di Gioacchino Toni

Serena Guidobaldi, Cibo e identità. L’identità nell’epoca della sua riproducibilità gastronomica, Eris, Torino 2021, pp. 64, € 6.00

Da qualche tempo a questa parte il cibo si è fatto sempre più presente – fin invadente – su carta stampata, trasmissioni televisive e social media. Se da un lato è naturale, in quanto esseri viventi, che il cibo occupi una parte importante dei pensieri quotidiani, ciò che colpisce è la quantità di parole e immagini che ultimamente vengono ad esso riservate e come una parte rilevante di questa inedita attenzione riservata al cibo si intrecci con questioni che hanno a che fare con l’identità. È proprio al binomio identità-cibo che Serena Guidobaldi dedica una sua pubblicazione edita da Eris per la collana di “saggi brevi” BookBlock.

Nell’eccesso di discorso sul cibo che inonda la comunicazione contemporanea si ha la misura di come si possa «dire niente fingendo di dire tutto». Una palude del vago in cui «l’estrema ricchezza e l’affilata precisione offerta dal lessico si impantana nella melma di significati altri che nascono da propagande politiche, da interessi economici, da pigrizia, da associazioni mentali errate ma entrate nell’immaginario comune. In un tale slittamento di significati accade che ormai tipico e tradizionale sono intercambiabili, come anche autentico e genuino, artigianale e naturale e il cibo viene privato delle sue stesse sovrastrutture sensoriali, creando l’inganno del cibo “identitario” come luogo della memoria ricostruita, da difendere contro ogni minaccia di alterità.

Soprattutto in ambito gastronomico, nota Serena Guidobaldi, la tradizione è facilmente associata alle radici identitarie. «Quelle radici per cui siamo chiamati alle armi se all’orizzonte si avvista, insieme al pericolo “dell’altro”, il pericolo di dover ammettere che innanzitutto noi stessi siamo “altro” e non siamo (più) quella cosa lì che continuiamo a sostenere di essere». Il riferimento a una identità immutabile è rassicurante, dunque vale la pena tramandarla così che non se ne perdano le tracce.

Il riferimento all’identità consente di posizionarsi rispetto all’ambiente circostante e ciò avviene anche attraverso il cibo che si accetta di far varcare i confini del corpo. Non a caso ha preso piede l’ossessione nei ristoranti di osservare la preparazione dei cibi rendendo le cucine permeabili alla vista.

Ultimamente si è diffusa la tendenza a vedere nel cibo un marcatore di identità soprattutto territoriale. Si tratta, sostiene Guidobaldi, di un equivoco «sempre più cavalcato o, peggio, strumentalizzato, soprattutto quando ci pone davanti alla classica antitesi cibo Tradizionale vs cibo Etnico attraverso cui si gioca la partita sociale e politica fra il Noi-Occidentale e il Loro. È in questo contesto che la tradizione prende quel significato travisato di luogo della memoria sacro e immutabile dove riposano le nostre radici culturali, mentre “etnico” negli ultimi quarant’anni è arrivato via via nell’immaginario collettivo occidentale a essere la sineddoche per qualcosa di esclusivamente appartenente a minoranze o persone migranti, quindi da osteggiare o da accogliere».

Nel recupero della tradizione non è difficile che si cerchi una via di fuga dall’omologazione imperante; per affermare una propria identità immaginaria ci si rifugia facilmente in una tradizione ricostruita con arbitrio e molta approssimazione, come poi se davvero l’identità si fondasse davvero sulla tradizione. «Il passato diventa quindi una meta cui rivolgersi, e se non c’è si costruisce. È qui che si insinua la mercificazione della nostalgia in forma di tradizione, che quindi agevola quel movimento all’indietro prima creando le condizioni di desiderarlo, e poi quelle per soddisfarlo grazie a sempre più meticolosamente costruite autentiche esperienze».

È riconducibile alla settecentesca idealizzazione della “natura originaria” non antropizzata, nell’ambito della dicotomia natura/cultura l’origine dell’equivoco postmoderno «di una cesura assoluta fra passato e presente dove ciò che fu ha intrinsecamente qualità positive di genuinità e spontaneità. A queste dobbiamo tendere per espiare la nostra esistenza artificiale, contaminata e utilitaristica».

Dietro alla forsennata ricerca di “autentiche esperienze” della “tradizione”, scrive Massimo Montanari nel libro Il cibo come cultura (Editori Laterza 2011), si celano «valori urbani, conseguenze culturali legate al passaggio dalla società della fame alla società dell’abbondanza […] che portano a considerare segni di alta qualità sociale prodotti tradizionalmente poveri e rustici come i cereali inferiori […] un tempo legati a immagini della fame e contrapposti al frumento dei ricchi. […] la campagna felice è una immagine cittadina […] che cosa di più urbano potremmo immaginare dell’odierna riproposizione dei cereali inferiori e pani scuri? Solo una società molto ricca può permettersi di apprezzare la povertà».

Al tempo dei social media, sostiene Serena Guidobaldi, l’atto del mangiare sembra essersi fatto «sempre più rappresentato e sempre meno vissuto, in un solipsismo alimentare trasversale dove la felicità della convivialità – quel felix dei latini che condivide la radice etimologica con festa – è prodotta dall’immagine che ci rimanda lo specchio sociale, dal riconoscimento esterno degli altri più che dall’interazione con ciò che stiamo mangiando e con chi. La notifica fa le veci del rutto per un cibo dematerializzato, servito in sequenza sulla timeline, fotografato nelle sue più intime pieghe, descritto con sovrabbondanza di particolari, hashtaggato come di dovere e, in finale, tutto uguale. Immagini su immagini che sono nature morte che rappresentano una vita dei sensi di cui non si ha reale memoria: è difficile ormai scorgere chi ci parla dietro quei tortellini sinestetici perché la narrazione, la nonna, il ricordo, il Natale, lo stellato sotto casa, il packaging, il cappone di Morozzo sono elementi di una capsule collection a buon mercato che tutti possiamo indossare con disinvoltura nella second life in cui non ci è richiesto, poi, di mangiare davvero».