Minimum fax, Roma 2022, pagg. 240 € 15

di Marc Tibaldi

Nell’edizione italiana di Patagonia rebelde di Osvaldo Bayer si può trovare un piccolo gioiello, si tratta della breve ma bellissima postfazione di Alberto Prunetti, che curò l’edizione italiana pubblicata da Elèuthera nel 2009. È un dialogo immaginario tra curatore e autore, in cui Prunetti – vendicando Bayer, gli anarchici e gli indios argentini – con sarcasmo e acume critica duramente Bruce Chatwin e il suo In Patagonia. Critica il suo metodo di raccogliere informazioni, di plagiare fonti, la sua scrittura senza sangue, ma soprattutto l’angolatura sociale nel raccontare quelle terre, più interessato ai latifondisti di sangue britannico che alle rivolte contadine. Ecco, quell’angolatura – di Prunetti, non di Chatwin – nel raccontare la vita e la scrittura la troviamo anche in questo libro. Dopo Amianto, 108 metri, Nel girone dei bestemmiatori, Potassa e Il fioraio di Peròn, Prunetti dà corpo teorico alla sua ricerca con questo libro che – si condividano o meno le sue tesi – diventerà imprescindibile per la narrativa degli anni a venire. Con una scrittura ibrida che alterna storia, geografie e teorie della narrativa working class, e il percorso personale raccontato con ironia, rabbia e sentimento. Ci si ritrova a ridere di aneddoti e a emozionarsi di rabbia, con qualche lacrima agli occhi, nei capitoli rivendicativi dell’orgoglio di classe. Impossibile riportare qualche passaggio, ce ne sono troppi di significativi, si fa prima a leggere il libro! È necessario però sottolineare cos’è per Prunetti la working class e cos’è la narrativa working class. Il termine possiede un’accezione più ampia rispetto a “classe operaia” e a “proletariato”, include tutti i lavoratori precari e sottopagati di qualsiasi genere. In anni di scomposizione della classe, la ricerca di definizioni adeguate di Prunetti è di grande utilità. Un lavorìo teorico e militante che viene ben dimostrato nelle citazioni di scambi email avuti con intellettuali di estrazione diversa, come David Graeber (di cui Prunetti ha tradotto anche l’ultimo Dialoghi sull’anarchia, appena pubblicato da Elèuthera) e Mario Tronti.

“È working class la scrittura che ruota attorno al tema del lavoro, salariato o domestico, e di una accurata, ma non necessariamente realistica, rappresentazione della vita working class, della sua cultura e resistenza al potere”, scritta dall’”interno”, meglio da chi non vuole uscire dalla miseria individualmente, “lasciando gli altri indietro, a salvarsi il culo da soli: vogliamo combattere la miseria e lo sfruttamento e ‘sortirne tutti insieme, che è la politica’, contro il privilegio, che è ‘sortirne da soli’”. I capitoli hanno densità e pregnanza, cognizione e rigore, che sorprendono. Dialogano con ricerche affini, come quella di Valerio Evangelisti e dei Wu Ming (interessante la dialettica con il volumetto sulla New Italian Epic*, che ormai ha oltre quindici anni). Hanno come bussola L’orda d’oro, di Nanni Balestrini e Primo Moroni. È un libro per tutti, benché in alcuni capitoli si parli di teorie letterarie, anche perché è scritto volutamente rispettando il “test del babbo” e la lezione del metodo della scuola di Barbiana. È un libro che sa alternare racconto e saggio. E riesce a rendere il libro avvincente. Che definizione, avvincente, per un saggio! Ma è proprio così. Se anche la “bibliografia (o inventario dell’armadio delle scritture working class)” finale è utilissima, è necessario segnalare le appendici: il bruciante “Piccolo manifesto personale di scrittura working class” e gli importanti dialoghi con tre scrittori: Anelli Jordhal, svedese; Kike Ferrari, argentino; Anthony Cartwright, britannico; che dimostrano l’estensione planetaria della nuova sensibilità working class e la “causa comune che accorcia le distanze”.

Che nessuno pensi a un ritorno al realismo d’antan, “per avvicinarsi al reale non c’è solo il realismo”, sostiene l’autore. Non è un’estetica o uno stile che cerca di indicare Prunetti, ma dei punti fermi di partenza. Ci aiutano a riassumerli i titoli del manifesto finale: niente approcci vittimari; umorismo di contrasto; responsabilità; punti di vista obliqui; narrazioni ibride; una lingua antiretorica; mimetismo e sperimentazione (“…mi veniva in mente quel cementone che Renato mi aveva insegnato a fare: mescolava sabbia, calce, sassi di dimensioni diverse, un impasto magro, povero di cemento, che teneva di brutto. Quella doveva essere la mia lingua: non sperimentale in senso fighetto, ma grezza come il magrone eppure fluida, capace di infilarsi e riempire ogni poro”, “non la lingua della Crusca o della Queen’s English, ma la lingua delle cucine del Regno Unito, dove si mescolano tutte le lingue immigrate del mondo” e dove i lavoratori patiscono sfruttamenti da paura); uso del linguaggio tecnico dei lavori; raccontare il disastro industriale e ambientale; costruire un nuovo immaginario “intersezionale” e di classe. Insomma, un flusso di coscienza… di classe!

In tutte le pagine del libro si alternano le caratteristiche del pamphlet e del manifesto programmatico, e gli ultimi capitoli hanno una potente forza evocativa e – per gli aspiranti scrittori working class – invocativa: “non credete alle stronzate romantiche che i ricchi si sono inventati sugli scrittori poveri chiusi in una camera d’albergo a immaginare mondi di fantasia. Cazzate. Neanche gli scrittori fighetti di classe media stanno chiusi nella torre d’avorio a fare i vati ormai. Per scrivere dovete tenere il naso e il culo nel mondo… […] non abbattetevi e provate, provate, provate. Scrivete non per vanità, ma per fare il culo al capo. O alla professoressa che vi umiliava. O al fighetto con la villa che andava in settimana bianca… Ce la farete. I piedi nella realtà, il culo sulla sedia, la penna sulla carta. Dategliene secche”.
Un libro che avrebbe fatto felice Benjamin Perét. Immaginazione, realtà, fucile accanto, mentre accarezza un gatto sulle sue ginocchia, come lo ritrae quella foto scattata nel 1937, in Spagna, lui surrealista e volontario internazionalista. Je ne mange pas de ce pain-la. Il sano odio di classe anche per l’immaginazione e la scrittura è energia pura, esplosiva.

nota
*Prunetti in bibliografia inserisce Scrittore e popolo (1965) di Alberto Asor Rosa, ma non la più recente continuazione di quel testo, ossia Scrittori e massa (2015, Einaudi), che contiene osservazioni interessanti, critiche ed elogi, alla capacità narrativa e teorica dei Wu Ming e dalla loro scelta di “dislocazione dal presente”. Sarebbe interessante ascoltare un dibattito tra Prunetti e Asor Rosa sulla narrativa dei nostri giorni. Potrebbe essere anche curioso il confronto tra Non è un pranzo di gala e Il mito del proletariato nel romanzo italiano di Renzo Paris, un libro molto “vecchio” ma con interessanti intuizioni (il proletariato come oggetto e non come soggetto rivoluzionario), pubblicato nel 1977 da Garzanti, che analizza la narrativa italiana dalla scapigliatura al post-sessantotto, ma anche con Scrittura e movimento (1973, recentemente ripubblicato da ombrecorte) di Franco Berardi Bifo, un libro che – pur figlio di un momento storico completamente diverso dall’oggi, quando l’avanguardia era diventata massa – offre molti spunti di ripensamento teorico.