di Franco Pezzini

(Il testo che segue – in due parti – è stato presentato nel novembre 2018 dalla Compagnia Marco Gobetti nell’ambito del ciclo Strad-Rama. Lezioni recitate al Teatro Provvidenza di Torino.)

 

Premessa: La notte dei lunghi controlli

3 gennaio. Questa revisione dei conti di White e Wotherspoon si sta rivelando un’impresa titanica. Vi sono venti grossi libri mastri da esaminare e controllare. Ecco cosa capita, quando si è il socio più giovane in una ditta. Comunque, è la prima volta che mi viene affidato un vero e proprio incarico, e debbo dimostrarmi all’altezza. Ma devo portarlo a termine, questo incarico, in modo che gli avvocati possano averne l’esito in tempo utile per il processo. Johnson ha detto stamattina che dovrò controllare tutto entro il venti di mese. Santo cielo! Be’, farò del mio meglio, e se mente umana e sistema nervoso resisteranno allo sforzo, me la caverò.

 

Inizia così Lo specchio d’argento, un racconto di Arthur Conan Doyle che ci accompagnerà per qualche pagina: la storia, lo abbiamo sentito, del socio più giovane di una ditta che sta analizzando con sforzo sovrumano – pochissimo tempo, enorme quantità di dati da controllare – dei libri contabili per smascherare le appropriazioni indebite di un assessore municipale. Per quanto sgomento per l’entità del lavoro (che ormai prosegue giorno e notte), sta seguendo la pista con un certo febbrile entusiasmo da cacciatore. Tre giorni dopo, 6 gennaio, registra dunque quanto sia assurdo che il medico gli prescriva riposo. Forse è stato sciocco andare a parlargli, raccontare che di notte al tavolino si sente nervoso e iperteso: “Non si tratta di un dolore, ma di una specie di confusione in testa, e ogni tanto di un annebbiamento alla vista”. Sperava che il medico gli prescrivesse del bromuro, o della valeriana: ci sono momenti in cui ci si sente strani, con cuore e polmoni sotto stress come in una corsa…

Ma altri tre giorni dopo – 9 gennaio – dal medico deve tornarci. Sta rischiando l’esaurimento nervoso, lo ammonisce quello, o persino qualcosa di peggio. In effetti a spingerlo lì sono stati alcuni sintomi strani, che ora vuole annotarsi via via “perché sono interessanti in se stessi, ‘un curioso studio psico-fisico’, dice il medico”. Il fatto è che nella sua stanza è affisso al muro un antico specchio dalla cornice d’argento, piuttosto grande: gliel’ha regalato un amico, veniva da una vendita all’asta. È “sistemato in modo tale che, quando sto al mio tavolo, non riesco a vedervi altro se non il riflesso dei tendaggi rossi alla finestra”. Ma la sera prima è successo qualcosa: cerchiamo di vedere la scena.

Il disturbo alla vista continua a emergere, il Nostro deve fermarsi: e a un certo punto, sollevando lo sguardo, nota che i tendaggi non si riflettono più. Lo specchio sembra invece come rannuvolato, non in superficie perché continua a rilucere, ma in profondità: poi quella specie di fumo prende a turbinare… Il Nostro si volta allora verso i tendaggi, pensando che il fumo venga di lì, magari un principio d’incendio: e invece nulla. Tutto è immobile se non quello strano vapore che turbina lentamente come nel profondo dello specchio… E che infine sembra

 

concentrarsi e solidificarsi in due punti piuttosto ravvicinati, e mi avvidi, con un brivido di interesse anziché di paura, che quei punti erano due occhi che guardavano nella stanza. Potevo intravvedere anche il vago contorno di una testa… una testa di donna a giudicare dai capelli, ma quella parte restava nell’ombra. Soltanto gli occhi spiccavano, ma quali occhi! Scuri, luminosi, colmi di una fortissima emozione, furia od orrore. Mai ho visto occhi così pieni di vita intensa e fremente. Non erano intenti su di me, ma guardavano fissamente nella stanza. Poi, come mi raddrizzai, passandomi una mano sulla fronte e facendo uno sforzo su me stesso per dominarmi, la vaga figura scomparve nell’oscurità, lo specchio lentamente si schiarì e vidi nuovamente apparire i tendaggi rossi.

 

È certo di non essersi addormentato, e mentre guarda si chiede di quale scherzo dei nervi si tratti. Ma perché quella forma, e chi è “quella donna, quale la terribile emozione che leggo in quei magnifici occhi castani”, il cui ricordo perplesso ora gli impedisce di lavorare? L’indomani dovrà darsi da fare di buona lena…

 

  1. Maghi e oculisti

Quando noi pensiamo ad Arthur Conan Doyle (nato nel 1859, nel profondo dell’età vittoriana e morto nel 1930, dopo aver assistito alla fine di quel mondo, al primo conflitto mondiale e ad altre prime drammatiche fasi del Secolo Breve) è inevitabile abbinarlo all’eroe della sua saga più celebre, l’arcidetective Sherlock Holmes, campione di razionalità. È però ormai piuttosto noto che Doyle, a partire da un certo punto della sua vita, divenga anche un missionario dello spiritualismo – diciamo pure dello spiritismo: una svolta paradossalmente coerente con un certo spirito positivista nel tentativo di rendere dimostrabili scientificamente le cose dello spirito e la realtà di una vita dopo la morte. Su questo fronte Doyle scrive pamphlet e saggistica (emblematico The New Revelation del 1918 sullo spiritismo come nuova rivelazione concessa da Dio), tiene conferenze, partecipa a dibattiti…

Tutto ciò è ben conosciuto, e possiamo non soffermarci troppo. Mentre, in coerenza con lo spirito di questo convegno, mi interessa affrontare una pista forse meno battuta: quello cioè della produzione doyliana sì di fiction – cioè appunto volutamente fittizia, “finta” – ma di tipo sovrannaturalistico. Racconti fantastici che pescano nell’ampio bacino delle sue curiosità sul paranormale, ma che sono anche testimonianze affascinanti di quell’alta marea dell’irrazionale tra Otto e Novecento che è difficile chiudere in etichette troppo strette.

La carriera di narratore di Doyle – cresciuto come cattolico, divenuto agnostico in gioventù e passato poi a un diverso approccio al sovrannaturale – prende le mosse in un’Inghilterra tardovittoriana pullulante di realtà associative mistiche, magiche ed ermetiche. Si pensi alla framassoneria esoterica che trova espressione eminente nella Societas Rosicruciana in Anglia (sorta nel 1865); e poi naturalmente all’Hermetic Order of the Golden Dawn (sorto nel 1888), con il suo incredibile tentativo di sintetizzare in un insegnamento strutturato, a cattedre, l’intero corpus di magia ed esoterismo occidentale. O si pensi, altrettanto naturalmente, alla Theosophical Society di Madame Blavatsky (fondata a New York nel 1875 ma ottimamente rappresentata in Inghilterra) la cui Sezione Esoterica di Anna Kingsford ed Edward Maitland si rende poi autonoma come Hermetic Society (dal 1884) ed è aperta allo spiritualismo. O a tante altre: tra le quali la scuola di quel Theodore William Carte Moriarty, massone di alto grado, fondatore di un Order of Melchizedek e cultore di un bizzarro cristianesimo atlantideo. Moriarty guarda con simpatia la Golden Dawn (cui forse è iniziato), la Società Teosofica e quella Ermetica, mentre – come vedremo – è ostile verso lo spiritismo. Sarà mentore dell’occultista e scrittrice Dion Fortune, che dal 1922 lo trasfigurerà nel personaggio del dottor Taverner, detective dell’occulto e taumaturgo spirituale, protagonista di una serie di racconti: tra fine Otto e primi decenni del Novecento simili figure stanno ormai affiancandosi a grandi numeri ai detective sociali, Holmes e colleghi.

Questa è la situazione del mondo in cui Doyle si muove: conosce gente del giro Golden Dawn, e nel 1898 vagheggia anche di iniziarvisi, ma poi per qualche motivo abbandona l’idea. In compenso, mentre gestisce senza troppa fortuna un ambulatorio a Southsea, un sobborgo di Portsmouth (dal 1882), la sua vita conosce alcune novità fondamentali. Nell’attesa di pazienti non troppo frequenti, anche per integrare ha preso a scrivere con costanza e pubblica novelle su varie riviste: ma a un certo punto tenta il romanzo, e dove vari rifiuti il contratto per A Tangled Skein (“Una matassa ingarbugliata”), poi reintitolato A Study in Scarlet (“Uno studio in rosso”) – la prima avventura di Sherlock Holmes – viene finalmente firmato con la Ward Lock & Co nel novembre 1886. Il testo esce solo un anno dopo, nel novembre 1887 sul Beeton’s Christmas Annual: ma tra quelle due date-chiave, che segnano l’avvio della fama come scrittore e delle gesta dell’eroe della razionalità, è successo dell’altro. Perché nel gennaio 1887 Doyle è stato iniziato alla massoneria (alla Phoenix Lodge n. 257 di Southsea): in seguito se ne allontanerà (1889) per tornarvi (1902) e poi uscire nuovamente (1911), ma l’iniziazione nel fatale ’87 segna nei fatti l’avvio di una serie di avventure a contatto con gruppi dove l’interesse per il misterico è forte. Di più: sempre nel 1887 Doyle ha iniziato a occuparsi di esperienze paranormali, dalle sedute medianiche alla telepatia, dichiarandosi spiritualista. Va detto che solo dal 1916 tali entusiasmi diverranno una fede e una missione: negli anni di cui parliamo è cofondatore della Hampshire Society for Psychical Research (1889), entra nella Society for Psychical Research di Londra (1893), partecipa alle indagini su un caso di poltergeist nel Devon (1894), ma alterna entusiasmi e dubbi. Il disprezzo del citato Moriarty per lo spiritismo, ritenuto una forma inferiore e poco nobile di magia, ha fatto ipotizzare a Massimo Introvigne che Doyle ne attribuisca proprio per questo il cognome al nemico mortale di Holmes, il genio del crimine professor Moriarty; secondo altri la questione avrebbe invece risvolti più personali, un mancato appoggio quando Doyle sognava di entrare nella Golden Dawn. In ogni caso in questa lunga fase fino all’inizio della Grande guerra – che a livello collettivo, tramite angosce ed elaborazione di lutti per quelle legioni di morti, giocherà un ruolo importantissimo, un nuovo step nello sviluppo dello spiritismo – Doyle è un dilettante affascinato dal paranormale, che sta cercando di capire a cosa credere. Ma è interessante notare che con l’apparizione del professor Moriarty – quello fittizio – nel racconto The Adventure of the Final Problem del dicembre 1893 l’autore cerca di sbarazzarsi dell’ingombrante razionalista Holmes; lo farà tornare in scena a grande richiesta nel 1901 con The Hound of the Baskervilles (una storia che gronda sovrannaturale, anche se poi la spiegazione sarà razionale), avventura però presentata come precedente la morte dell’arcidetective; mentre solo con The Adventure of the Empty House del 1903 lo farà effettivamente tornare in vita.

Il racconto che abbiamo iniziato a esaminare, The Silver Mirror (appunto Lo specchio d’argento), è un testo apparso su The Strand Magazine qualche anno più tardi, nell’agosto 1908, quando l’autore è ormai famosissimo; eppure idealmente – quasi affettuosamente – può ben richiamare la fase degli esordi di cui si è parlato. Da un lato si appoggia a un’intera tradizione narrativa del fantastico vittoriano: per esempio, il soggetto che conosce qualche strana esperienza visiva in seguito a un superlavoro notturno a tavolino richiama la situazione del famoso racconto Green Tea di Joseph Sheridan Le Fanu (1869, antologizzato 1872), dove ad aprire l’occhio interiore di uno sventurato reverendo alle prese con una monografia sono appunto gli eccessi di tè verde, allo stesso modo in cui troviamo qui un eccesso di attenzione del narrante sui libri contabili. Così come quello specchio che inquadra tendaggi e li vede sparire al momento del fenomeno strano – come un sipario che si apre – fa pensare all’epifania spettrale entro il riquadro di una finestra di un altro racconto, The Chain of Destiny di Bram Stoker (1875): in entrambi i casi si finisce con l’ammiccare al teatro ottocentesco e ai relativi “effetti speciali”, comodamente gestibili proprio grazie al riparo della cornice. Ma insieme le pagine de Lo specchio d’argento toccano la vita di Doyle: quel disturbo ottico e quegli stessi occhi che sembrano bucare lo specchio rimandano alla sua pratica come oftalmologo, che dal Portsmouth Eye Hospital lo condurrà persino un periodo a Vienna (1891).

Anzi, da un altro punto di vista la storia richiama proprio la sua vita di ambulatorio. Infatti, proseguendo nel testo, ecco il narrante in data 11 gennaio mostrare preoccupazione per la propria salute (“Lo specchio sembra essere una specie di barometro che segna la pressione nel mio cervello. Ogni notte ho notato che si è appannato prima che giungessi alla fine del mio compito”) e continuare così:

 

Il dottor Sinclair (che è, a quanto pare, un po’ uno psicologo) si è talmente interessato al mio racconto, che stasera è venuto a trovarmi per dare un’occhiata allo specchio. Avevo già notato che qualcosa stava scarabocchiato sul retro della cornice, a caratteri antichi. Il medico li ha esaminati con una lente, ma non è riuscito a decifrarli. “Sanc. X. Pal.” è ciò che ne ha ricavato, ma questo non ci è stato di grande aiuto. Mi ha consigliato di mettere lo specchio in un’altra stanza; ma, dopo tutto, qualsiasi cosa io vi veda, lo ha ammesso lui stesso, è soltanto un sintomo. Il pericolo sta nella causa. I venti libri mastri, e non lo specchio d’argento, dovrebbero essere riposti, se solo potessi farlo.

 

Quel medico un po’ psicologo dal classico nome scozzese di Sinclair è in fondo lo stesso Doyle, scozzese di Edimburgo. Oppure – se preferiamo – l’alter ego Watson che cerca di usare i sistemi di Holmes (la lente…) e non ne cava grossi risultati.

(continua)