di Diego Leandro Genna

Le sirene urlavano l’allarme. Sarebbe stata un’altra notte di bombardamenti. L’ennesima.

Mia nonna era bambina. Lei e sua mamma vivevano da sole. Avevano ancor un tetto sopra la testa, per miracolo. Una casetta al secondo piano, affacciata su una vecchia corte, una viuzza stretta, botteghe di calzolai, un modesto paese di provincia, lo stesso nel quale dopo tanti anni sarei nato anch’io.

Il cielo era bagnato dai morbidi raggi del tramonto e i muri delle case, in tufo o arenaria che dir si voglia, assorbivano la luce come spugne marine.

Immagino un tramonto con riverberi madreperla, di quelli che infondono all’animo del passante una preziosa dolcezza. Ma quelli erano tempi duri. Durissimi. La guerra infuriava in tutto il continente. Oltre gli oceani. Nel mondo intero. E i passanti tenevano la testa bassa, il cuore indurito dalle sofferenze e lo stomaco stretto dalla fame. Smunti, sfuggenti, quasi incorporei, simili a tante ombre. Mia nonna li guardava dalla finestra. In silenzio. Erano quasi le sette di sera e quella luce le ricordava il mare, le conchiglie che era solita raccogliere dal bagnasciuga. L’estate non era lontana ma l’aria era fredda e ancora una volta le sirene raggelavano il sangue.

Era ancora una bambina ma già sapeva che al suono metallico delle sirene, lei, sua mamma e l’intero paese avrebbero dovuto lasciare il focolaio domestico nelle mani di una sorte cieca e crudele, abbandonando ciascuno la propria casa dove forse si sarebbero consumati miseri piatti, zuppe e minestre riscaldate, un qualcosa insomma, anche soltanto un boccone, che avrebbe comunque riunito i cari intorno alla tavola. Mia nonna già sapeva che quel suono voleva dire scappare, mettersi al riparo, nascondersi sotto terra, fuggire da una morte anonima che piombava dal cielo, un terribile stormo di mostri alati, capaci di sbranare ogni cosa, persino le case.

E di case ridotte in macerie ce n’erano già tante anche nel suo quartiere. Scheletri e carcasse di abitazioni, macabre rovine. Il paese era in parte sventrato. I tetti caduti, le travi conficcate in cumuli deformi, rivolte verso il cielo come dita puntate contro un destino spietato.

Una di quelle era la casa dove viveva la famiglia della sua amica Adele, che dava sul cortile all’angolo della strada. Giocavano spesso in quel cortile, mia nonna e Adele. Adesso la casa non c’era più, distrutta, Adele e i genitori scomparsi e il cortile silenziosamente sommerso dalla sciagura. Mia nonna era rimasta sola, senza nessuna amica con cui giocare. E da allora aveva avuto ancora più paura, e non credeva alla parole della madre che diceva di non preoccuparsi, che Adele e suoi genitori si erano trasferiti in un luogo più sicuro, in campagna.

Avevano giocato fino al giorno prima in quel cortile, e qualche volta, in seguito, passando vicino alle macerie a mia nonna veniva lo strano impulso di chiamare la sua amica, Adele, Adele, vieni fuori… ma aveva troppa, troppa paura.

 

-Perché non andiamo anche noi in campagna?-

Implorò quella sera mia nonna.

-Noi non abbiamo una casa in campagna.

Fu la risposta di sua madre, imperturbabile.

-Potremmo andare dagli zii.

No, non insistere. Te l’ho già detto: dagli zii non c’è più spazio.

Le due sorelle più piccole erano in campagna, dagli zii. Il padre era in guerra.

Mia nonna non aveva aperto più bocca. Si era avvicinata alla finestra a scrutare il vuoto della strada e le rare ombre che la attraversavano. Le lacrime agli occhi.

Quella sera, per cena, sua madre avrebbe dovuto cucinare una zuppa di legumi, una manciata, ma comunque un lusso visti i tempi che correvano. Erano sulla tavola, messi a bagno in una ciotola dal giorno prima, già morbidi e pronti per esseri cucinati.

Spesso la cena era solo un pezzo di pane raffermo con un brodo nel quale era difficile pescare un pezzetto di carota o una foglia di sedano. Tutto qui. Però c’era qualcosa che non mancava mai. Un ingrediente costante in quelle misere cene. La paura. L’estratto più puro della paura. La paura della morte improvvisa. Le sirene suonavano sempre a quell’ora e anche quando tutto il paese era immerso in una coltre di silenzio e si sentivano ronzare le mosche, pur facendo il possibile per non pensarci, mettendocela tutta, provando a far finta che andasse tutto bene, la paura era sempre lì, tacita e untuosa, ad accompagnare ogni movimento, il tintinnio di un piatto o di un bicchiere, il crepitio del fuoco o il gemito di una sedia. Certe sere la sua presenza era così invadente che sembrava di averla a tavola, seduta lì con loro a fissarle in silenzio, come uno scomodo commensale, un ospite sgradito che ha preso il suo posto e nessuno ha il coraggio di cacciare.

Quella volta però le sirene urlarono prima di cena, anticipando il fiammifero che umilmente avrebbe acceso il fuoco. Quel suono spazzò via i colori del tramonto, fece tremare i vetri delle case, frantumò in mille schegge lo sguardo di mia nonna. La paura incendiò l’aria.

A questo punto della vicenda, il racconto di mia nonna, prima ricco di particolari, diventava scarno e sfuocato.

Si erano attardate qualche minuto prima di uscire, e pur correndo come due matte avevano trovato il rifugio vicino casa già chiuso, perché stipato di gente, e quindi avevano dovuto correre ancora di più, ancora più affannate, per raggiungerne un altro.

Raccontava di questo episodio del bunker già pieno in modo confuso, le parole le inciampavano sulle labbra, come se la realtà fosse stata troppo veloce e inafferrabile, forse troppo irreale. Poi il nulla. Il racconto si arrestava sulla soglia dell’altro rifugio. Un abisso risucchiava i suoi occhi. Le labbra murate dall’orrore. Macerie di memorie che il suo inconscio non riusciva più smuovere. Il ricordo di quei giorni, pesante come mille lapidi, gravava ancora nel suo presente, a distanza di mezzo secolo. E il buio si spalancava in lei. Un buco nero che si portava dentro.

Rimase a lungo chiusa in quel rifugio, perdendo la cognizione del tempo e dello spazio, mentre una pioggia incessante di bombe cascava dal cielo.

Non riesco nemmeno a immaginare cosa abbia provato mia nonna, così come tutte quelle persone rintanate sotto terra. Suoni mostruosi, rancidi tremori, caldo asfissiante, tanfo di putrefazione, il tormento stretto in una camicia di forza, diventare ciechi, pazzi, perdersi in una grotta, annegare. Bisogna passarci dall’inferno per poterlo raccontare.

O forse, per mia nonna bambina, fu solo una lunga parentesi di noia e buio. Un’attesa sepolta. Un abbandono tra le braccia umide della terra. Ritmato da scosse di paura a ogni bomba che scoppiava in superficie. Un silenzio ossequioso, proteso ad ascoltare cosa succedeva fuori. Ciascuno stretto nei propri pensieri, dentro il rifugio biologico di battito e respiro.

Nulla, che fosse riferito a quel bunker, usciva dalla bocca di mia nonna.

Fin quando i boati non cessarono del tutto. E la terra non tremò più. E fu cenere e silenzio. Nessuna parola possibile.

Prendersi per mano, uscire alla luce del sole, percorrere la strada verso casa, i corpi paralizzati dall’immobilità e avvelenati dalla paura. Una bimba e la sua mamma. Spossate da stanchezza e sonno, affamate, lerce di terra e polvere, di muffe ed escrementi; la gola arida, gli occhi che bruciano, a trascinarsi avvilite per quelle vie distrutte, ancora fumanti, tra l’aria di morte e devastazione.

Anche su tutto questo mia nonna non diceva una singola parola. Una parentesi vuota. Senza alcun sospiro.

Riprendeva il racconto con il ritorno a casa, dopo due giorni, e la sorpresa che fosse ancora lì, in piedi, che nessuna bomba l’avesse buttata a terra, quell’umile casetta circondata dalle macerie. C’era silenzio, e se non fosse stato per qualche lontano lamento si sarebbero sentite sole al mondo, lei e la sua mamma. Eppure erano sane e salve, e finalmente a casa.

A stento cominciarono a salire la scala, un gradino alla volta, ad ogni passo temendo che il mondo intero, o quello che ne restava, potesse crollare sotto i loro piedi.

Mia nonna era sfinita, aveva fame, sete, sonno. Non fiatava. Con sforzo immane giunsero alla porta, la aprirono e qualcosa d’incredibile era lì ad aspettarle, immobile al centro della cucina, per sua volontà. Non si mossero, tranne per la mandibola che cedette allo stupore. E restarono così, sulla soglia, incredule ai loro occhi, colpite al cuore da quella presenza così inaspettata. Quasi un segno divino.

Un piccolo cespuglio era cresciuto al centro della tavola. Un ciuffo verde, prodigioso e spontaneo, che inondava la casa di calma, fragilità e bellezza.

La realtà trovò nuovamente i suoi contorni. Lo spazio e il tempo tornarono al loro posto. La luce stessa sembrava emanare da quel verde, e sussurrare al mondo tetro, distrutto e disperato, l’invito a ricomporsi.

Mia nonna ebbe un brivido di gioia nel vedere quel germoglio. Non capì all’istante, ma sentì il sangue scaldarsi nuovamente e infondere linfa vitale al suo corpo. Rimase incantata. Un verde così morbido e sereno e sincero. Traboccante di grazia.

Era la ciotola dei legumi, quelli che avrebbero dovuto mangiare la sera in cui iniziarono i bombardamenti. Rimasti a mollo per tutto quel tempo erano naturalmente germogliati.

Fu una delle immagini più belle della sua vita. E tutta questa storia di guerra e morte, di sofferenze e privazioni, la raccontava sempre per il piacere di rivedere quel verde germoglio al centro della casa vuota e silenziosa. La luce ritornava nei suoi occhi e un timido sorriso le fioriva sulle labbra. Ancora bambina.

 

Il rifugio vicino casa di mia nonna, quello già gremito di gente, fu colpito da una bomba che cadde esattamente all’ingresso, diventando così una trappola per i rifugiati. Morirono tutti.

Era l’11 Maggio del 1943. La città in questione è Marsala.

La ferita, ancora oggi, è scolpita nell’immaginario collettivo della città.

 

Ogni volta che vedo dei legumi a bagno penso alla guerra. Penso alla vita e alla morte. Penso all’innata meraviglia della Natura e agli orrori dell’Umanità. Che sono sempre lì.

E spesso, quando vedo un germoglio, penso a mia nonna. Che non c’è più.