di Jack Orlando

George P Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba, DeriveApprodi, Roma 2022, 18€, 267pp.

La piantagione del vecchio Sud, con la sua frusta e i suoi Sambo, i Nat Turner e i padroni terrieri, è uno dei capitoli più profondi e incisivi della saga americana. Del resto, la stragrande parte di quella gigantesca minoranza chiamata afroamericani, ha origine proprio in quei campi.

Andare a cercare le tracce concrete di quella realtà impone in primo luogo di muoversi spezzando tanto le narrazioni pietistico paternalistiche quanto quelle reazionarie e razziste, entrambe facce della stessa medaglia di supremazia bianca, le prime improntate al senso di colpa le seconde al livore, e mettersi quindi sotto i piedi secoli di cultura in cui il pregiudizio razziale ha fatto da benedizione ad un sistema di sfruttamento.
Soprattutto, mette in condizione lo storico di interrogare il soggetto centrale di quella storia: lo schiavo; è a lui che si rivolge Rawick, attingendo alle dirette memorie autobiografiche di centinaia di schiavi, per comprendere quale fosse la dimensione esistenziale, quotidiana e collettiva del soggetto nero americano.1

La parola al soggetto. Atto di per sé che salva dal destino cosificato della vittima, restituendogli la sua voce e la sua verità, senza che a parlare per lui siano dei padroni bianchi o dei caritatevoli filantropi (comunque bianchi).
E dalle parole dei protagonisti emerge l’autonomia della comunità e degli individui rispetto ad un sistema sociale oppressivo, se ne sente tutta la costante ambivalenza che lacera la soggettività tra autocommiserazione e ribellione, si vede come dentro, attorno e contro alle piantagioni e alle baracche di tronchi un’intera vita comunitaria sia nata e cresciuta, costretta a riadattarsi dopo una emigrazione forzata ed a ingegnarsi per ritagliare lo spazio di realtà ai propri sogni in un reale fatto soprattutto di divieti, ostacoli ed ostilità.

L’afroamericano, che non è un mero riflesso/caricatura del bianco anglosassone come ebbe a riconoscere amaramente più di un pio abolizionista, né un africano in terra straniera, come scoprirono gli stessi leader del Black Power; è un soggetto sociale specifico e particolare, nato dall’ambiguo e violento rapporto con una società che lo aveva destinato ad un gradino della scala sociale prossimo a quello delle bestie (o delle cose) e che solo la resistenza e le sue mille tattiche di lotta permisero di conservargli e imporre la propria umanità.

Non soltanto le grandi rivolte degli schiavi, né solo l’articolata struttura informale della underground railroad, ma l’intera vita sociale e comunitaria costituiscono forme di resistenza e autoaffermazione; dalla famiglia nucleare alla cucina comunitaria, dall’integrazione della dieta con caccia, pesca e orticoltura (e, perché no, riappropriazione dalla dispensa padronale) alla ritualità religiosa clandestina, fino alle fughe, agli scioperi e al sabotaggio dell’economia che porterà alla fine al drammatico dilemma per l’esercito sudista “di arrendersi ai negri o agli yankee”.
Se dall’alba al tramonto lo schiavo viveva e lavorava per la prosperità dei suoi padroni, dal tramonto all’alba era proprietario del proprio tempo e poteva lavorare all’affermazione della propria umanità.
Un’autonomia individuale e collettiva vissuta e costruita alla luce della luna, una vita strappata con determinazione alla luce del giorno e dei sorveglianti.

Questo intreccio di comunità, resistenza e adattamento ha disegnato il profilo del soggetto sociale più inquieto degli Stati Uniti e ne ha fatto la testa d’ariete radicale di tutti i movimenti sociali fino ad oggi.
Non perché più sfruttato di altri (sottoproletariato bianco e nero hanno sempre condiviso simili condizioni strutturali d’altronde) o più brutalizzato; ma perché prodotto allo stesso tempo più avanzato e più ostile delle trasformazioni del capitalismo americano, colui su cui sono stati scaricati i costi più duri e che più si è addestrato a resistergli.
Nel ricercare le origini del razzismo americano, che nella piantagione ha la sua culla (si pensi solo a quanti distretti di polizia siano, ben oltre e al di là delle connivenze suprematiste, diretti eredi di quelle lugubri pattuglie di cacciatori di schiavi) non solo si va alla radice di un elemento fondativo della modernità capitalista, la supremazia bianco-cristiana come legittimazione del dominio e della rapina, ma si pone un’istanza di metodo che è tanto storica quanto politica.

Se infatti quella della schiavitù americana è una pagina determinata e particolare nella storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non di meno essa è parte integrante di quel ciclopico processo di disciplinamento e messa al lavoro delle masse subalterne che ha strappato intere comunità umane ai propri ritmi e forme di vita, annichilendone istinti e tradizioni, per gettarle nell’inferno della produzione capitalista forzandone l’adesione, a costo del sangue, ad un tipo di umanità adatta allo sfruttamento intensivo che venne imposto come naturale.

Analogamente a quanto fatto con le memorie degli schiavi, ed è lo stesso Rawick a suggerirlo, si può ricostruire il profilo della classe operaia (stesso discorso valga per ogni altra soggettività subalterna) andando ad ascoltarne e leggerne la diretta voce; scoprendone i tratti di ambivalenza, le resistenze e la forma di vita sociale che ha sotteso ai suoi balzi in avanti. Non per puro amore di conoscenza, ma per strapparne la storia alle mistificazioni dei padroni, quelli caritatevoli e quelli brutali, e per strappare l’ipotesi delle rotture e degli avanzamenti dagli ideologismi e dalle velleità astratte.

Nessun sistema, per quanto totale, ha il controllo pieno dei suoi sottoposti; esistono sempre e ovunque notti e zone d’ombra dove la vita si dispiega libera ed autonoma.
Ogni storia è anzitutto storia di collettività che negano la propria sottomissione e negano sé stesse in quanto dominate. Ogni processo degno d’essere studiato è una costante fuga dal dominio ed un sabotaggio del padrone.


  1. giova precisare che la pubblicazione originale è del 1972 ed è quindi da intendersi come parte integrante di quella fase di riscoperta storica e autodeterminazione sociale messa in campo dagli afroamericani nella stagione dei ‘60 

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