di Franco Pezzini

Marilù Oliva, L’Eneide di Didone, pp. 266, € 16,50, Solferino, Milano 2022.

 

CORO – Dal fondo del tempo sul mare increspato…

ENEA – Ohè!

CORO – Emerge na nave che viè dal passato.

ENEA – Ohè! CORO – Avanza veloce e punta alla riva…

ENEA – Ohè!

CORO – Se ferma alla foce… anvedi chi ariva!

ENEA – Enea!… So arivato… portato dar fato.

LAVINIA – Ah… sì, sei venuto! T’ho sempre aspettato!

ENEA – Tu nun sai quer ch’ho patito tutto quello ch’ho passato pe’ dà loco a sti penati che da Troia ho riportati.

CORO – Cascata Troia, Enea l’eroe troiano senza vortasse pe’ mannaie un bacio, agnede via cor padre n’cavaciecio e er figlio piccinino pe’ la mano, perse la moglie Creusa pe’ la via… lasciò Didone sola a dasse foco e n’antra moje je se para ar gioco, dei fati, a mette su famija.

ENEA – Lavinia se chiamava… era… burina [Lavinia lo guarda malissimo] e m’aspettava in pizzo a la marina. Era la fija d’un re, ei pur burino [altra occhiataccia], de fatti, era Latino de nome e de nazione, ma sempre a conclusione d’una peripezia d’un uomo sballottato dar destino, sempre di un re la fija aspetta e guarda er mare, da dove viè l’eroe, sta de vedetta e aspetta la nave maledetta e l’omo tenebroso che viene dar mistero, aspetta lo straniero buttato su la riva dar mare tempestoso, per cui l’omo in oggetto, dar fato prediletto, mannatove da Dio, guardateme… so’ io!

 

(da I sette re di Roma, di Luigi Magni, con Gigi Proietti)

 

Nella sua rilettura al femminile – e femminista – dei miti classici, Marilù Oliva dopo Odisseo affronta Enea: un eroe che, è chiaro, la convince molto meno. Non si tratta solo del cambio di registro dal vitalismo di Omero alla malinconia virgiliana: il fatto è che il pius Aeneas di tante banalizzazioni ginnasiali e strumentalizzazioni fascistoidi appare già in età antica una figura non proprio entusiasmante.

Si parte dai cenni un po’ criptici dell’Iliade, dove Enea ce l’ha con i parenti della casa reale troiana, per cui combatte a singhiozzo; salvo trovarsi griffato da una strana profezia in grazia della quale viene salvato a più riprese dagli Dei. La spiegazione è probabilmente metatestuale: l’Omero che sta cantando quei versi intende celebrare qualche ascoltatore celebre, monarca o principe micrasiatico (al Lazio non ci si pensa proprio) alla cui corte è ospitato, un dinasta che si presenta come discendente di Enea. Cosa di meglio che attribuire il salvataggio di tanto tempo prima proprio a un piano divino mirante a salvaguardare tale gloriosa schiatta?

Anche perché, facciamocene una ragione: se è storicamente credibile che i Popoli del mare alla cui risacca potrebbe aggregarsi un Enea storico abbiano trovato effettivamente spazio nello scacchiere italico del collasso dell’età del bronzo, l’Enea dei miti più antichi non si spostava così tanto. Probabilmente non partiva neppure dalla costa anatolica, dove sarebbe subentrato all’inaccorta casa priamide (con le sue storie di harem sultaneschi e figli maleducati che seducono mogli altrui) a guida della Troade; ma già Virgilio doveva disporre di una pletora di alternative, con il Nostro a zonzo per buona parte delle coste di Tracia, Macedonia e Grecia continentale – e insediato qui o là a seconda della tradizione, impalmando signorine locali. Immaginando una serie di tappe, Virgilio recupera pro parte queste storie.

Dove però l’esule appare moderatamente pius: se la pietas che tanto colpirebbe i nemici achei da concedergli un salvacondotto particolare – ma le versioni sono davvero tante, comprese quelle di Enea che tradisce Troia e favorisce gli invasori – si esaurisce nella devozione patriarcale verso il genitore, che non a caso terrà sul groppone, per il resto della famiglia in queste storie non emerge particolare beneficio. E insomma ciò spiega non solo la distrazione per cui Enea perde la moglie Creusa in Virgilio (l’episodio è un po’ più complicato ma tant’è) ma le varie storie su un empius Aeneas che stupra principesse al suo passaggio. Quindi non solo un’incertezza sulle vicende umane ma pure sul profilo psicologico dell’eroe: qualcosa su cui Virgilio ha ampia documentazione e da cui spigola con libertà d’artista, brandendo la scelta già maturata in ambiente etrusco/latino del pio Enea e non del furbacchione Odisseo/Ulisse (giunto pure lui su quelle coste) quale protoeroe portatore di valori comunitari. E poi c’è da celebrare la stirpe augustea… salvo il fatto che che man mano che Virgilio scrive, l’entusiasmo per il Grande Timoniere cala.

L’Eneide è un testo rimasto in progress: è una balla colossale la storia – ammannitaci magari sui banchi di scuola delle medie e del ginnasio – che il perfezionista Virgilio volesse solo rifinirne un po’ i versi. Il poema, nella sua struggente bellezza, mantiene contraddizioni stridenti, episodi mancanti, personaggi che all’improvviso cambiano natura senza credibile spiegazione endotestuale. Perché alla grossa la seconda parte del poema, quella tutta trombe e muscoli, è stata scritta prima, con gli dei calorosamente solleciti verso l’eroe: ma la prima parte è ben diversa. Dei di marmo dai quali è vano attendersi un abbraccio, freddi come il committente con la sua spietata Agenda; un eroe pieno di dubbi e ben poco statuario, goffo e pasticcione; e ancora un re Latino genuinamente benevolo e persino coraggioso nel tener testa ai guerrafondai – a differenza che negli ultimi libri (di precedente tessitura), dove è succube del fanfarone protonazionalista Turno. Persino quell’episodio importante che segna il cambio di passo della guerra in Italia, cioè l’incontro di Enea con gli Etruschi (a Corito presunta patria della famiglia di Dardano?), resta sbrigato in modo troppo frettoloso: mentre è credibile che Virgilio, di stirpe etrusca, vi avrebbe dato maggiore spazio. E così via. L’autore contava di dedicare ancora anni al poema: ma poi ecco quel viaggio fatale – come tanti viaggi allora, non è necessario immaginare chissà che cospirazioni imperiali contro Virgilio un po’ meno allineato – e la morte. Un viaggio che forse avrebbe irrobustito la tensione spirituale del poema già fitto di richiami ai Misteri neppure troppo sotto testo (per il pitagorico Virgilio le iniziazioni ai culti misterici aprivano orizzonti assai prossimi): Enea come nuovo Orfeo, i Penati come Grandi Dei flirtanti col culto samotrace eccetera. Ma non possiamo che formulare ipotesi.

Un poema rimasto in progress rappresenta un invito a nozze per un narratore: tanto più che buchi e incongruenze nel meccanismo narrativo possono forse essere identificati con maggiore facilità da un autore di fiction che non dai lettori scolastici ostaggi della reverenza. Provare a leggere l’Eneide come un romanzo in costruzione può in effetti costituire un’esperienza abbastanza sconvolgente: e invito a farne la prova.

Ma poi c’è un’altra sfida, rappresentata dal personaggio di Didone. Il primo a parlare di Didone è lo storico Timeo di Tauromenio (attivo tra il IV e il III sec. a.C.), che la chiama Theiosso, detta in fenicio Elissa e poi dai Libici appunto Deidó per il suo lungo peregrinare. Esempio paradigmatico di fedeltà allo sposo perduto, Theiosso – transfuga dopo che il fratello le ha ammazzato il marito – si uccide quando il suo popolo vuole obbligarla alle nozze con un re libico. La leggenda potrebbe essere autenticamente punica, Timeo lavora in Sicilia e insomma può attingere tradizioni circolanti, nell’eco anche di altri racconti su mogli suicide nel fuoco (come quella di Asdrubale alla presa di Cartagine da parte dei Romani): ma la critica recente è divisa. Virgilio può avere per le mani il lavoro di Timeo, non lo sappiamo; ma molto probabilmente ha quello di Pompeo Trogo, non pervenutoci se non attraverso un’epitome che dettaglia la storia – sempre quella – della bella e coraggiosa Elissa (Alissar, Elissar, Elishat). Poi certo, c’è un grave problema cronologico, perché la fondazione di Cartagine viene avvicinata a quella di Roma: in un primo tempo tra Enea e Romolo si calcola uno scarto molto limitato, ma lentamente le date si distanziano, per cui Enea arriverebbe sulla costa africana secoli prima di Didone (per chi abbia familiarità con le cronologie bibliche, è pronipote della biblica Gezabele, morta circa 842 a.C.). Però il Bellum Poenicum di Gneo Nevio, risalente al periodo della Seconda guerra punica (219-202 a.C.) ma echeggiante gli eventi della prima, faceva già fatalmente incontrare i due personaggi, mostrando forse Didone come una maga (simile a quel punto a Medea o Circe) che cerca di irretire Enea. Insomma uno spunto troppo bello per non usarlo, a prescindere dall’altra versione registrata da Varrone secondo cui a innamorarsi di Enea sarebbe stata non Didone ma la sorella Anna.

È un fatto che per il lettore di Virgilio il punto di più bassa affezione al personaggio Enea sia proprio in rapporto alla vicenda con Didone: una storia d’amore che anche e proprio nel suo fallimento mantiene una tale carica di autenticità da colpirci a distanza di tanto tempo. A trattare forse con pragmatico scetticismo gran parte degli innamoramenti e le inevitabili crisi nel rapporto tra parallele solitudini e fragilità psicologiche di fondo: la regina che viveva col freno tirato in un orizzonte di doveri, forte nell’azione ma aggrappata all’immagine di vedova madre d’un popolo, e che vede andare in frantumi la propria identità, versus l’eroe involontario che fatica a riconoscersi in una missione non scelta e alla prima prova di adultità (il vecchio pater familias è appena morto) si trova tentato a una vacanza esistenziale. Non stupisce che, nel rendere questa storia materia del suo delicato e malinconico sceneggiato per la RAI, Franco Rossi ritocchi un po’ il quadro, rendendo Enea più nobile e duro, e facendoci amare appassionatamente Didone.

Il problema a questo punto per un recensore di L’Eneide di Didone è non spoilerare sulle libertà dalla tradizione: per cui è impossibile raccontare la soluzione – ingegnosa, avventurosissima e un tantino improbabile – adottata da Oliva nel tratteggiare con occhi moderni la sua bella figura di donna combattente, indomita, dotata di mille risorse come i suoi Fenici e inizialmente scettica verso quegli dei – dee, soprattutto – che invece avranno parte nella vicenda. Perché la vita conosce dinamiche e incidenti che sfuggono alle previsioni umane… Il romanzo, intelligente, filologicamente ricco (appena può l’autrice mostra grande rispetto per il testo virgiliano), reca una provocazione interessante.

E il nodo, evidenziato dalle Note finali, si traduce in una domanda: “come è possibile che una donna forte, determinata e autonoma come Didone, regina di popoli, in fuga da un fratello assassino e avido, abbia deciso di uccidersi per un uomo che – si sapeva fin dall’inizio – era solo di passaggio?”. Di qui la scelta di una variatio che in questa sede non si narra, forte della plasticità (sempre) del materiale mitico e della consuetudine, soprattutto in altri linguaggi artistici come il teatro o l’opera lirica, di licenze anche forti nella gestione di storie tradizionali. Per cui accantoniamo le risposte che i commentatori antichi avrebbero fornito alla domanda di Oliva (tutti uomini, l’amore di Didone ed Enea non appariva loro materia troppo seria) e soprattutto quelle di Virgilio (che intende immettere nell’epos lo scontro – proprio del linguaggio dei tragici – tra punti di vista diversi, capitalizzare un dramma a monte dei rapporti tra Cartagine e Roma, e mostrare come l’eros possa essere la leva che fa frantumare l’equilibrio psicologico profondo di una figura già troppo rivolta ai morti, nonché erede della simil-Medea neviana); accantoniamo lo scarto tra la visione di un’antica società mediterranea e una moderna. E lasciamoci cullare dalla voce di Oliva, calda di volti e di colori, nel suo sforzo di recuperare spazio a una figura eccezionale.

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