di Sandro Moiso

[Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022]

Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)

Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso.
All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe rappresentato l’epoca del dominio formale del capitale in quanto il prodotto delle svariate attività produttive umane (artigianali, singole, collettive e proto-industriali, se non ancora collegate a forme di conduzione della terra comunitarie o semi-comunitarie) era destinato ormai ad alimentare principalmente lo scambio di merci in un mercato in via di mondializzazione. Merci la cui funzione era quasi esclusivamente rivolta allo scambio monetario, destinato poi a far circolare altre merci secondo lo schema riassuntivo Merce (M) – Denaro (D) – Merce (M), con una crescita continua della circolazione sia delle merci che del denaro come equivalente universale.

Nella stessa epoca, corrispondente pressapoco a quella della grande espansione coloniale europea, la borghesia però non aveva ancora il pieno dominio politico della società e dello Stato, ma era ancora costretta a sottostare ad accordi, anche questi formali, con la nobiltà e l’aristocrazia terriera di cui le monarchie, nazionali o imperiali che fossero, erano espressione ed emanazione diretta.
Soltanto le rivoluzioni borghesi, o atlantiche come alcuni ebbero a definirle, avrebbero successivamente liberato, tra la seconda metà del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, tutta le potenzialità sociali del capitale attraverso uno sconvolgimento del modo di produzione che avrebbe preso il nome di Rivoluzione industriale.

Con la trasformazione industriale di ogni singolo prodotto e il ruolo svolto dall’investimento capitalistico in ogni settore della produzione si sarebbe dunque passati alla prima forma di dominio reale del capitale, inteso come dominio sia sull’intero processo produttivo che sul potere politico e l’organizzazione della società. In tale contesto il produttore industriale, il lavoratore divenuto salariato, era destinato a perdere qualsiasi autonomia nei confronti dell’organizzazione del processo lavorativo e ad essere sottomesso ai tempi e ai ritmi dettati dal capitale costante rappresentato dalle macchine. In tale contesto generale anche le altre forme di organizzazione del lavoro e della produzione erano destinate a perdere la loro precedente relativa autonomia.

Soltanto alla luce di tale ipotesi è infatti possibile comprendere a fondo, a titolo di esempio, il giudizio dato da Marx stesso sull’economia schiavistica moderna applicata nelle colonie, soprattutto in quelle americane, separata nettamente dalla funzione di quella antica. Il problema infatti non era quello della durezza delle condizioni di vita oppure della negazione della libertà dei popoli resi schiavi, ma, piuttosto, quello della destinazione ultima del prodotto di tale forma di lavoro coatto.
Il capitalismo e la sua classe dirigente, giunti all’apice della scala sociale, potevano tranquillamente integrare nel processo di valorizzazione anche forme arcaiche della stessa, non più soltanto approfittando del basso costo del prodotto grezzo o semilavorato che ne derivava, ma anche indirizzandone le scelte e i tempi di produzione.

Il cotone americano, ad esempio, fu dunque indispensabile alla crescita industriale ed economica inglese e proprio per questo i socialisti come Marx ed Engels appoggiarono il repubblicano Lincoln, e chiesero alla classe operaia del Nord degli Stati Uniti di fare altrettanto, nella Guerra Civile proprio al fine di spezzare, tranciare e interrompere definitivamente il flusso di materie prime indispensabili alla crescita dell’imperialismo britannico. In tal senso, pertanto, anche la questione della liberazione degli schiavi e dei “neri” costituiva soltanto un corollario di tale scelta, ma non il primum movens della stessa.

Quella tattica, applicata all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, avrebbe rappresentato il primo tentativo di inserire l’azione del movimento operaio e proletario all’interno dei giochi per il dominio del pianeta o del loro rovesciamento in chiave rivoluzionaria.
Oggi sappiamo che quella guerra poco modificò la condizione sociale degli afro-americani in vaste aree del Nord America, ma che, invece, ampiamente contribuì allo sviluppo della potenza imperiale che avrebbe sopravanzato quella britannica definitivamente soltanto dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Questo trionfo del “secolo americano”, come lo ha ben definito Geminello Alvi1, non avrebbe soltanto rappresentato un cambio di segno ai vertici del potere geo-politico e militare occidentale, ma anche uno spostamento dei limiti del domino reale del capitale.

Il capitalismo sorto dalla prima rivoluzione industriale dominava la produzione, ma non poteva ancora integrare del tutto la società, e in particolare i lavoratori salariati, nella sua visione del mondo, se non attraverso strategie di carattere ideologico e politico messe in atto negli anni Venti e Trenta del XX secolo che erano destinate comunque a mostrare i propri limiti attraverso successivi tracolli militari ed economici. Infatti, anche se i regimi “fascisti” avevano contribuito a sottomettere l’intera politica statale alle necessità del capitale (rappresentando in tal modo un superamento della democrazia liberale e un ammodernamento dell’organizzazione socio-politica in chiave capitalistica), il capitalismo made in USA uscito vincitore dal secondo conflitto mondiale avrebbe saputo coinvolgere nella propria visione “consumistica” milioni di cittadini appartenenti ad ogni classe sociale soltanto attraverso l’offerta illimitata di beni disponibili, sia materiali che non e sia nel caso che questa promessa di benessere fosse concreta o illusoria.

Non a caso, in uno studio del 2005, la storica statunitense Victoria De Grazia definisce “impero irresistibile” la capacità statunitense di conquistare il mondo non solo attraverso l’uso delle forze militari di terra, di cielo e di mare oppure della forza del dollaro e della sua spregiudicata finanza, ma anche per mezzo della diffusione di nuovi e sempre più estesi consumi2 o, almeno, di una promessa in tal senso.
Al di là della diffusione dello star system cinematografico, della vendite rateali, delle catene di negozi associati nel nome e nel prezzo, che già erano stati protagonisti anche in Europa della promozione dei consumi dopo la prima guerra mondiale, nel Vecchio Continente fu il Piano Marshall a costituire il grimaldello definitivo per proporre a tutto l’Occidente lo stile di vita e di consumo americano. Come scrive infatti la storica americana:

Se lo si considera il fulcro della travagliata trasformazione dell’Europa in società dei consumi, il Piano Marshall va valutato non tanto per il contributo finanziario che seppe dare alla ricostruzione europea quanto piuttosto per le condizioni che impose all’elargizione degli aiuti. Nel complesso, le somme che vennero effettivamente spese in Europa sotto forma di crediti, sussidi e forniture sono oggi considerate irrisorie rispetto agli investimenti interni dei singoli paesi, pari forse al 5 per cento del capitale totale maturato negli anni della ripresa fino al 1950. Operando in stretta collaborazione con chi in Europa Occidentale condivideva le loro vedute, i pianificatori statunitensi, i responsabili degli aiuti e i grandi imprenditori mirarono ad impedire che i politici, ancora memori della Depressione, e della pianificazione di guerra, ripiegassero sull’intervento statale e sul protezionismo economico […] Ciò a cui si mirava era costruire un’Europa industrializzata capace di autosostentarsi, un’Europa compatta, unificata dalla spinta del commercio interregionale, eppure pienamente integrata nell’economia mondiale dominata dagli Americani3.

Se dal punto di vista economico e politico gli Stati Uniti avevano avviato quel processo di collaborazioni locali e di apertura delle frontiere di alcune aree un tempo del tutto o parzialmente ostili, che avrebbe finito col favorire la penetrazione dell’influenza politica, dei capitali e delle merci americane, dal punto di vista dell’immaginario politico e sociale la medesima azione ebbe come scopo quello di superare le resistenze sia di uomini d’affari ancora ispirati da obsolete vedute di carattere nazionalistico che quelle di una forza lavoro spaventata di fronte a ciò che il rinnovo dei sistemi di produzione avrebbe richiesto: disoccupazione, intensificazione dei ritmi di lavoro, cronometraggio, pagamento a cottimo senza un corrispondente aumento dei salari.

Fu così che oltre all’uso propagandistico della figura di «Joe Smith, il lavoratore medio americano», il cui alto tenore di vita, una casa linda e ordinata e l’auto in garage avrebbero dovuto convincere i lavoratori europei a lavorare più sodo e accettare la “momentanea” disoccupazione in nome dei miglioramenti futuri, l’obiettivo finale del piano di aiuti americano divenne non soltanto quello di promuovere un’alleanza transatlantica che attraversasse tutta l’Europa, ma anche quello di contribuire all’incremento dei livelli di consumo anziché ridare vigore alle coalizioni anticonsumo dell’era prebellica.

L’ostilità verso norme di consumo più elevate doveva durare poco. Nel 1951, quando con il calo dell’inflazione, il decollo delle industrie di base, la ripresa del commercio nell’Europa occidentale esplosero le proteste operaie, i funzionari americani dell’Eca (European Cooperation Agency) ricordarono ai loro alleati che in origine il Piano Marshall era stato concepito allo scopo di combattere i comunisti. Occorreva pertanto aumentare le concessioni dei fondi destinati ad alloggi, ospedali, scuole, strutture turistiche e simili; anche i datori di lavoro, se non volevano passare per industriali reazionari, borghesi ed economicamente retrogradi, ancora legati all’infelice passato del Vecchio Continente, avrebbero dovuto condividere i proventi della produttività con la «gente comune d’Europa»4.

Ora, aldilà della sorpresa per alcuni nello scoprire come il “superiore” sistema di welfare europeo in realtà sia stato indirettamente originato dalla pianificazione economico-politica statunitense post-bellica, è interessante vedere come le ragioni della lotta contro “il pericolo comunista” di stampo sovietico o filo-sovietico affondassero le loro radici sia nella necessità americana di non rallentare, ma anzi di ampliare il flusso delle merci su scala globale, sia nella capacità di affrontare il nemico con armi nuove e impari: ovvero con la capacità di offrire, almeno virtualmente piuttosto che di negare realmente, l’accesso a quegli stessi beni.

Da lì a poco, infatti, le immagini della famiglie americane soddisfatte intorno ai loro frigoriferi stracolmi e ai televisori e agli altri elettrodomestici, destinati a liberare il lavoro casalingo femminile ben più di qualsiasi altra formulazione ideale, avrebbero facilmente contrastato le immagini ideologiche del “socialismo reale”, accompagnate però da quelle dei banchi delle merci semivuoti, code per il pane lunghe e beni di lusso relegati a negozi e grandi magazzini destinati soltanto agli stranieri benestanti e ben paganti.

Sul piano della rappresentazione ideale il capitalismo americano seppe così, a partire da quegli anni, imporre un’immagine di sé estremamente efficace, tendente a contrastare nei fatti una promessa di un “radioso” e “più giusto” futuro di cui, però, da oltre cortina non arrivavano immagini altrettanto convincenti. Alle fotografie dei leader bolscevichi d’antan e sovietici del momento, il capitale americano poteva contrapporre non solo quella di auto ed elettrodomestici luccicanti e famigliole felici davanti all’abbondanza di cibo grazie ad uno sforzo lavorativo che offriva, a differenza di quello sovietico, risultati immediati, ma anche quella dei volti giovani e belli delle star di Hollywood, cui di lì a poco, con la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, anche la politica americana avrebbe dovuto adeguarsi ai suoi vertici.

Si può così considerare estremamente simbolico il fatto che mentre il 14 maggio 1955 era nato il Patto di Varsavia, con sei anni di ritardo rispetto alla nascita del Patto Atlantico (NATO) e soltanto dopo aver schiacciato la rivolta operaia di Berlino Est e giusto un anno prima di quella più vasta e complessa degli operai ungheresi, il 17 luglio dello stesso anno ad Anaheim, nella periferia di Los Angeles, avvenisse l’inaugurazione della prima Disneyland. Prima autentica cittadella del divertimento di massa e della riproduzione concreta del sogno americano, destinata sicuramente ad un pubblico infantile, non solo per età, affamato di beni sia materiali che immateriali. Spostando definitivamente il conflitto per il controllo dell’immaginario su un piano che i partiti derivati dall’esperienza bolscevica e del Comintern o Cominform non erano assolutamente pronti ad affrontare se non denunciando, ancora una volta, gli intrighi statunitensi e i maneggi della CIA5.

Impegnati com’erano, gli stessi partiti, a contestare l’espansione economica americana ed occidentale presentando i lusinghieri, ma artefatti risultati dei piani quinquennali sovietici6, ignorarono del tutto il fatto che il dominio reale del capitale, sempre guidato dalla necessità di espandere la vendita delle merci per realizzare il valore di scambio in esse contenuto, si estendeva oltre le strutture produttive, economiche, politiche, giuridiche e amministrative, di cui già aveva assunto il controllo, a quelle psichiche di quella stessa classe che avrebbe dovuto, secondo le interpretazioni più ortodosse, rappresentarne la negazione storica e politica.

Victoria De Grazia afferma infatti che:

il Piano Marshall non fu affatto concepito allo scopo di creare un’Europa di consumatori. In prima istanza fu ideato per far fronte alla penuria di dollari, che impediva ai fornitori europei di acquistare prodotti statunitensi e minacciavano di bloccare la ripresa. Tale penuria fu attribuita al divario commerciale tra le due aree, che a sua volta era dovuto alla perenne fiacchezza della produttività dell’economia europea. Di conseguenza, la priorità assoluta del Piano fu quella di incentivare la produttività mediante gli investimenti nella riorganizzazione industriale e nelle infrastrutture […]. Quindi, non si poteva concedere alcun aiuto destinato a riempire i guardaroba vuoti, ristrutturare le case, pagare le pensioni e tanto meno aumentare i salari. Anche gli aiuti alimentari erano distribuiti con parsimonia – solo nel caso in cui era strettamente necessario per motivi politici – come nella Germania occidentale nel 1948, allo scopo di attenuare la malnutrizione, compensare le carenze più gravi e consentire ai governi di favorire la ripresa senza sollevare le furibonde proteste di chi pativa la fame. […] In sostanza era necessario convincere i popoli dell’Europa occidentale ad accettare ciò che Charles S. Maier ha sinteticamente chiamato la «politica della produttività»7.

Questo potrebbe apparire in contraddizione con quanto fino ad ora detto, ma non lo è se si considerano i due cardini ineliminabili della politica economica del capitale: 1) incrementare la produttività e quindi la redditività del lavoro vivo, come unica fonte di creazione di plusvalore e 2) impedire che l’aumento di produttività di qualsiasi o tutti i settori della produzione potesse trovarsi annullata da colli di bottiglia venutisi a creare nel settore della circolazione delle merci tra la prima e l’effettiva capacità di assorbimento del mercato.

Due problemi che da sempre assillano il modo di produzione capitalistico e la sua effettiva capacità di realizzare sul mercato il valore virtualmente prodotto dal pluslavoro estratto in forma sempre più massicce dalla forza lavoro per mezzo del continuo incremento e rinnovo del capitale costante.
Se si tengono ben presenti questi due ultimi concetti si vedrà allora che ad ogni svolta tecnologica e produttiva non c’è alcun bisogno di gridare alla novità o alla capacità del capitale e dei suoi funzionari di controllare massicciamente la società e l’agire umano. Il domino reale del capitale ha affinato le sue armi e le sue tecniche, ma non ha cambiato di segno la sua sostanza.

Se nella fase susseguente alla prima e seconda rivoluzione industriale il lavoratore era integrato nel processo di produzione attraverso la sua dipendenza dalla macchina, da cui derivava però ancora la sua alienazione rispetto alle finalità della stessa, nella nuova fase aperta dalla società dei consumi affermatasi dopo il secondo conflitto mondiale la forza-lavoro si ritrovava “coinvolta” nel prodotto attraverso il desiderio dello stesso, anche se non appartenente allo stesso segmento produttivo di cui faceva parte il singolo operaio. Non più per motivi ideologici (fascismo, nazismo, stalinismo) dunque, ma per “interesse” personale e spinta al consumo.

Motivo per cui ogni “nuova” fase dello sviluppo capitalistico non richiede analisi del tutto nuove o presunte tali, ma forme di lotta adatte alle nuove condizioni imposte dal capitale. Negli anni Sessanta, la ripresa delle lotte operaie aveva posto al proprio centro richieste salariali che erano state dettate anche dai nuovi bisogni che la diffusione delle immagini di un benessere basato sull’ampliamento dei consumi avevano innestato a livello individuale e collettivo8. Quella protesta, di fatto alimentata forse più dalla tendenza al “consumismo” che da una non meglio definita “coscienza di classe”, aveva, però, scardinato per un momento nemmeno troppo breve l’ordine sociale capitalistico e il suo comando sul lavoro. Una volta finita, come in ogni periodo controrivoluzionario, lo stesso aveva però potuto costituirsi ad un livello più alto, aiutato in questo proprio dalle lezioni apprese dallo scontro aperto con il nemico: l’insorgente, a tratti, proletariato di fabbrica. E’ proprio l’apprendere da tali lezioni che permette al capitale collettivo di avvantaggiarsi nelle fasi immediatamente successive e a far sembrare che siano le lotte proletarie a rafforzarlo in qualche modo.

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica.

Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità9.


  1. Geminello Alvi, Dell’Estremo Occidente. Il Secolo Americano in Europa. Storie economiche 1916-1933, Marco Nardi Editore, Firenze 1993  

  2. Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe, Belknap Press, 2005 (in traduzione italiana: L’impero irresistibile. società dei consumi americana alla conquista del mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006)  

  3. V. De Grazia, op. cit., ed. italiana pp. 371-372  

  4. Ibidem, p. 374  

  5. Si veda, ad esempio, Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi Editore, Roma 2004  

  6. Si veda, ad esempio, l’attenta e dettagliata critica dei trionfalistici dati sovietici contenuta negli articoli dello stesso periodo di Amadeo Bordiga su «il programma comunista». In particolare in quelli raccolti successivamente in: Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista, Milano 1976.  

  7. V. De Grazia, op. cit., pp. 372-373  

  8. Si veda in proposito: Dario Lanzardo, Produzione, consumi e lotta di classe, «Quaderni rossi» n. 4, Reprint, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1976  

  9. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213