di Giorgio Bona

Non tutti sanno che nel gergo dei regolamenti penitenziari con il termine “traduzione ordinaria” si intende il viaggio dei detenuti per il trasferimento da un carcere a un altro. Si aggancia un vagone cellulare a un treno omnibus o accelerato che viaggi soltanto di giorno. Se il tragitto è lungo si fa tappa in qualche carcere, in uno di quei luoghi terribili e squallidissimi che si definiscono transiti, dove si può sostare per molti giorni prima di riprendere il viaggio.

1963. Anno di uscita di un libro dal titolo, appunto, «La traduzione» di Silvano Ceccherini, autore toscano di cui val la pena ripercorrere il cammino perché ci ha lasciato scritti di grande valore.

Livornese, dotato di una poetica straordinaria che liricamente si avvicina alla canzone del suo conterraneo Piero Ciampi, Ceccherini, nato nel 1915, troncò i suoi studi alla quarta elementare e cominciò ad esercitare diversi mestieri, dal manovale al camallo nel porto di Livorno.

Nell’immediato dopoguerra fu condannato a una pena pesantissima e per lui si aprirono le porte del carcere.

Ceccherini proviene da una terra straordinaria, tra le coste selvagge della Maremma e le spiagge della Versilia. Livorno si trova in mezzo. E così chi ci vive. Terra calda, di fermenti, di lotte. Davanti Elba, Capraia, Pianosa e Montecristo, isole di ovini e catene da spezzare, terreno impervio a strapiombo su un mare che porta alla follia. Quel mare Silvano lo ha visto quasi sempre dalla bocca di lupo delle celle che ha girato, perdendo lo sguardo nelle burrasche e nelle giornate di calma.

L’onda dell’esistenza crollata nelle acque profonde di un mondo a sbarre e cuore, dove la vita l’aveva combattuta animato da quella grande patologia che è il linguaggio, negli inferi dove regnava il disordine senza la pretesa o l’illusione di riportarlo in qualche modo “corretto” ma per raccontarlo, perché è quel disordine che il mondo non vuole conoscere e non vuole averci a che fare. Perché il suo universo letterario non è stato un esercizio fatto per sé, né tantomeno per essere analizzato dai critici, ma un’amara medicina universale che non percorreva i canali ufficiali consapevole di raggiungere chi voleva.

Ogni interruzione è dolore, sospensione dalla vita, quando la letteratura è la vita e la vita è letteratura, perché entrambe sono una felicità istintiva, improvvisa, non ai margini come si vuole far apparire o si vuole relegare.

C’è in questa letteratura un nucleo eretico, un avvicinarsi e allontanarsi dal fuoco di un enigma che non sarà mai svelato, perché anche il mondo la maggior parte delle volte non dà risposte.

Nei suoi anni duri, scontati nelle più terribili carceri italiane, scrivere è stata la sua chirurgica missione e i suoi libri parlano di cose vere. C’è molta amarezza, c’è la volontà di costringere il dolore e l’infelicità dentro un linguaggio semplice ma di parole perfette, quelle parole che fisicamente si adattano a un corpo.

Come direbbe Lukács, il linguaggio è un corpo perché ne è una sua espressione. Una necessità di ascoltarsi e restituire attraverso l’espressione una lingua condotta da un’estrema economia, caratterizzata dall’alto peso specifico di parole fendenti come lame, dotata di una precisione che restituisce intensità e consistenza.

Un articolo apparso sul “Corriere della Sera” raccontava di un anarchico, rapinatore, galeotto che negli ultimi anni della sua esistenza diventò un caso letterario. Ecco La traduzione, appunto. La storia di un trasferimento, dove il protagonista, incarcerato da vent’anni, dal penitenziario di Civitavecchia a quello di Saluzzo. Pubblicata nel 1963 da Feltrinelli e riscoperta e riproposta da Elliot nel 2013.

Una letteratura che nasce distante dai libri di scuola, abitando la strada, l’unico percorso di formazione possibile, quella che ti avvicina alla vita vera. Un apprendistato durissimo. Risse, furti, rapine a mano armata nelle ville dei ricchi di Castiglioncello e Quercianella.

Ceccherini fu anarchico, scaricatore di porto, bandito, rapinatore, ladro, agente di borsa nera, quella borsa nera che lui gestiva vivendo in una baracca nella pineta del Tombolo, tra Pisa e Livorno, luogo dove abitò con una donna che faceva la vita.

Fu anche assessore nella Livorno liberata prima di diventare capo di una banda che assaltava i camion americani che trasportavano merci e che rivendeva a tutti i ricettatori da Genova a Grosseto.

Leggendo questo libro mi viene in mente Jack London, ne trovo una profonda analogia di formazione.

Dalla strada alla durezza del carcere. Più dentro che fuori. Entri ragazzo ed esci che sei vecchio erano sue parole.

A sedici anni fuori di casa. Quattro anni di vagabondaggio. Due di marina militare. Cinque di legione straniera. Tre di reclusione militare. Diciotto di detenzione civile.

Nell’anno in cui scrisse La traduzione, tra le mura del carcere, ingerì 130 pastiglie di sonnifero a scopo suicida e, dopo quattro giorni di coma, si svegliò più arzillo di prima.

Ma parliamo di questo libro dal titolo geniale che abbraccia la grande letteratura. Chi si aspetta che La traduzione rappresenti un esempio di narrativa carceraria parte già con un approccio sbagliato. In questo racconto, in terza persona (qualcuno può pensare che ci sia nel protagonista una parentesi di vita dell’autore), un detenuto di lungo corso si trova alle prese con un trasferimento dal carcere di Civitavecchia al carcere di Saluzzo nel bel mezzo di una torrida estate italiana, tra soffocanti vagoni cellulari e roventi furgoni blindati.

È un mondo dove la realtà è filtrata attraverso la visione dell’anima, in questa storia in cui il mondo viene guardato dalla luce fioca delle sbarre.

Ecco allora un bel paesaggio, una ragazza che corre, una famiglia in attesa del treno sui binari di una stazione, cose normali che diventano qualcosa di straordinario nei colloqui tra detenuti.

Giorgio Bassani ammise la posizione di una critica ufficiale che non riconosceva e non aveva fiducia nelle opere dei non letterati, e che lui stesso smentì dicendo che aveva torto marcio.

Una visione mai immaginata delle cose fa di questo autore un portavoce della letteratura che parla degli ultimi e degli esclusi.