di Paolo Lago

Jean Baudrillard definisce il corpo come «il più bell’oggetto di consumo»1. Secondo lo studioso francese, «le strutture attuali della produzione/consumo inducono presso il soggetto una duplice pratica, legata a una rappresentazione discontinua (ma profondamente solidale) del proprio corpo; quella del corpo come capitale, quella del corpo come feticcio (o oggetto di consumo)»2Titane (2021), di Julia Ducournau, nelle prime sequenze mostra le immagini del corpo femminile divenuto feticcio e oggetto di consumo. La giovane Alexia si esibisce come ballerina alle fiere di automobili in uno spettacolo in cui mima un accoppiamento erotico con una Cadillac di fronte a un esaltato pubblico maschile in visibilio. Viene mostrata, perciò, l’esibizione del corpo femminile all’interno dell’universo spettacolare della società contemporanea: quello stesso corpo, divenuto oggetto e feticcio, viene associato ad un altro oggetto del desiderio e feticcio, l’automobile, la quale assume, come ha osservato Roland Barthes, delle connotazioni quasi ‘mitologiche’ all’interno della società dei consumi3. Il corpo, nella dimensione spettacolare dell’esibizione mostrata dal film, si allontana sempre di più dalla sua, se così si può dire, essenza umana per trasformarsi in macchina esso stesso.

Ecco perché, per capire un film ‘estremo’ come Titane, bisogna andare al di là di una banale chiave di lettura che prenda in considerazione le estensioni cyborg del corpo secondo l’interpretazione offerta da Donna Haraway. Come osserva la studiosa, infatti, il cyborg è capace di sovvertire l’ordine costituito e farsi simbolo di riscatto per qualsiasi minoranza andando al di là delle convenzioni sociali. Nella concezione di Haraway, il corpo diviene il tramite di una nuova e inedita sovversione di tipo sociale e politico4. Non c’è niente di tutto questo nel corpo di Alexia: a causa di un incidente automobilistico occorsole da bambina, mentre era in auto col padre, le è stata innestata nella testa una placca di titanio. Divenuta adulta, si esibisce come ballerina esponendo il suo corpo come una merce in vetrina. Non c’è niente di sovversivo né in lei né nel suo corpo. Ella, semmai, agisce come in una prigione, la prigione del capitale e dello spettacolo. Le sequenze iniziali mostrano il suo corpo quasi preda di movimenti meccanici, perduto nella coazione a ripetere i gesti spettacolari ed erotici unicamente finalizzati ad una sua ricezione pornografica e ossessiva. L’atto di esibirsi sul cofano di una elegante automobile sembra quasi trasformare in macchina lo stesso corpo di Alexia, divenuto una marionetta nelle grinfie della società dei consumi. Sempre secondo Baudrillard vi è una omologia profonda fra corpo e oggetti perché «la riscoperta del corpo passa innanzi tutto attraverso gli oggetti»5. È attraverso gli oggetti-automobili che gli innumerevoli sguardi maschili puntati su di lei riscoprono il suo corpo. Per questi sguardi, infatti, non c’è alcuna differenza fra una bella automobile o una bella donna che compie una danza erotica vicino a quella stessa automobile. La ragazza si trasforma in macchina, in automa, in androide costretto a muoversi secondo le regole istituite dalla società dello spettacolo.

Non è un caso, infatti, che all’origine di una sua nuova coazione a ripetere, quella di uccidere, ci sia sempre una dinamica spettacolare. La prima vittima è un fan di Alexia, a sua volta imprigionato nell’ossessione di volerla avvicinare e baciare. Dapprima, la ragazza fugge di fronte all’inseguimento del giovane; successivamente, come risposta alle sue insistenze, lo uccide con un fermacapelli d’acciaio. Anche in questo caso, la ragazza agisce come un automa, come un crudele macchinario predisposto dalla società dei consumi. Non c’è quindi alcuna differenza fra le sue esibizioni e le sue uccisioni: entrambe appaiono come predisposte dal sistema spettacolare e capitalistico che hanno trasformato il suo corpo in una insensibile macchina.

L’atto dell’accoppiamento di Alexia con una Cadillac (e il restarne addirittura incinta) che ha fatto tanto discutere, non rappresenta altro che il fantasma irrappresentabile all’interno della società dei consumi. Esso è soltanto l’altra faccia dell’esibizione spettacolare che tanti sguardi maschili osservavano senza alcuna inibizione. Julia Ducournau è andata al di là dell’irrappresentabile mettendo di fronte ai nostri occhi le immagini di questo fantasma. A tale proposito è interessante leggere queste altre osservazioni di Baudrillard:

«Il vero fantasma non è rappresentabile. Se potesse essere rappresentato sarebbe insopportabile. La pubblicità delle lamette Gillette che rappresenta due labbra vellutate di donna incorniciate da una lama di rasoio è guardabile solo perché realmente non esprime il fantasma del tagliatore di vagine a cui fa “allusione”, fantasma insopportabile, e perché si limita ad associare dei segni svuotati della loro sintassi, dei segni isolati, di repertorio, che non suscitano alcuna associazione inconscia (che al contrario elude sistematicamente), ma solamente delle associazioni “culturali”»6.

Le immagini iniziali della danza erotica nel salone di automobili è guardabile soltanto perché non rappresenta un vero accoppiamento connotato anche da risvolti violenti. Se ci facciamo caso, nel momento dell’atto erotico con l’automobile, è come se la ragazza venisse da essa violentata, fin dal richiamo iniziale che avviene in modo oscuro e irruento e che la fa uscire dal suo alloggio richiamandola all’esterno. L’automobile assume valenze indubbiamente ‘maschili’ e i fari luminosi che, nel buio, sono puntati contro Alexia (come il ‘cliente’ di una prostituta che, dalla sua auto, vuole guardare la sua merce), sembrano un’appendice dello sguardo ossessivo lanciatole dai fan nei momenti della sua esibizione.  Durante l’accoppiamento ella è appesa nell’abitacolo dell’auto per i polsi, come se fosse stata legata da qualcuno. L’accoppiamento, ‘mostruoso’ quasi quanto quello di Pasifae con il toro, appare come la rappresentazione della violenza insita nelle dinamiche spettacolari che espongono il suo corpo di fronte agli sguardi pornografici dei fan. È un atto mostrato nella sua crudezza quasi come l’occhio tagliato dal rasoio che vediamo in Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel. E, nello stesso identico modo, verranno mostrati anche gli innumerevoli atti di violenza di cui è disseminato il film. Una violenza iperbolica, iperreale, fumettistica come quella che emerge al suono di Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli: la celebre canzone appare come uno sfondo sonoro appartenente in tutto e per tutto ad una dimensione spettacolare ormai penetrata nel quotidiano degli individui. Perciò suona quasi ‘mostruoso’ commentare omicidi degni di un film di Tarantino (e con la stessa verve iperreale) con una musica di questo tipo: in realtà di mostruoso non c’è proprio niente perché Alexia, ormai, è forgiata dalla macchina-spettacolo e agisce come un automa nella sua coazione a ripetere, uccidendo con la stessa nonchalance con la quale si ascolta un pezzo di musica pop. Del resto, già Bong Joon-Ho aveva predisposto come sfondo sonoro della scena di violenza iperbolica e spettacolare che caratterizza il suo Parasite (2019) In ginocchio da te di Gianni Morandi. Anche qui, un apparente contrasto. Solo apparente, in quanto la canzone e la violenza emergono dalla stessa dimensione spettacolare penetrata nelle vite degli individui.

La ‘macchinizzazione’ del corpo continua anche nella seconda parte del film, in cui vediamo Alexia trasformarsi in Adrien, il figlio perduto del pompiere Vincent. La trasformazione in maschio, lungi dal rappresentare una libertà di tipo transgender, è un ulteriore ingabbiamento nella meccanica società dei consumi, una ulteriore violenza quasi irrappresentabile inflitta ad un corpo. Anche le ferite che costellano adesso il corpo di Alexia non sono altro che una conseguenza del suo imprigionamento nella dimensione spettacolare della società. Se nelle sequenze iniziali esso era lucente e sfavillante come le automobili esposte nei saloni, adesso è segnato da ferite e cosparso di escrescenze meccaniche, deformato e imbrattato dall’olio di quegli stessi motori delle auto alle quali veniva equiparato dagli sguardi ossessivi dei fan. La società dei consumi inchioda i corpi nella degradazione e nella solitudine. Come Alexia, anche Vincent è preda della propria solitudine e infligge ferite al suo corpo piagato, inserito nella macina della ripetitività quotidiana. E si potrebbe anche aggiungere che un film come questo risulta di una sconvolgente attualità, se pensiamo che viviamo in un’epoca in cui il corpo degli individui viene continuamente ‘espropriato’ dalle più diverse sfaccettature della dimensione spettacolare e economica del capitale, che governano i momenti del lavoro e del ‘tempo libero’.

La riduzione del corpo a automa dello spettacolo era stata già rappresentata egregiamente da un film significativo come Blade Runner (1982) di Ridley Scott. I «replicanti» sono le macchine create da una potente corporation del futuro per svolgere lavori e occupazioni che gli esseri umani, nelle «colonie extramondo», non potrebbero sopportare: sono la rappresentazione simbolica della meccanizzazione dell’esistenza degli individui. Le persone che solcano le strade oscure e piovose della Los Angeles del futuro affrescata nel film appaiono come esseri meccanizzati che si muovono in modo anonimo e automatico, mentre riecheggiano le parole robotiche ed ossessive dei sistemi di attraversamento pedonale. Non è un caso che fra i replicanti tornati sulla Terra per chiedere un prolungamento della loro vita ci sia Zhora, una ragazza che si esibisce in un night club esponendo, come Alexia, il proprio corpo agli sguardi ‘robotizzati’ di una massa informe di individui. Se la protagonista di Titane viene progressivamente trasformata in vero e proprio essere meccanico dalla sua esposizione spettacolare, Zhora è già un replicante, creato ad arte da una lobby che detiene un enorme potere economico e politico, la Tyrel Corporation. Anche Zhora e gli altri replicanti, come Alexia, sono preda di una coazione ad uccidere, a eliminare gli esseri umani che si pongono sulle loro tracce, siano essi i membri della squadra speciale Blade Runner, come l’agente Deckard, o il bio-ingegnere J.F. Sebastian oppure lo stesso Tyrel.

Una donna che espone il proprio corpo in uno spettacolo erotico si trasforma in una sorta di robot e la sua personalità viene quasi annullata: non può essere, perciò, che una replicante, un androide forgiato da una multinazionale che rappresenta uno dei punti di forza della «società dello spettacolo» spersonalizzante che governa il mondo. Inseguita da Deckard e successivamente colpita a morte, Zhora, rivestita di una plastica trasparente, va a terminare la sue folle corsa nella vetrina espositiva di un negozio, estremo infimo lembo del capitalismo terrestre che crea gli stessi replicanti. Come è stato notato, «tutta la scena della caccia alla replicante Zora è un trionfo di materiali trasparenti, dai vestiti in plastica della donna alla serie di vetrine che lei infrange nella sua caduta, in un bellissimo ralenti»7. I «materiali trasparenti» e la morte in vetrina della donna meccanica sono forse fra gli ultimi atti di una «società della trasparenza», per utilizzare un’espressione di Byung-Chul Han8, di una spettacolare ‘vetrinizzazione’ dell’individuo cui assistiamo nella contemporaneità. Se al giorno d’oggi gli esseri umani si mettono in vetrina sui social consegnandosi all’universo digitale, nel futuro descritto da Blade Runner vengono sostituiti con delle macchine identiche ad essi in tutto e per tutto.

Lo spettacolo, la «trasparenza» espansa e divenuta un tutt’uno con l’esistenza trasformano gli individui in esseri meccanici. Se Zhora, ormai condannata alla solitudine, termina la sua esistenza di replicante nella vetrina di un negozio, in una dimensione di trasparenza portata agli estremi, Alexia vedrà il suo corpo progressivamente deturpato, ferito, ridotto a escrescenza meccanica e sporca. Anch’ella si perderà nei gorghi di una lancinante solitudine, condannata al silenzio insieme al pompiere Vincent. Lungi dall’assumere connotazioni sovversive e liberatorie, il suo percorso di ribellione sorto dalla dimensione spettacolare dei saloni di automobili imprigionerà sempre di più il suo corpo e la sua esistenza fino – fuor di metafora – a una meccanizzazione totale.


  1. J. Baudrillard, La società dei consumi, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2010, p. 149. La frase funge da titolo del capitolo secondo della terza parte. 

  2. Ivi, p. 150. 

  3. Cfr. R. Barthes, Mythologies,  Paris, Seuil, 1957, pp. 140-142 in relazione alla nuova, a quel tempo, Citroën DS. 

  4. Cfr. D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1995. 

  5. J. Baudrillard, La società dei consumi, cit., p. 156. 

  6. Ivi, p. 174. 

  7. A. Caronia, Il corpo replicato, in V. Codeluppi (a cura di), Blade Runner reloaded, FrancoAngeli, Milano, 2017, p. 73. 

  8. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. Nottetempo, Milano, 2012.