di Paolo Lago

Mario Coglitore, Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, prefazione di Barbara Henry, Il Poligrafo, Padova, 2020, pp. 159, euro 24,00.

I viaggi coloniali avvenivano soprattutto a bordo di una nave; come scrive Michel Foucault, «la nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinito del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da case chiuse a case chiuse, si spinge fino alle colonie per cercare ciò che esse nascondono di più prezioso nel loro giardino»1. Lo studioso continua affermando che «la nave è stata per la nostra civiltà, dal XVI secolo fino ai nostri giorni, non solo il più grande strumento di sviluppo economico (non è di questo che voglio occuparmi adesso), ma anche il più grande serbatoio di immaginazione»2. Per Foucault, la nave è uno strumento di sviluppo economico ma anche una vera e propria eterotopia, cioè uno spazio separato da tutti gli altri spazi, saturo di immaginazione e di fantasia liberata.

Certo, non si può negare che grandi «serbatoi di immaginazioni» siano anche le navi che, emblemi dell’imperialismo marittimo vittoriano, si dirigono verso mari orientali e sconosciuti nei romanzi di Joseph Conrad. Però, Conrad riveste le sue navi e i suoi equipaggi di connotazioni quasi ‘infernali’ e ‘malate’, segno di un’avventura coloniale che si dirige verso una lenta decadenza. Ad esempio, la nave de Il compagno segreto (The Secret Sharer, 1909), avvolta da isole sconosciute e scogli affioranti pericolosi per la navigazione, viene definita come un «battello di morti» che si dirige verso «l’ingresso stesso dell’Erebo»3 (l’oscura e misteriosa isola di Koh-Ring, nel Golfo del Siam). Ma già in un romanzo precedente come Il negro del «Narciso» (The Nigger of the «Narcissus», 1897), gli stessi personaggi sono caratterizzati da volti grotteschi e mostruosi mentre la malattia e il disfacimento sembrano dominare visibilmente i loro corpi. Per non parlare, poi, dei funzionari coloniali europei che si recano in Africa dipinti da Céline nel suo Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1933) come «satolli», «stravaccati», «pustolosi», «panciuti», «olivastri»: «Satolli, stravaccati, si rassomigliavano tutti adesso, ufficiali, funzionari, ingegneri e appaltatori d’imposte, pustolosi, panciuti, olivastri, mescolati, pressappoco identici. I cani assomigliano ai lupi quando dormono»4. I viaggiatori coloniali imbarcati sulle navi di Conrad e di Céline, benché esponenti di un mondo ormai alla deriva, continuano a vedere, negli “altri da sé”, siano essi orientali o africani, come scrive Mario Coglitore nel suo interessante saggio Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, «l’emblematica raffigurazione di un selvaggio paragonabile al massimo a una scimmia urlante che salta tra gli alberi».

Del resto, come nota ancora Coglitore, «la conoscenza dell’Oriente che circolava in Europa era funzionale della messa a punto del congegno coloniale; era stata formalizzata in un “discorso” che utilizzava le rappresentazioni culturali di stampo schiettamente occidentale del “Vicino Oriente”, oggi indicato come Medio Oriente, per sostenere la creazione e il funzionamento stessi delle società coloniali». Si tratta, in sostanza, di quell’«orientalismo» del quale Edward W. Said ci ha offerto una lucida analisi. Come ha dimostrato quest’ultimo, lo studio dell’Oriente, realizzato anche per mezzo di testi letterari, ha consolidato modi di pensare che hanno costituito l’ossatura fondamentale del potere coloniale. Un certo «orientalismo» di fondo lo si può riscontrare anche nell’atteggiamento razionalista di Jonathan Harker che, in Dracula (1897) di Bram Stoker, viaggia verso la Transilvania per incontrare l’Altro al grado più alto, il vampiro: si tratta pur sempre di un inglese del periodo vittoriano che, dalla metropoli imperialista si sposta in treno verso le misteriose periferie del continente europeo. Harker, prima di partire, si era recato alla biblioteca del British Museum e aveva raccolto informazioni sugli usi e costumi della Transilvania, i cui abitanti vengono guardati con distacco e superiorità. Non a caso, il giovane e razionale inglese si prenderà gioco delle truci leggende e delle superstizioni di quel popolo, non ascoltando gli ammonimenti degli indigeni. Gli abitanti della Slovacchia e della Transilvania sono poi allontanati in una dimensione fantastica e ‘teatrale’, descritti da Harker come dall’«aspetto assai pittoresco, ma poco rassicurante. Sul palcoscenico potrebbero assai bene rappresentare qualche antica banda orientale di briganti. Sono però, mi si dice, del tutto innocui e mancano di qualunque autorità»5.

Il saggio di Mario Coglitore, da un punto di vista della forma, rifiuta, in modo originale, le tradizionali suddivisioni in «prologo, primo, secondo, terzo capitolo e conclusioni» sostituendo ad esse delle partizioni derivate dalla musica: abbiamo quindi una «Ouverture», tre «movimenti» e un «Finale». Dopo una lucida disamina introduttiva del concetto di «viaggio coloniale» da un punto di vista sociale, letterario, politico ed economico («Ouverture»), l’analisi si focalizza sulla figura di un funzionario coloniale, Roger Casement («Primo movimento (adagio)»), sulla figura di uno scrittore, Emilio Salgari («Secondo movimento (allegro)») e, infine, sull’importanza che la ferrovia (oltre che la nave) ha giocato nel viaggio coloniale («Terzo movimento (presto)»). Funzionario coloniale britannico e esploratore di origine irlandese, Casement partecipò a diversi viaggi in Africa, soprattutto in Congo. Dapprima fedele all’ideologia colonialista, successivamente, deciderà di prendere le parti degli indigeni difendendone i diritti e pagando con la vita questa sua scelta. Verrà infatti condannato all’impiccagione nel 1916 per alto tradimento, dopo aver cercato il sostegno della Germania contro la Gran Bretagna in favore dell’indipendentismo irlandese. Casement è l’autore del Congo Report, «un vivido documento di denuncia delle atrocità commesse dai belgi nei confronti degli indigeni con la complicità di altre nazioni europee: massacri, mutilazioni, criminale sottrazione di risorse per salvaguardare il commercio della gomma e promuoverne l’espansione nel mercato mondiale». Nel saggio di Coglitore non mancano certo puntuali rimandi alla letteratura: in uno di essi lo studioso ricorda che «l’anno precedente al viaggio di Casement, Joseph Conrad aveva pubblicato in volume Heart of Darkness, ambientato nel Congo belga, dove lo scrittore inglese era rimasto per sei mesi nel 1890; destinato a diventare un classico della letteratura, il romanzo di Conrad aveva denunciato i crimini perpetrati ai danni delle popolazioni locali più di un decennio prima. Nel 1904 il Rapporto sul Congo venne reso pubblico». Nonostante Casement si sia battuto senza tregua per difendere i diritti delle popolazioni indigene, «sarebbe rimasto per l’intera esistenza fermamente convinto della superiorità europea», segno che è veramente difficile, per un europeo, liberarsi della sua mentalità di carattere «orientalista».

Di una mentalità di questo tipo sono imbevuti anche i romanzi di Emilio Salgari (affrontati nel «secondo movimento» del volume), nati non da esperienze dirette dell’autore ma forgiati dall’immaginazione «sfogliando atlanti ed enciclopedie». Come osserva Coglitore, «le fonti di cui si serve Salgari sono già di per se stesse vettore di “orientalismo”, appartengono all’universo culturale degli occidentali e possiedono, in una densità linguistica strutturalmente “bianca”, le locuzioni della subalternità degli “altri da sé” che popolano le colonie, mondi totalmente inconoscibili se non a partire dalla necessità della conquista e, nel migliore dei casi, del riscatto che, quasi fosse un dono, viene offerto al non europeo dalle mille sfumature di nero». Le stesse stanze in cui vive Sandokan in Le tigri di Mompracem sono «colme di ogni specie di suppellettili e ornamenti, le “cineserie” per le quali impazzivano gli europei, che lo avvicinano più a un ricco possidente della metropoli che a un reietto». Le opere di Salgari sono il frutto di una fantasia liberata capace di creare un immaginario strettamente legato alla dimensione del viaggio in terre lontane e sconosciute. Se l’Oriente dello scrittore veronese è intriso della visione occidentale, è anche vero che la sua penna è stata capace di creare personaggi che resistono e si ribellano all’ingordigia dell’imperialismo: «Considerato autore di puro intrattenimento e sostanzialmente ignorato dalla critica, Salgari descrisse, forse inconsapevole, il colonialismo nei suoi vari aspetti, modellando figure a tutto tondo di veri e propri rivoluzionari: partigiani e guerriglieri che resistevano all’ingordigia dell’imperialismo (il cosiddetto ciclo de I pirati della Malesia ne è l’esempio più classico)».

Parlando di viaggi verso territori orientali, saturi di immaginazione e di mistero, non si può non ricordare che molti di essi avvenivano per mezzo del treno e della ferrovia. Come sottolinea l’autore del saggio, lo stesso Phileas Fogg, protagonista del Giro del mondo in 80 giorni (1873) di Jules Verne, per attraversare il territorio indiano da Ovest a Est, si sarebbe servito di una linea ferroviaria all’epoca famosa, la Great India Peninsular Railway, costruita tra il 1852 e il 1870. Il «terzo movimento» del volume è dedicato appunto alla «ferrovia nel viaggio coloniale». Gli europei, dopo aver colonizzato e assoggettato i paesi africani o orientali, costruivano la strada ferrata (molto più antica della locomotiva) per agevolare i trasporti e le comunicazioni in territori che, in alcuni casi, si presentavano estremamente vasti. Anche la costruzione della ferrovia rientrava quindi in una ‘europeizzazione’ dei paesi conquistati: essa, infatti, appartiene interamente al paesaggio europeo, sia reale che mentale. Fin dal 1855 le ferrovie erano attive in tutti e cinque i continenti: come, in modo suggestivo, scrive l’autore, «un pianeta in movimento venne intessuto di ragnatele di metallo che inventarono nuove geografie economiche, promossero scambi culturali e politici, favorirono commistioni tra abitudini, costumi, mentalità». La ferrovia e il treno a vapore divengono gli emblemi della modernità e della Rivoluzione Industriale; non si dimentichi, del resto, che il ‘razionalista’ inglese Jonathan Harker, per recarsi dal conte Dracula, viaggia in treno, utilizzando, così, il mezzo moderno per eccellenza. Non è un caso che il vampiro, esponente invece di un’arcaica alterità, per muovere il suo attacco a Londra, cuore economico dell’imperialismo, si imbarchi di nascosto su un mezzo più antico come la nave a vela, molto più lenta delle navi a vapore che pure in quello stesso periodo solcavano i mari.

Discutendo di ferrovia nel viaggio coloniale, l’analisi di Coglitore si concentra principalmente sulla costruzione della linea Congo-Oceano, realizzata fra il 1921 e il 1934, definita come «una delle opere d’ingegneria più letali della storia coloniale». I lavoratori vennero reclutati fra le tribù indigene, costretti a turni di lavoro massacranti e senza le più elementari condizioni igieniche (nei cantieri, la mortalità raggiunse molto probabilmente il tasso del 57 %). In questo genere di imprese, infatti, «si assiste a una reificazione degli indigeni, ridotti a puri e semplici automi, oggetto di brutalità indescrivibili». Essi venivano trattati come esseri viventi di infima categoria e – si potrebbe aggiungere – soggetti a un vero e proprio processo di “zombificazione”.

L’analisi portata avanti da Coglitore in modo lucido e disincantato appare intrisa di un habitus narrativo che tiene avvinghiato il lettore al racconto di viaggi che mettono in contatto culture diverse, le amalgamano, le apparentano, le incrociano, le contaminano. I viaggi “riterritorializzano”, quando il viaggiatore si stabilisce nella nuova terra. E allora, «in quelle comunità turbate da arrivi improvvisi, e indesiderati, ritroviamo spesso i nuclei di transizioni e di mutamenti storici». Ma si tratta pur sempre di viaggi coloniali e le riflessioni conclusive, in fin dei conti, sono amare perché «perfino quando gli eserciti si ritirano il colonialismo resta un destino», «una condizione esistenziale così profondamente imposta da essere ritenuta imprescindibile». Come scrive lo studioso, «l’Occhio dell’Impero sembra immortale». E, si potrebbe aggiungere, sembra continuare a sussistere ancora oggi, nelle stragi di migranti nel Mediterraneo che avvengono sotto gli occhi indifferenti dei paesi ricchi, nelle delocalizzazioni del capitalismo occidentale nei paesi più poveri, nel lavoro che spesso diventa schiavitù, nelle mille prevaricazioni quotidiane nei confronti dell'”altro da sé”. Nessun Sandokan e nessun pirata della Malesia riuscirà a scalfire tale «condizione esistenziale» che sembra non finire; ci riuscirà, forse, un nuovo immaginario libero e liberato che faccia a pezzi queste strutture di pensiero surrettiziamente sopravvissute fino ad oggi.


  1. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano, 2002, p. 32. 

  2. Ibid. 

  3. J. Conrad, I grandi romanzi e i racconti, Newton Compton, Roma, 2013, p. 1615. 

  4. L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte, trad. it. Corbaccio, Milano, 2010, p. 141. 

  5. B. Stoker, Dracula, in B. Stoker, J. S. Le Fanu, J. W. Polidori, Vampiri. Dracula, Carmilla, Il vampiro, Skira, Milano, 2018, p. 11.