche, Paolo è storicamente riconosciuto (ça va sans dire anche da Roy) come l’ideatore e fondatore del cristianesimo. Nella vasta ricerca in merito, una delle voci più stimolanti è stata quella di Jacob Taubes (La teologia politica di san Paolo, Adelphi, 1997). Si tratta delle Lezioni tenute dal filosofo e rabbino austriaco, poco prima di morire, dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg, in cui egli illustra un dotto rovesciamento teorico della interpretazione “negativa” di Nietzsche (L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, 1888). Alla ricerca “incompleta” di Taubes, si affianca il lavoro “biopolitico” di Giorgio Agamben (Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, 2000). Imprescindibile per una lettura “secolare” dell’apostolo dei Gentili, è Alain Badiou San Paolo. La fondazione dell’universalismo, (2010; ed. or. 1997) dove l’Autore propone “Paolo contro la complicità tra la vuota universalità del capitale e i particolarismi nazionali”. Al visionario di Tarso s’era dedicato con lungimiranza anche Pasolini (San Paolo, 1977; postumo) in un saggio-sceneggiatura per un film (non realizzato) che confluirà ed evolverà nel Porno-Teo-Kolossal, l’ultimo lungometraggio su cui stava lavorando il Regista sorpreso dalla morte violenta all’Idroscalo. Quel sabato pomeriggio del 1° novembre, Pasolini aveva rinviato l’incontro di scrittura con l’amico e collaboratore Sergio Citti per far posto all’intervista con Furio Colombo (l’ultima della sua vita). Di grande interesse è la recente prefazione dedicata da Badiou all’ed. inglese del testo di Pasolini: St. Paul. A screenplay (in P. P. Pasolini, St. Paul, 2014).