di Alessandro Petrocelli

Tentativo di descrivere l’impenetrabile 

Per comprendere un concetto è necessario contestualizzarlo.
La definirei una regola generale applicabile analogicamente in campi diversi dalla dialettica; il termine contesto viene definito, tra l’altro, come il complesso delle circostanze in cui nasce e si sviluppa un determinato fatto. Vivo in città, mi affaccio dalla finestra e vedo palazzi, cammino e vedo palazzi, per strada mi fermo e alzo lo sguardo, ancora palazzi. Il mio contesto.
L’unica forma d’arte da cui chiunque è accerchiato è l’architettura, non si paga il biglietto per accedervi ma si subisce a prescindere dalla sua forma, che si concretizzi in blocchi di cemento o villini liberty. Il contesto circostante condiziona la percezione di chi lo vive, diventa un riferimento da cui nel tempo è possibile prendere le distanze senza che tuttavia perda la sua natura di metro di paragone, a prescindere dall’accezione positiva o negativa con cui lo si interpreti.

Fino a che punto però l’uomo, nella figura dell’urbanista, del pianificatore mosso da un’ideologia, può modificare o creare ex novo un contesto abitativo corrispondente ai principi della sua ideologia di riferimento? I tentativi nella storia recente sono stati numerosi, l’architettura razionalista del ventennio, marmorea, imponente e perfettamente simmetrica, l’edilizia popolare sovietica, tanto odiata dai più fini buongustai quanto apprezzata dalla moltitudine di persone che in alternativa avrebbero dormito per strada, ma anche alcuni lussuosi grattacieli pinnacolati, simboli di un’estetica dell’opulenza propria del capitalismo
Un esperimento del genere viene posto in essere anche in Tentativo di descrivere l’impenetrabile di Dag Solstad (trad. M. Ciaravolo e M.V. D’Avino, Iperborea, 2007).

Il romanzo è ambientato in Norvegia all’inizio degli anni ottanta, il partito socialdemocratico è saldamente al potere e i più rinomati prodotti tipici sono ancora aringhe e petrolio e non chiese bruciate e urla di Varg Vikernes. Non conosco bene la storia del paese, tanto meno in quel periodo specifico, i miei principali riferimenti culturali sono John Arne Riise e la discografia dei Mayhem, tuttavia – sempre per contestualizzare – posso dire che in quegli anni John Arne frequentava la scuola materna e sia Dead che Euronymous lottavano ancora insieme a noi. Lasciando da parte vecchie glorie romaniste e l’Inner Circle, nell’immaginario comune il primo pensiero che normalmente si ricollega a questa nazione è un idilliaco paesaggio naturale, fiordi, aurora boreale, foto sui social dell’aurora boreale, le Lofoten. Questa storia invece si svolge in un sobborgo.

A.G. Larsen, il protagonista, è un architetto sulla quarantina. Dirige l’ufficio pianificazione di un istituto cooperativo per l’edilizia popolare ed è iscritto all’AP, il partito laburista norvegese. All’inizio della storia viene colto da una di quelle crisi di mezza età che danno il via praticamente alla metà dei romanzi contemporanei. Soffre di nostalgia, di «nostalgia socialdemocratica», fondamentalmente si sente distante dal popolo che ha sempre idealizzato e medita degli escamotage per venirvi a contatto, pensa addirittura di iniziare a frequentare lo stadio solo per potersi confondere col suo oggetto del desiderio, salvo poi constatare che il fantomatico popolo, avendone la possibilità, gli eventi preferisce guardarli comodamente sul divano di casa. Larsen ricerca quella che chiama la «vita possibile», non la realtà borghese edulcorata cui si è abituato nel tempo, quindi abbandona moglie e figli per trasferirsi a Romsås, città satellite di Oslo che in gioventù aveva progettato insieme ad altri urbanisti più esperti che condividevano i suoi ideali socialdemocratici.

L’obiettivo era edificare una «città satellite umanizzata» per la «classe operaia più ricca del mondo». Lo spazio riservato alla vita privata doveva essere ridotto al minimo, ai soli aspetti funzionali, a fronte di una moltitudine di spazi destinati alla socialità, sul modello sviluppatosi in Europa centrale a partire dagli anni venti principalmente grazie alle teorie di Le Corbusier e Gropius. Significativi i frequenti confronti con Ammerud, conglomerato di palazzoni alienanti fisicamente vicini a Romsås e tuttavia molto lontani a livello ideologico.
Romsås doveva essere un’oasi, un «inno alla vita comune», venuta traumaticamente a confronto con la realtà; in primo luogo si è posto un problema di natura economica, i finanziatori privati, concentrati sul profitto, si sono opposti al progetto iniziale snaturandolo; successivamente ha assunto rilievo il comportamento dei destinatari ideali, la «classe operaia più ricca del mondo». Dopo pochi anni dalla costruzione le aree destinate alla vita sociale sono inutilizzate o abbandonate mentre gli appartamenti privati sono attrezzati con tutti i comfort. Pochi passeggiano per il solo gusto di farlo, ci si muove in automobile per andare al lavoro o in qualche stazione di servizio a fare acquisti, per tutto il resto basta guidare mezz’ora per raggiungere il centro di Oslo.

In questo contesto gli unici con cui Larsen riesce a stringere rapporti sono i vicini di casa, una coppia con figlio. Lui è un commesso maneggione, lei una casalinga riservata. In loro Larsen riesce a intravedere quella che considera la «vita possibile» e con un vago paternalismo spende le sue serate a vedere film d’azione statunitensi insieme a quella famiglia che lo attira a sé per la sua semplicità, per essere parte e immagine del popolo.

E così mentre il partito laburista norvegese assume posizioni ambigue in merito agli armamenti atomici, non condivise ma difese strenuamente da Larsen in nome di un non richiesto centralismo (social)democratico, con una cesura netta la storia sfocia in melodramma. Solstad dichiara che quanto segue è un tentativo di descrivere il popolo norvegese, l’impenetrabile. Come può il benessere economico sembrare direttamente proporzionale al malessere psicologico di questa nazione? L’autore usa la tragedia personale di Larsen per analizzare i risvolti psicologici più torbidi di una società tanto benestante quanto insoddisfatta, chiusa in sé stessa e Romsås fa da sfondo al dramma (chiaramente ho trovato diversi raffronti con Ibsen, come succede più o meno con qualunque autore non espressamente comico con il passaporto norvegese).

A partire da Romsås emerge il conflitto ideale tra Larsen e il suo vicino. Il primo la vede come un’occasione mancata, il progetto ispirato a un concetto di comunità urbana ideale alla fine si è sviluppato in una direzione opposta. Il vicino invece si considera un privilegiato, un appartamento a Romsås fa status – lui la chiama Beverly Hills – anche se risulta impegnativo pagarne il canone. Fondamentalmente il fallimento del primo costituisce la sudata conquista del secondo.

Solstad ha scritto questo romanzo quando militava nell’AKP, il partito marxista leninista norvegese. La critica alle contraddizioni della socialdemocrazia estrinsecate tramite la figura di Larsen non sono neanche molto velate, la flessibilità ideologica che conduce a capriole politiche, il mito dell’assistenzialismo, la distanza dal paese reale ma anche il forte, a tratti eccessivo, pragmatismo. Questo romanzo, pubblicato nel 1984, appartiene a quella che viene considerata la seconda fase narrativa dell’autore; sommariamente, a un primo periodo influenzato soprattutto dall’esistenzialismo succede una seconda fase caratterizzata dal realismo politico cui, infine, segue un periodo più introspettivo, volto ai bilanci della vita passata e sostanzialmente privo di riferimenti politici (escluso il presente, tutti i romanzi di Solstad editi in italiano rientrano in quest’ultima fase). Considerando ciò il romanzo si può interpretare come una critica dei costumi del popolo norvegese e in particolare di un militante medio del partito di maggioranza. I tentativi del protagonista di avvicinarsi a un popolo da cui è quanto mai distante appaiono goffi, Larsen viene respinto e relegato alla solitudine dall’impenetrabile, il popolo norvegese, serrato nel più estremo individualismo e indotto a ripudiare ogni forma di socialità anche quando in astratto sarebbe a portata di mano come a Romsås, almeno secondo l’idea di chi l’ha progettata.

Chi progetta è chi decide (previa avallo di chi finanzia). Il problema è che un progetto serve a realizzare un’opera che, auspicabilmente, sarà utilizzata da qualcuno, pertanto il confronto con la realtà è nel migliore dei casi inevitabile. Questo aspetto viene più volte sottolineato da Solstad, il romanzo infatti è molto circostanziato e volto a descrivere una serie di tratti specifici del popolo norvegese, tuttavia presenta un concetto di portata generale: gli urbanisti detengono un potere molto pervasivo ma quando hanno tentato di realizzare un progetto volto a stimolare un cambiamento radicale nella concezione dell’abitare e del vivere comune hanno spesso fallito. Gli usi di una comunità sono strettamente vincolati alla struttura, al sistema economico della società in cui il progetto si dovrà concretizzare, l’idea di creare a tavolino una città destinata a essere un «inno alla vita comune» diventa un’illusione se si pretende di realizzarla in un contesto prettamente capitalista e pertanto individualista per definizione. Questa critica si può estendere peraltro alla socialdemocrazia stessa, con il suo obiettivo di modificare la società mediante un piano di riforme da inscriversi all’interno di un quadro capitalista e pertanto inevitabilmente destinato al fallimento nel lungo periodo.

Individualismo e senso di isolamento sono conseguenze naturali di un sistema economico fondato sul profitto e i cui valori ultimi mirano alla sola riuscita personale accantonando ogni aspetto sociale, non a caso i destinatari di progetti del genere si sono spesso dimostrati refrattari, risoluti a non pagare il prezzo di un’ideologia che non appartiene loro non per colpe specifiche, ma poiché nati e cresciuti all’interno di un sistema che promuove ideali diametralmente opposti e disincentiva gli obiettivi sociali che molti urbanisti hanno tentato di raggiungere progettando quelle che sarebbero dovute essere città modello. Larsen può offrire la cena ai vicini, può comprare loro regali, non può però influenzare da solo il loro stile di vita già pesantemente condizionato dagli influssi esterni cui sono sottoposti senza soluzione di continuità.

Al fine di trasformare la percezione dell’architettura è necessario pertanto modificare la struttura stessa della società, dal momento che solo una persona libera dai condizionamenti del sistema capitalista può avere gli strumenti per rispondere a determinati stimoli dell’urbanistica, altrimenti destinati ad apparire come meri esercizi teorico-ideologici imposti dall’alto. Solo con questi presupposti tentativi come quello di Larsen potranno essere recepiti dalla collettività, quando vi sarà un’identità di fondo tra l’ideale del pianificatore e quello della società che dovrà vivere le sue decisioni.
Nell’attesa godiamoci il melodramma a denti stretti.