di Gioacchino Toni

In un recente volume dello studioso Simon May, Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili (Luiss University Press, 2021), l’universo “Cute” viene indagato allargando il riferimento non solo alle qualità di tenerezza, dolcezza e vulnerabilità che si individuano nelle persone o negli oggetti, ma anche al loro manifestarsi come inquietanti, indeterminate e persino mostruose. Visto che la mania per il Cute, pur vantando un’origine più lontana nel tempo, sembra essersi resa davvero pervasiva soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone, lo studioso si propone di provare a individuare i motivi che ne determinano la diffusione nella contemporaneità.

May intende verificare se l’inarrestabile ascesa del Cute abbia a che fare con bisogni e sensibilità propri del mondo contemporaneo, con il montante culto dell’infanzia, con il desiderio di regressione infantile alla ricerca di sicurezza e semplicità, con l’affievolirsi della distinzione tra età adulta ed infanzia o, ancora, con una sorta di colonizzazione di quest’ultima operata dagli adulti. La tesi di fondo dello studioso

è che gli oggetti cute non sono soltanto distrazioni infantili delle ansie del mondo odierno, in cui competitività e cambiamenti dissennati sradicano da un giorno all’altro gli individui dal proprio posto di lavoro, dalla propria comunità e dalla propria identità. Non sono soltanto fonti di intimità sicura e affidabile in un’epoca che sembra precipitarsi verso un’esplosione di paure, rabbie, recriminazioni e ingiustizie storiche, troppe e troppo grandi da poterle affrontare o riparare tutte insieme. Non sono soltanto avatar di una commercialità priva di anima o modi per rifugiarsi in un’esistenza autoindulgente, vuota, senza impegno. Non sono soltanto modi personalizzare gli oggetti di un mondo impersonale. E non sono necessariamente schermi su cui proiettare stereotipi di innocenza, soprattutto in riferimento alle giovani donne. [Il Cute] è soprattutto un’espressione giocosa della mancanza di chiarezza, dell’incertezza, dell’inquietudine, del flusso continuo o del “divenire” che sono al centro di tutta l’esistenza, vivente e no, nella nostra epoca (pp. 15-16).

Ad affascinare nel Cute parrebbe essere l’idea di effimero e di indeterminato che si rispecchia nell’incapacità di definire con precisione il genere o l’età manifestati da numerosi oggetti carini in linea con l’immaginario di un’epoca che non si riconosce più nelle granitiche dicotomie del passato: maschile/femminile, adulto/bambino, sessuale/non sessuale, effimero/eterno, autentico/non autentico, vero/falso, bene/male ecc. Nonostante, soprattutto in Occidente, prevalga uno spirito di condanna nei confronti del Cute, vale la pena secondo May non accontentarsi dei giudizi perentori quanto superficiali mossi nei sui confronti.

E sebbene possa essere monopolizzato dalla brama di potere, il Cute esprime anche – e ne è forse l’aspetto essenziale – una volontà embrionale di ripudiare l’ordinamento delle relazioni umane basato sul potere o quanto meno nel mettere in discussione i nostri assunti su chi detiene il potere e quale scopo. […] In poche parole: e se il Cute non fosse una frivola distrazione dallo Zeitgeist, ma piuttosto una sua potente espressione? (p. 18).

Da Hello Kitty ad E.T., dai Balloon Dog di Jeff Koons alle opere di Takashi Murakami, dagli emoji ai Pokémon, dalle bambole So Shy Sherri a Bambi, a prima vista il Cute parrebbe l’evocazione di una sorta di “giardino dell’innocenza” che suscita conforto e contentezza in chi osserva.

Sebbene nell’attrazione Cute si potrebbe intravedere una propensione a prendersi cura di tutto ciò che ha sembianze antropomorfe che palesano impotenza e innocenza – su di cui però, è bene ricordare, incombe al contempo il rischio di voler esercitare un rapporto di dominio – secondo May la ricerca delle motivazioni attrattive andrebbero allargate anche agli ambiti più oscuri e minacciosi. Allontanandosi dall’estremità di pura tenerezza del Cute, occorre fare i conti con gli aspetti minacciosi, incerti e alienati che conducono all’aspetto perturbante. La vera essenza del Cute è per lo studioso individuabile nell’indeterminatezza in cui la componente grottesca si interseca con quella affascinante, l’idea di pericolo si smussa in quella della sicurezza, in cui tutto tende a suggerire lievità.

Nonostante il termine compaia già in ambito settecentesco, mentre alcuni studiosi ritengono che il Cute si sviluppi attorno all’adorazione delle merci e la sua apoteosi andrebbe a palesarsi nell’ambito della cultura del consumo di massa, altri pongono invece l’accento su come tale fenomeno sia non a caso parallelo alla venerazione per l’infanzia. Secondo May il Cute contemporaneo rappresenta «una delle modalità per lo più tacite in cui viviamo l’impossibilità della pura innocenza e anche l’insuperabile indeterminatezza della natura umana. Adulto/bambino, consapevole/ingenuo, femminile/maschile, buono/cattivo, comprensibile/incomprensibile» (p. 39) Non a caso gli oggetti cute mancano di identità chiare e definite.

Lo studioso si sofferma sull’evoluzione del personaggio Topolino che, nato con ciniche caratteristiche e morfologie da adulto è stato poi nel tempo trasformato non soltanto in personaggio rispettabile incarnante l’etica anglo-protestante ma anche in un essere sempre più infantile al fine, secondo alcuni studiosi, di «far appello a qualcosa di ancora più profondo della moralità nazionale: l’istinto umano di prendersi cura della prole» (p. 48). Tuttavia, la coincidenza di tali cambiamenti con gli orrori della guerra potrebbe indurre a pensare ad altro.

La cuteness potrebbe sembrare molto distante dall’antiquata anonimità dell’FMI, dell’ONU o dell’UE; tuttavia, al pari di queste istituzioni, il culto del Cute era espressone della speranza dominante dell’epoca: che potesse prevalere tutto quello che di pacifico, unificante, collaborativo e accogliente c’era nella natura umana; che la potenza non fosse ritenuta più necessariamente giusta; che era possibile celebrare gli istinti di protezione reciproca di cura e di altruismo […] Come quelli enormi apparati burocratici, il culto del Cute fu catalizzato in gran parte dalla paura della minaccia sempre presente della violenza nella rivalità tra nazioni e tra individui. E quella paura rivelò l’altra faccia del Cute: la consapevolezza dell’oscurità, dell’apprensione e della vulnerabilità. Oscuro, apprensivo, vulnerabile e tuttavia – fedele all’essenza Cute – provocatorio, flessibile e spensierato (p. 50).

L’esplosione del fenomeno Cute in risposta alla violenza della guerra accomuna tanto i vittoriosi Stati Uniti quanto il Giappone sconfitto. Quest’ultimo, quasi a voler voltare la schiena al suo passato bellicoso, si prodiga nel dopoguerra, in concomitanza con la ricostruzione del Paese, in una sorta di condotta votata all’umiltà affiancando al tentativo di conquistare un ruolo di primo piano in ambito tecnologico nuove tonalità emotive, tra cui spicca il “kawaii”, che, analogamente al Cute, conduce le immagini di vulnerabilità e impotenza che pervadono la cultura femminile giapponese verso direzione sempre più indeterminate, fino ad affiancare alla vulnerabilità e al bisogno di protezione anche aspetti provocatoriamente autosufficienti. Al bisogno di rassicurazione si aggiunge una sorta di spietata volontà di autoconservazione, la malinconica esibizione d’impotenza assume forme caratteristiche ironiche, divertite e leggere.

E così in Giappone il Cute è molto distante da un mero escapismo leggero che si rifugia in immagini “femminilizzate” e nei social network o in comportamenti, gingilli, cartoni animati e codici linguistici infantili o adolescenziali. È un intero mondo, un universo parallelo. E permette al Paese d mostrare agli stranieri – e, cosa più importante, a se stesso – un volto che è allo stesso tempo rassicurante ed eccentrico, trasparente ma sconcertante (p. 53).

A partire dagli anni Sessanta, un poco alla volta, in Giappone il Cute ha finito per divenire un linguaggio dominante nelle pubblicità come nella comunicazione ufficiale, nei manga come nei beni di consumo fin anche nelle immagini che forze armate danno di sé. «Il kawaii non si limita a svuotare il Giappone dalla violenza interna ed esterna. Fa anche il contrario: consente alla violenza di esprimersi in modo privo di solennità e minaccia. Oltre a estirpare l’aggressività, il Cute serve anche a sublimarla» (p. 58).

Se da un lato c’è chi ha denunciato il narcisismo del Cute che si palesa nel suo tendere ad antropomorfizzare il mondo, dunque ad agire in maniera imperialista riportando ogni cosa nella sfera d’influenza umana, negando così ogni forma di alterità, dall’altro c’è chi ha proposto di vedere invece nella propensione antropomorfizzante del Cute un benevolo tentativo di riconoscere e onorare l’alterità, avvicinandola, rendendola parte della propria cerchia morale.

Al di là che gli oggetti cute siano colonizzanti o, al contrario, si rafforzino grazie a chi li percepisce; che si trovino in una posizione di inferiorità o di superiorità; che la loro alterità venga rispettata o violata; che ottengano una voce o siano condannati al silenzio; che siano inclusi o esclusi nella cerchia di attenzione morale; al di là di tutti questi interrogativi c’è la questione se rendiamo giustizia all’assenza del Cute interpretando in modo convenzionale il rapporto tra gli oggetti cute e chi li percepisce in termini di strategie di rafforzamento o di indebolimento […] Il Cute è un modo – forse banalissimo e sperimentale – per esplorare se e come si può uscire dal paradigma del potere […] Il Cute preannuncia un possibile futuro, ovvero il superamento dei un rapporto troppo diffuso che interpreta la vita umana prevalentemente sotto il profilo dell’esercizio e della proiezione della volontà di poter dl soggetto […] E se il Cute fosse un cavallo di Troia in miniatura nella cittadella del potere, nella cittadella intellettuale che per oltre tre secoli ha sempre interpretato anche i rapporti umani più altruisti, compassionevoli e liberatori in termini di potere e volontà di potere? (pp. 97-99).

Questa ultima lettura proposta da May pone inevitabilmente, bel al di là del Cute, non solo la questione dell’esistenza di rapporti non mediati da pratiche di potere ma anche quella di andare fuori e oltre i rapporti di potere che regolano la società contemporanea.


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