di Luigi Lollini  (illustrazioni di Buccia)

Cap. 1

Gli piacevo, mi veniva a cercare.

Se giocavo da solo sul pavimento di legno di camera mia, batteva le unghie ai vetri della finestra. Alzavo il capo, mi guardava negli occhi, si voltava e spariva.

Arrivava dal bagno in punta di piedi, la coda e la pancia sollevate da terra. Lasciava piccole impronte umide, che presto sparivano nell’aria. Mi fissava dal basso, si rizzava sulle zampe posteriori, mi annusava. Poi tornava nel fondo da cui proveniva con un lieve rotolio di passi.

Dormivo sempre a pancia in giù, avvolto nelle coperte ben rimboccate dalla mamma, un braccio sotto il cuscino, l’altro aggrappato al materasso. Quella notte no, mi agitavo, mi rigiravo nel sonno, aprivo gli occhi e vedevo la lucina rossa del televisore che si muoveva lenta dal soggiorno alla mia camera. Sentivo un peso allo stomaco e mi svegliavo. Erano due le piccole luci: i suoi occhi nel buio, vicini vicini, che mi scrutavano. Restava sulla mia pancia, pronto allo scatto, ormai lo vedevo: il muso era proteso, la coda si muoveva appena.

Mi svegliava la mamma. Quando il babbo era già uscito per andare in fabbrica, lei infilava Rock around the clock nel vecchio mangiadischi a valigia che tenevo in camera mia vicino ai piedi del letto. Mi spediva in bagno, mi accompagnava in cucina, la colazione era pronta, poi si usciva di corsa per le scale; traversava la strada con me, mi baciava, e rimaneva alla fermata del bus, mentre io proseguivo fino a scuola sotto i portici dei palazzoni del Beccaccino, se pioveva, o per la strada pedonale, lastricata di porfido, che serpeggiava al sole primaverile fra le collinette ombrose e i platani dei giardini pubblici.

Giocavo con i coetanei nel cortile della scuola, dove il maestro ci lasciava scorrazzare a lungo. Nei giardini e nei cortili si cresce in fretta. Bastava la parola e si diventava grandi: un branco di eroi sudati, riottosi, un brulicare di mani e gambe inquiete che consumava i deserti, le foreste equatoriali, le montagne, gli oceani.

La turbolenza non cessava quasi mai. Si discuteva su chi sarebbe stato il Re degli animali o la Tigre della Malesia, ma nel giro di dieci passi eravamo già mutati in un plotone di soldati russi nella bufera e subito si doveva stabilire la potenza di un lanciafiamme: «Lo regolo al minimo, mi scaldo le mani», dicevo.

«Seeh, ti scaldi le mani. Brucia i carri armati come niente», garantiva un veterano.

Quando si litigava, però, c’era sempre uno che ignorava la contesa. Un bambino volgeva il capo, il suo sguardo vagava, brancolava fino a impuntarsi su un particolare, come se quella minima parte di mondo esistesse per la prima volta. Così tra le fessure di un tombino, nell’acqua oscura, finalmente notava un movimento, si avvicinava, tratteneva un grido, ci chiamava a raccolta, e tutti si stringevano attorno al varco della fogna.

Emergeva il muso, il pelo della testa bagnato, liscio, compatto, gli occhi senza ciglia, la fronte bassa.

«Sembra una lontra», dicevo.

«Seeh, la lontra di fogna», ridevano.

«Lo so, lo so», ribattevo: «Io lo conosco… Si chiama Ratóc».

Il maestro ci richiamava in aula.

Tornavo da scuola con gli amici, che svelti s’imbucavano nei portoni delle torri grigie e dei lunghi palazzi rossicci ai margini dei giardini pubblici. Proseguivo da solo, ma finché ero piccolo, prima di traversare via della Barca, la strada del rione che portava al fiume, mi venivano incontro i nonni, che mi ospitavano a pranzo ogni giorno dal lunedì al venerdì.

Nel loro tinello, ascoltando il telegiornale, mangiavo pasta al sugo, carne macinata, pane fatto in casa, l’insalata di verdure, la solita mela; poi mi sedevo sul divano a fiori, guardavo i cartoni, leggevo un giornalino, mentre la nonna cuciva accanto alla finestra, e allora presto o tardi un movimento, una parola, un disegno mi distraeva: mi alzavo, sgranchivo le gambe, mi accostavo alla sedia di vimini della nonna, finalmente le chiedevo se poteva riportarmi ai Giardini.

Per noi i giardini pubblici, i prati e gli alberi che custodivano la scuola, erano i Giardini. Dire i Giardini era quasi dire il Mondo… Un pomeriggio di pochi anni dopo sarei uscito di casa per tornare ai Giardini, da solo, come se venissi al mondo una seconda volta. Sull’erba, tra le siepi di quei giardini pubblici, se pensavo a noi, a quelli come me, per strada, ancora piccoli, non c’ero solo io al mondo, non c’ero soltanto io e Ratóc.

Li percorrevo in bici per la stradina pedonale che si snodava tra collinette e prati. Dopo uno spiazzo di ghiaia, la fontana rossa e la pista di pattinaggio, appena fuori dalla palestra e dall’ambulatorio sul retro della scuola, la stradina procedeva dritta lungo una siepe di piracanta, quindi in salita svoltando a destra, poi giù, non importava pedalare, fino alla seconda fontana rossa e all’albero dei rusticani.

Arrampicarsi sul vecchio albero era facile come guardarsi attorno. Così noi salivamo, e si guardava oltre i confini dei Giardini, verso la rotonda e lo Stradone che porta all’autostrada, al di là del fiume. Dall’albero si vedeva la collina di San Luca; e se lo sguardo cercava una fuga sull’orizzonte più lontano, poteva seguire le auto in corsa, i lampioni ricurvi, i filari dell’alta tensione.

Prima che fosse estirpato, il vecchio albero stava a ridosso di un traliccio, non lontano dal recinto in muratura di una centrale elettrica, che insieme allo Stradone, a via della Barca, al campo del Beccaccino, non ancora edificato, segnava dei Giardini i limiti proibiti, invalicabili, sanciti dagli adulti.

Finché ero piccolo, invece, se i miei genitori si attardavano al lavoro, ai Giardini mi accompagnava la nonna. Per arrivare agli stessi alberi si percorrevano vie, marciapiedi diversi, stradine secondarie, scorciatoie. La nonna preferiva confondere le tracce, si sentiva osservata, eludeva i curiosi che dietro le finestre ti prendono le misure nascosti dalle tende.

«La gente chiacchiera», mi spiegava sorridente, come se scherzasse.

Si usciva dal portone sul retro del casamento grigio e bianco – sette piani, quattro  appartamenti a piano, la tromba delle scale, il tetto di amianto – che abitavano i miei nonni; e si pestava ghiaia e catrame sul solaio della lunga galleria sotterranea di garage che servivano l’austera fila di palazzoni gemelli della loro via.

Ai bordi di quel tavolato squallido, interrotto da grate, ringhiere, pozzi di luce, piccole aiuole desolate, c’erano buche per lo scolo dell’acqua piovana. Ed era proprio lì che mi aspettava.

Il muso faceva capolino da uno di quei buchi. Con occhi severi ci guardava. Camminando avevo percepito il bagliore dei suoi occhi nell’ombra della tana, tra pelo e catrame. Così mi fermavo a osservarlo, lo salutavo oscillando lentamente una mano. «Non ti avvicinare», diceva la nonna: «Non si sa mai, potrebbe mordere».

Al parco mi ritrovavo coi compagni di scuola, mentre la nonna lavorava veloce ai ferri, umettandosi le labbra, occhiuta, invisibile come un camaleonte, di vedetta sulla panchina più lontana dai nostri giochi. Poi la nonna, prima che si accendessero i lampioni, mi scortava sotto casa.

Passavano i giorni di scuola, i pomeriggi di luce, sempre più brevi, sempre più lunghi; passavano le serate con i miei genitori. Per il nostro appartamento alla mattina ero libero di vagare solo di domenica. E così, per caso, aprendo di scatto la porta del bagno, lo rivedevo: vedevo Ratóc seduto sul bordo della vasca.

Sembrava che avesse orecchie troppo grandi, quel giorno, sembrava che mi guardasse con occhi malvagi. Non è lui, pensai, non è più lui.

«C’è qualcosa in bagno, mamma».

«Qualcosa-che-cosa?».

«Non lo so, mamma, vieni a vedere tu».

Lei arrivava, ma Ratóc non c’era più. Si dileguava nel profondo delle tubature dove fluivano le acque nere, ma di laggiù risaliva quando indugiavo sul varco aperto fra la nostra e la sua dimora. Lì, su quel varco, mi sedevo ogni mattina, scrutando l’acqua limpida poco più in basso delle cosce, sotto le mani unite a custodire i testicoli, e allora scorgevo un tremito, una bollicina d’aria che risaliva. Così sapevo, avevo la certezza, che lui si annidava oltre l’acqua chiara, al di là dell’ansa di ceramica.

Cap. 2

Era facile arrampicarsi sull’albero dei rusticani. Diramava dal breve fusto come un artiglio. Un ramo primario era monco. Era stato reciso, pensavo, quando mio nonno si era tagliato il pollice della mano sinistra con la roncola.

Se l’era tagliato di proposito, mi disse, mentre faceva legna, con l’illusione di evitare la partenza per il fronte russo. Non trovò subito la misura e la forza giusta. Ritraeva la mano a ogni fendente, all’ultimo momento, con uno scarto minimo. Per quanto tentasse di incrociare la lama e il dito, la mano carnefice e la mano sacrificale obbedivano a volontà diverse. Quando finalmente si ferì la giuntura tra le falangi, e vide il sangue spicciare sulla neve, vibrò con rabbia il colpo decisivo. Le due falangi del pollice caddero a terra e guizzarono via.

Se lo narrava, il nonno era una bestiola moribonda e faceva bestia il dito, imitando la vitalità del fuggitivo, i sibili estremi dell’agonia.

Cap. 3

Emerse una sola volta, spaesato come un naufrago. Vibrava i baffi, si protendeva, col muso chiedeva il permesso di uscire dall’acqua.

Fu proprio in quel momento che mamma dalla soglia del bagno riuscì a vederlo.

Si avvicinò con cautela, la mamma, ammutolita, per afferrarmi un braccio, e lui ci guardava, si guardava attorno, ci guardava ancora. Ormai non dimostrava fretta né paura: «Sono come te, sono come te, sono come te», pareva si lagnasse.

«Posso accarezzarlo?», chiesi.

«Non muoverti», ansimò mia madre, stringendomi più forte il braccio, rigida, e schiudendo appena la finestra.

Lui se ne andò. La mamma tirò l’acqua dello scarico e mi intimò di uscire dal bagno, di rimanere fermo sulla soglia, senza toccare niente. Quindi lucidò il bagno da cima a fondo e mi lavò dalla testa ai piedi.

Il babbo non credeva che Ratóc fosse risalito dalle fogne, ma ben presto fu costretto a ricredersi.

Era una domenica mattina, mancava poco al pranzo, la mamma stava ripulendo le verdure nel lavandino della cucina. L’acqua non scendeva bene, forse un moncherino di carota aveva intasato lo scarico. No, non era questo. In quel buco, sotto le fessure della piletta, era incastrato qualcosa di vivo.

La mamma gridò. Con tutta la voce che aveva, che annaspava e si fermava in gola, urlò il nome di mio padre.

Ratóc spingeva lì sotto, mostruoso, sibilante, gli occhi sbarrati, le fauci aperte per recidere. Non lo vedevo, lo immaginavo, lo sentivo soffiare, saturo di cibo e moribondo. Sentivo nei pori, nelle radici dei capelli, l’orrore della fiera in trappola, che strideva con voce quasi umana, mentre il babbo gli scrosciava in gola un getto d’acqua calda e poi ancora il brodo di carne che bolliva in una pentola.

Niente. Non c’era più niente. Quando il babbo smontò i tubi di scarico del lavandino, non c’era niente.

 

Questo racconto, inclusa una seconda parte, è stato pubblicato originariamente dalla libreria Modo Infoshop di Bologna, dove è ancora in vendita.