di Gabriele Gallina

Ogni classe dominante tende a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità e a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide.

(K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca)

Da quando l’arte è stata presa per la cavezza dall’industria culturale e si allinea fra i beni di consumo, la sua serenità è sintetica, falsa, stregata. Nessuna serenità è conciliabile col l’arbitraria imposizione al cliente. […] Lì dove oggi la serenità si mostra è deformata perché comandata, fino all’infausto “eppure” di quella tragicità che si consola sostenendo che la vita è fatta così.

(T. W. Adorno, È serena l’arte?)

Avvertenza.    

Il capitalismo fa dell’uomo un essere insensibile e senza bisogni propri, come fa della sua attività una mera astrazione da ogni attività, e ogni lusso dell’uomo gli appare riprovevole, e gli sembra un lusso tutto ciò che oltrepassa il bisogno più astratto, si tratti di godimento passivo o di manifestazione d’attività pratica o intellettuale. L’economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi a un tempo la scienza della rinuncia, della penuria, del risparmio, e giunge in effetti a risparmiare all’uomo persino il bisogno d’aria pura, di movimento fisico e, peggio che mai, di spirito […] Il suo ideale morale è l’individuo che pensa, innanzi a situazioni i cui esiti disastrosi da ogni parte minacciano di mandarlo in rovina, -queste ultime frutto, con ogni evidenza, degli innumerevoli conflitti e contraddizioni che da cima a fondo solcano la struttura sociale capitalistica-, come unica strada percorribile non già quella che davvero potrebbe metterlo in salvo -un mutamento del modello di sviluppo-, bensì quella che, semmai, è sì la sola strada praticabile, ma per l’incedere stesso del modo capitalistico. La via, cioè, che necessariamente dev’essere imboccata lungo la, di questi, scomposta ma inarrestabile marcia. Ed essa (l’economia politica) ha trovato per questa sua idea favorita persino un’arte servile: si è portato tutto questo in modo sentimentale sulle scene. L’economia è perciò -malgrado il suo aspetto mondano e voluttuario- una scienza realmente morale, la scienza più morale.[1]

Osservazioni preliminari.

Come, nel sogno, gli elementi dall’apparenza neutra o inutile sono spesso anche quelli dotati di maggior significato, così, nella realtà, la critica di elementi triviali in comuni prodotti d’intrattenimento, che solo impropriamente possono esser designati con l’epiteto di “arte”, può forse giungere a ottenere cognizioni degne di nota. La concezione spoliticizzata della cultura, pendant della consolidata separazione di lavoro e tempo libero, è infatti propria dell’ideologia borghese, nella quale la ferrea divisione del pensiero non è che l’eco di quella -non meno rigida- del lavoro.

Così, arbitrarie rimozioni degli oggetti cui rivolgersi, oltre a risultare tanto sciocche quanto altezzose, non fanno bene alla critica. Con questo atteggiarsi essa smarrisce la propria ragion d’essere, finendo, non solo per non spostare di un millimetro quello stesso mondo pietrificato che pure si propone di cambiare, bensì -perpetrandone occultamente la logica-, per farne piuttosto il gioco; al punto da rimuovere, col suddetto oggetto, sé medesima. Quanto più essa rimuove impropriamente il proprio oggetto, tanto più si auto-relega nel posto che quello stesso mondo in cui ciò avviene le ha assegnato, lì, dove ancora viene tollerata.

Piuttosto, essa deve affinarsi attraverso l’esperienza della merce, fare i conti cioè con la mercificazione dell’esperienza. Da qui soltanto diventa, più che possibile, necessario criticare quei prodotti che presentano, sotto le mentite spoglie dell’esperienza, l’esperienza mercificata.

Poiché infatti l’arte, massimamente quella servile, riceve, come ogni altra cosa, tutto il suo materiale e in definitiva tutte le sue forme dalla realtà, segnatamente dalla realtà sociale, trovandosi così irretita nelle sue (della società) inconciliabili contraddizioni, occorre guardare ad essa dialetticamente, riconducendo ciò che è elemento sovrastrutturale al suo rapporto con la struttura, senza perciò scadere in fuorvianti meccanicismi.            Nondimeno, allorché viene rozzamente dissimulato in superficie ciò che invece si agita nel profondo, diventa lecito parlare di Kitsch. Già Adorno spiegava che, sebbene i tentativi di definire il pacchiano siano perlopiù destinati al fallimento, non sarebbe tuttavia il peggiore quello che lo facesse dipendere “dalla capacità di un prodotto artistico, sia pure insistendo sulla contrapposizione alla realtà, di plasmare la coscienza della contraddizione o del suo ingannare in proposito”[2].

È dunque nel dissimulare il mondo obiettivo dei congelati rapporti di proprietà che il prodotto artistico si fa ideologico, nel suo ripetere “agli uomini di stare al passo, di seguire a sopportare”[3].

Se, in linee generali, Poli offre una definizione tuttora valida della cultura come ideologia, almeno “nella misura in cui la sua funzione principale è quella di esprimere una certa fase dei rapporti economici, e quindi di servire alla difesa degli interessi economici della classe dominante in quella fase”[4], va in particolare precisato che, nel caso dell’arte, essa è sì ideologica, ma limitatamente al suo essere in falsa coscienza. Per questo la critica artistica si rivela critica sociale, con cui fa il paio.

Eppure, sussiste una certa difficoltà nel determinare il rapporto tra le idee dominanti e la classe dominante. Al netto di tutto ciò che andrebbe preso in considerazione, dalle articolazioni delle classi alle specificità del ruolo delle diverse istituzioni, dalle lotte per il potere agli interessi che a diversi livelli si ritrovano ad essere convergenti o contrastanti, occorre sottolineare che soprattutto nel campo della cultura, gli operatori (o “ideologi”) sono raramente esponenti attivi di una data classe o gruppo, e ciò determina, in certa misura, un distacco tra le rappresentazioni culturali e gli aspetti concreti di volta in volta criticati o giustificati[5].

In sostanza, occorre rammentare che, se vige una forbice tra rappresentazione e rappresentato, quest’ultima non fa che riflettere la differenza tra struttura e sovrastruttura.          Infatti, quelle contraddizioni strutturali le quali, impossibilitate a manifestarsi pienamente in superficie a causa del permanente intervento dell’apparato repressivo dello stato -e, nello specifico, a causa del mutismo imposto dalla società-, si riverberano come tali (come non conciliate, irrisolte, contraddittorie) sul piano della sovrastruttura; dove, per così dire, esse trovano libero sfogo e talvolta arrivano perfino ad acquisire quei caratteri sovversivi rispetto allo status quo, (caratteri) capaci inoltre di conferire una parvenza di democrazia la quale, sebbene simuli spesso la volontà del contrario, non intacca, tuttavia, minimamente la struttura, né, si sognerebbe di farlo.

La rappresentazione culturale mercificata, oltre che alla menzionata, inderogabile, di valvola di sfiato, riveste inoltre altre due, importanti, funzioni: mentre appare come mezzo di liberazione, negando sì le vecchie ideologie ma non la loro ragion d’essere, non soltanto alimenta i miti che la intessono ma anche ne crea continuamente di nuovi, asservendo ad essi nella misura in cui la miticità si fa pervasiva al punto da diventare miticità stessa del sentire.

Svolgimento.

In questa sede non s’intende svolgere un’analisi di tipo tecnico-qualitativo né, tantomeno, commentare complessivamente gli aspetti contenutistici così come, p. es., le performance attoriali della serie televisiva Diavoli.

Piuttosto, dopo aver fornito alcune indicazioni su elementi, per dir così, “posizionali”, ossia circa il senso della collocazione del prodotto sul mercato, ci si soffermerà sia su precisi aspetti contenutistico-formali che accompagnano lo spettatore al finale della prima stagione, sia sul finale medesimo. Tali componenti, forse financo marginali all’apparenza, anche se in nessuna delle recensioni che si è avuto modo di vagliare vengono messi debitamente in luce, rivestono invece, a nostro avviso, una notevole importanza all’interno della prospettiva critica proposta.

Alla luce di questa breve premessa, ci si limiterà a dare, lungo lo svolgimento della breve trattazione, le informazioni indispensabili che riguardano, da una parte, la produzione della serie, dall’altra, la sua trama.

Posizione.

La fortunata serie Diavoli, trasposizione dell’omonimo libro di Guido Maria Brera, prodotta da Sky Italia e Lux Vide ed andata in onda nella primavera del 2020 sulle frequenze di Sky Atlantic, conta attualmente una stagione, cui prossimamente farà seguito una seconda. Il prodotto, senza dubbio accattivante per diverse ragioni, le quali spaziano dall’ottima realizzazione tecnica al felice intreccio di avvenimenti reali, più o meno recenti, con quelli romanzati della fiction, fino alle notevoli performance degli attori, nondimeno possiede un suo, peculiare, valore “posizionale”.

Nota, infatti, certamente bene Marchetti, quando nella sua interessante recensione scrive che “Diavoli è un prodotto che grazie ad un’evidente ambizione narrativa si spinge verso zone rimaste ancora interdette alla serialità italiana, girando alle volte a vuoto […] ma mostrandosi ai mercati esteri con spavalda sicurezza”[6]. Ciò che tuttavia manca di sottolineare è che proprio mercé questo suo spingersi verso zone dapprima ignote alla serialità italiana essa ha potuto assestare i suoi colpi alla concorrenza interna, piazzandosi in prima serata, ed a quella estera, ottenendo al contempo una distribuzione su scala globale.

            Così, altrettanto a ragione ha scritto Del Grosso, sia allorché paragona la serie ad “una vera e propria guerra che ha visto fronteggiarsi più schieramenti […] per cui la stessa […] successione serrata, scandita dall’efficace montaggio di Nick Hurran prima (1-5) e Jan Maria Michelini poi (ep. 6-10), ha dato forma e sostanza ad una catena di attacchi e contrattacchi che ricorda quelli di un conflitto armato, solo che le trincee si trovano fuori e dentro il campo di battaglia della sede londinese dall’americana New York – London Investment Bank (NYL), con le offensive sferrate non con proiettili, lame affilate o denotazioni, bensì con algoritmi, data points e bond”; sia nel momento in cui intuisce che si tratta di “un prodotto seriale più efficace sulla lunga che sulla breve distanza, con il “mosaico” che ha una sua ragione d’essere e un valore una volta completato”[7]. Ma il conflitto vero e proprio è quello, dinamico, tra gli elementi eterogenei che compongono la multi-posizionale dialettica del capitale in quanto rapporto sociale, nella quale i capitali cinematografici solidarizzano, sotto la pressione della crisi economica, con la fondazione nuova della vecchia vigenza, ovvero col mantenimento degli attuali rapporti di proprietà; così come la reale -questa sì, diabolica- efficacia del prodotto viene effettivamente sprigionata dall’ultimo tassello di un mosaico che, come vedremo, lasciando calare il sipario sul primo atto della narrazione, imprigiona nello stregato incanto del suo significato.

Eticità.

Il capitalismo, lungi dal dover essere pensato come un soggetto autoriferito, può tuttavia esser visto come una tendenza gradualmente depositatasi nelle molteplici modalità operative che, dai più, vengono attualmente poste in essere. Lungo questa notazione, esso può apparire come una prassi generale che agisce indirettamente alle spalle di coloro che, mossi dalle più svariate ragioni, quando non sono del tutto ignari l’uno dell’altro, spesso si ritrovano fortemente tra loro contrapposti, ossia tra loro in concorrenza. Senza perciò scomodare il termine di inconscio e, men che mai, l’epiteto inconscio collettivo, sembra tuttavia paradossalmente vicino al modo in cui le cose si svolgono che, quanto più frammentariamente e diversamente gli individui agiscono, perpetrando questi logiche e passioni affatto simili come quelle dell’accrescimento (logica), cui fa eco la cupidigia (passione), tanto maggiormente, ancorché perlopiù non se ne nutra il sospetto, essi individui -o meglio-, i risultati dei loro sforzi, corrispondono piuttosto a quelle stesse logiche ed a quelle stesse passioni che sin da principio li avevano mossi che a ciò per cui credevano di agire e, dunque, si attendevano da esse.

Almeno, qualora queste passioni e queste logiche vengano considerate sì come sfere generali, astratte, legate all’unica prassi capitalista, ma anche come qualcosa che, di volta in volta, fin troppo concretamente si realizza. Se non d’inconscio collettivo, sarà allora forse lecito parlare di “astuzia del capitale”, intendendo con ciò le modalità che, immanenti al succitato fare ignaro dei più, sempre maggiormente riescono a trovare, tra le infinite vie di dio, la sola che garantisce loro una certa continuità.

Eppure, se è vero che nell’hegeliana lotta tra il servo e il signore quest’ultimo ottiene, almeno in un primo momento, la vittoria perché mostra di non tenere alla vita, e che inoltre egli gode dell’oggetto che il servo -una volta che questi sia stato reso tale- lavora per lui; e che, dunque, quest’ultimo è strettamente legato alle norme etiche che il suo padrone è per così dire libero di imporgli, è altrettanto vero che lo stesso signore, benché l’auspicato rovesciamento dialettico capace di rivelargli tutta la sua inessenzialità -che ha il suo rovescio, cioè la sua verità, nel fatto che dipende interamente dal servo- non si sia pressoché mai verificato nel corso della storia, e benché il signore sembra non avere, ad oggi, mai smesso di vincere, è a sua volta asservito. Non solo, di nuovo, al servo, bensì alla propria, irrinunciabile, eticità. Ossia a quell’insieme di modalità d’essere che, come un filo invisibile, legano sì il servo a lui ma, nondimeno, (legano) lui a questi.

Infatti, nel momento in cui il padrone, per tramite del servo, soddisfa il proprio bisogno dell’oggetto, pure si lega al desiderio dello stesso che solo così può essere appagato. Poiché, giova ricordarlo, il signore è legato alla cosa unicamente quanto al di lei godimento, ma non a ciò che è necessario -il lavoro- per ottenerla.

Se l’eticità diviene così uno strumento dell’asservimento reciproco del servo al signore e di questi a quella, può anche fungere da specchio della, per dir così, capacità di messa in tensione di un dato modo capitalista: della sua sostenibilità. È sempre meno vero, infatti, che il signore, qui con tutta evidenza il capitalista, possa agire liberamente e indisturbato, cioè in modo del tutto spregiudicato; piuttosto, deve anch’egli rispondere alla falsa coscienza che impone rispetto al suo operato: solo in virtù di questa egli è ancora in grado di asservire coloro che ancora non lo sono e, al tempo stesso, di mantenere nell’asservimento coloro che invece già lo sono[8].

Quanto esposto ci riconduce direttamente all’inatteso finale della prima stagione della serie in oggetto. Conclusione che si rivela essere il punto apicale di una precisa strategia narrativa.

A ciò che ha scritto Armelli su Wired, “è interessante vedere come anche l’approfondimento delle storture finanziarie sia ben noto. Con intelligenza ogni episodio riprende alcuni dei fatti più noti della storia economica mondiale dell’ultimo decennio, dalla crisi argentina del 2001 allo scoppio dei subprime 2008, dalle recessioni irlandese e greca agli scandali sessuali di Dominique Strauss-Kahn dell’Fmi passando per Subterranea, un’organizzazione di hacker e whistleblower simile alle molte che abbiamo visto di recente. Ogni fatto […] è una carrellata inquietante che ci ricorda come la finanza sia un meccanismo invisibile che spesso schianta gli interessi delle persone comuni in nome di ambizioni e guadagni sterminati. Un tempismo non certo fausto ora che la pandemia costringerà le economie mondiali alla recessione e interrogherà molti su quali saranno le azioni dei governi e degli operatori finanziari, nel timore che ancora una volta a pagare saranno i soliti impotenti”[9], -vanno aggiunte altre parti del già citato commento di Del Grosso, in particolare che-, “Massimo e l’attivista Sofia (i protagonisti della serie) scoprono che le intenzioni di Duval, il carismatico leader di un’organizzazione internazionale denominata Subterranea, sono più ambigue del previsto […] -e che, alla fine- Tutti o quasi i piani sono andati in fumo, a cominciare da quelli di Morgan, che voleva distruggere l’Euro e affossare l’economia dei cosiddetti PIIGS (tra cui l’Italia), e quelli di Daniel Duval, che invece puntava a togliere il potere alle banche, abbattere il dollaro e spingere per l’introduzione della moneta elettronica. […] -concludendo, si badi bene, con la corretta esposizione della risoluzione della vicenda, nella quale- i due fuochi divampati (i piani di, rispettivamente, Morgan e Duval) […] -sono quindi stati- spenti grazie all’intervento provvidenziale della BCE guidata da Mario Draghi[10].

Questi brani, utili a riassumere la parte che c’interessa dell’aggrovigliata trama della serie, ne riassumono anche lo snodo finale, offrendosi inoltre come base d’appoggio per connetterlo con la presente esposizione: lo spregiudicato volto della finanza lì esibito è infatti davvero inquietante ma, lungi dall’essere un meccanismo invisibile, esso è l’evidente strumento che, unitamente alla sottesa solidarietà già drammaturgicamente indirizzata sin dalle prime puntate verso il tragico suicidio del fratello della co-protagonista Sofia, quanto poi verso i paesi PIIGS[11] che rischiano il collasso socio-economico, nonché -in senso inverso-, unitamente al graduale svelamento-demonizzazione dei due villains[12], viene adoperato al fine di gettare le basi per la presentazione dell’effettivo contenuto etico-sociale della vicenda. Infatti, solo così il provvidenziale intervento della BCE allora guidata da Mario Draghi, potrà poi figurare come “unica” soluzione capace di salvare l’occidente dal collasso[13].

Ma ciò che qui va sottolineato è che quello che lì viene proposto, ben lungi dall’essere un lieto fine, non solo sia -tanto nel mondo fittivo della serie quanto storicamente- con ogni evidenza un compromesso, ma proprio in quanto tale mette tacitamente in conto, nel suo affermarsi, tutta la propria immanente -costitutiva- bestialità.        Parimenti, occorre osservare che il non meno implicito mantenimento dello sporco -normale- corso delle cose, giunga persino, infine, ad essere spettacolarizzato.

In sostanza, quella che -nella serie- viene tortuosamente presentata come la più “umana” o, se si preferisce, la più fattibilmente “etica” delle soluzioni, non è in vero che la sola percorribile affinché la banca centrale, la quale nondimeno oggi vanta un suo prestigioso ex-esponente al governo nel laboratorio Italia, debutti in politica. Tutto ciò attraverso la facile e ormai banale demonizzazione del lato oscuro della finanza; della quale, tuttavia, tanto nel prodotto di fantasia quanto nella realtà, se esse (banche) non cessano di esser la controparte, pure ne condividono i precetti. La differenza tra le due sfere, capital-finanza e banche centrali, risiede semmai nel grado d’intensità, ma non è di tipo sostanziale-qualitativo.

In questo modo, ciò che alla fine di Diavoli veniva anzitempo ciecamente calato nella percezione dello spettatore come una vittoria di compromesso, cioè una mediazione accettabile tra due improponibili estremi (in quanto differenti facce di un solo potere eticamente insostenibile) si rivela esser null’altro che una mediazione apparente, cioè la benpensante vigenza che si racconta a sé stessa lungo lo svolgimento di un finto ancorché progressivo movimento di realizzazione.

Infine riteniamo, in questo lontani da Armelli, che il tempismo dei contenuti della serie sia sì, di per sé, infausto, ma davvero ottimale al senso implicitamente evocato dal finale di stagione, giacché, se la crisi lì rammentata ha coinciso con quella presente, reale, causata dalla pandemia, anche il salvatore ex machina abilmente collocato in quel punto della vicenda corrisponderà tanto più intimamente a colui che da non troppo tempo dopo la fine della serie tiene in mano le redini del governo italiano.

(CONTINUA)

 

[1] L’intero paragrafo è stato ottenuto effettuando un détournement da Marx, il brano fa parte dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, ma il testo che è stato qui utilizzato è quello estratto dai passi antologizzati in K. Marx, F. Engels, Scritti sull’arte, a cura di C. Salinari, Laterza, Bari 1967, p. 194. I corsivi sono nostri, così come nella prima citazione in epigrafe.

[2] Theodor Wiesengrund Adorno, Noten zur Literatur, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1996 (trad. it. A cura di Enrico De Angelis, id., Note per la letteratura 1961-1968, Einaudi, Torino 1975, p. 275.)

[3] Ivi, p. 276.

[4] Francesco Poli, Produzione artistica e mercato, Einaudi, Torino 1975, p. 30.

[5] Nella stesura di questo primo periodo si è tenuto, in particolare, sott’occhio ivi, p. 30-31.

[6] Luca Marchetti, Diavoli: gli orrori dell’alta finanza su Sky Atlantic, https://www.sentieriselvaggi.it/diavoli-gli-orrori-dellalta-finanza-su-sky-atlantic/.

[7] Francesco Del Grosso, Diavoli: recensione del finale di stagione, https://www.cinematographe.it/recensioni-serie/diavoli-recensione-finale-stagione-sky-atlantic/.

[8] Sulla scia di quanto detto, si manifesterebbe con chiarezza che anche le “nuove” frontiere ecologiche, così come quelle correlate alla gestione della pandemia, non fanno altro che aprire un ennesimo fronte di battaglia interno al mondo neoliberista, dove l’eticità fuori di sé infligge sconsideratamente i suoi colpi a chi, tra i concorrenti, non è in grado di affrontare le sue sempre più indiscutibili -poiché etiche- esigenze. Ma lo svolgimento di queste pur urgenti e complesse problematiche non spetta certo a questa trattazione.

[9] Paolo Armelli, Diavoli, una serie sulla finanza che racconta bene ciò che sapevamo già, https://www.wired.it/play/televisione/2020/04/17/diavoli-alessandro-borghi-sky-recensione/.

[10] Francesco Del Grosso, op. cit., il corsivo è nostro.

[11] Tra i quali, si noti, spicca l’Italia.

[12] Morgan, che incarna la spietatezza della finanza, e Duval, il potere anarchico preso soltanto nel suo côté distruttivo.

[13] Con l’ormai celebre “whatever it takes”, formula pronunciata nell’ambito della crisi del debito sovrano europeo si volle indicare, in particolare, che la banca centrale europea si sarebbe impegnata ai fini del salvataggio dell’euro da eventuali, spericolati, processi speculativi.