di Franco Pezzini

Teatro e retroscena

(Qui la puntata precedente).

Torniamo a Chawton, dove a poca distanza – una passeggiatina – dal cottage di Jane Austen sorge la ben più sontuosa Chawton House ereditata da suo fratello Edward Austen assieme a un secondo cognome, Knight. La biblioteca della villa ospita ora The Centre for the Study of Early Women’s Writing, 1600-1830: e in grazia della duplice connessione con l’autrice di Northanger Abbey (di frequente ospite qui) e con il numero rimarchevole di voci femminili nel primo gotico del Centre è qui che si è tenuta, nel 2018 dell’anniversario del Frankenstein, la bella mostra The Art of Freezing the Blood: Northanger Abbey, Frankenstein, & the Female Gothic. Trovandosi in zona, impossibile non andarci, e godere del percorso tra le stanze foderate di legno e di dipinti, di tabelloni informativi (molto curati) e di vetrine con edizioni d’epoca dei primi gotici – alcuni praticamente dimenticati, ma i cui titoli bastano a far pregustare delizie. I frontespizi, poi, e le incisioni a corredo erano una gioia per gli occhi.

Ovvio pensare a tutto questo nell’esaminare l’ultima sezione del volume Viaggi al termine del desiderio (Mimesis, 2017) che siamo andati a esplorare: titolata “Mises en scène de l’horreur, un percorso per immagini”, e nuovamente curata da Francesca Pagani, rappresenta forse la parte più ghiotta e originale del libro, con la magnifica selezione (pp. 68-205) di illustrazioni da opere gotiche. E con una premessa non così scontata per il grande pubblico:

 

Il portato della tradizione figurativa era indubbiamente ricchissimo di immagini terrificanti, che si trattasse dei Trionfi della morte medioevali o barocchi, delle raffigurazioni della Strage degli innocenti o ancora degli effetti della peste, ma non è di questa eredità che l’universo del «roman noir» risulta essere tributario. Questo genere, infatti, elabora una propria poetica che prende corpo nelle illustrazioni create per impreziosirne i volumi e si declina mettendo in scena paesaggi fortemente caratterizzati e condizionati dalle emozioni che sono chiamati a trasmettere personaggi dalla gestualità teatrale, in grado di definire un codice peculiare.

 

Inevitabile pensare al legato teatrale del gotico, coltivato non solo da amatori delle scene (a partire da Walpole, ma potremmo dire fino a Poe figlio di attori e all’impresario Stoker) e frutto in fondo di una linea che attraverso lo Shakespeare più nero – gioia degli illustratori – corre giù almeno da Seneca; ma anche a un certo tipo di linguaggio a forti tinte drammatiche e a un rapporto con la scena spesso ben avvertibile nella struttura delle vicende.

Come sintetizza Maurice Lévy, autore tra l’altro di un utilissimo Images du roman noir (1973), i soggetti di tale filone iconografico

 

Illustrano le scene più patetiche, i momenti culminanti di violenza o tenerezza, le manifestazioni più spettacolari dell’Aldilà. Gli scheletri sono intere legioni, i fantasmi non si contano più, il Diavolo stesso ha posato per l’artista. Lo scenario, essenziale, è fatto di archi in rovina, fortezze medievali, sotterranei dalle pareti ruvide, montagne inaccessibili.

 

E Pagani chiarisce che

 

abbiamo ritenuto opportuno limitarci, da un lato, a quelle che sono più propriamente relative a scene orrorifiche, al fine di documentare il carattere specifico di questo nuovo sentire, dall’altro, abbiamo ampliato l’orizzonte inserendovi alcune illustrazioni in grado di attestare gli effetti della contaminazione che il nuovo clima culturale produce nella sensibilità dell’epoca. Purtroppo le edizioni dei tre romanzi presi in esame [in Viaggi al termine del desiderio], Vathek, Le manuscrit trouvé à Saragosse e Pauliska ou la perversité moderne non presentano quasi mai illustrazioni di sorta e quando raramente avviene, queste immagini risultano talvolta assai poco vincolate rispetto al testo cui avrebbero dovuto essere funzionali – ad indicare la peculiarità che presiedeva alla realizzazione delle stesse.

 

A questo punto Pagani fornisce la sua meravigliosa raccolta di tavole tratte da romanzi gotici: partendo proprio dai tre trattati nel volume – sui quali in effetti emerge poco materiale iconografico coevo – e spaziando poi a tutto campo sul resto.

Dove possiamo individuare un paio di tipologie fondamentali, rilevanti perché influenzano l’immaginario di grandi numeri di lettori: prevalentemente si tratta qui di tavole da edizioni francesi, ma il fenomeno è ben rappresentato in Inghilterra e anche altrove (Germania, per esempio).

Una prima serie – anche se non emerge per prima nell’ordine delle tavole raccolte – rimanda idealmente alle parole di Maurice Lévy sul gioco allegro di scheletri, fantasmi e diavoli in questo tipo di illustrazioni: emblematica la scena di Lucifero (testa anguicrinita, biffa patibolare, grandi ali pipistrellesche e il patto fatale stretto tra gli artigli della mano sinistra) che solleva in volo per i capelli – materialmente ritti, non solo per la paura – il peccatore Ambrosio preparandosi a lasciarlo sfracellare. L’illustrazione, dall’edizione Le Moine, Maradan, Paris 1797, è relativamente nota: molto meno lo sono quelle di sinistre apparizioni da Le Château d’Albert ou le Squelette ambulant, Ancelle, Paris 1799 (scheletro semovente), Rose d’Altenberg ou le spectre dans les ruines, Pigoreau, Paris 1830 (spettro dagli occhi malinconici) Rosine ou le pas dangereux, Louis, Paris 1798-1799 (figura paludata con bacchetta) Le Château de Gallice, Tavernier, Paris 1798 (dama velata con torcia), Le Spectre de la galerie du château d’Estalens, ou le sauveur mystérieux, Corbet, Paris 1820 (figura larvale dall’aria tristanzuola), Coelina, ou l’Enfant du Mystère, Le Prieur, Paris 1798-1799 (misteriosa apparizione con due torce in mano), L’Hermite de la tombe mystérieuse, ou le fantôme du vieux château, Ménard et Desenne, Paris 1816 (scheletro animato, gigante in armatura…) o Le Monastère des Frères noires ou l’étandard de la mort, Pollet, Paris 1824 (scheletri incappucciati) e altre. Con alcune costanti iconografiche, come il paludamento del fantasma, vero o falso che sia (antenato del lenzuolo fantasma su cui ricamerà Montague Rhodes James in un suo racconto fulminante, e dell’archetipico fantasma col lenzuolo – in realtà un sudario – assunto dalla vulgata fino alle declinazioni più comiche e carnevalesche) che però in origine mostra spesso il volto, debitamente emaciato; o le comparsate di scheletri come quelli impazzanti sul frontespizio di Tales of terror, Bulmer and J. Bell, London 1801, o quello fintamente spettrale di Forester, ou la manie de l’indépendance, A. Bertand, Paris 1821. Altre volte il riferimento è a qualcosa di macabro ma non sovrannaturale, come scoperte di scheletri (es. La Caverne de la mort, Maradan, Paris 1799; Dusseldorf ou le fratricide, Marquand, Paris 1798; The Skeleton, or, Mysterious Discovery. A Gothic Romance, A. Neil, London 1805) o di cadaveri, o il conturbante teatro anatomico dove uno scheletro pende sopra il corpo nudo di una ragazza in Ladouski et Floriska, Dentu, Paris 1801. Questo macrofilone, con tutte le sue variabili, si può ricondurre in linea diretta all’immaginario delle fantasmagorie, le lanterne magiche di straordinario successo tra Sette e Ottocento, e che proprio attraverso giochi di luce e proiezioni di soggetti macabri antesignani dell’orrore filmico non solo permettevano la messa in scena del fantasma ma ne dettavano in qualche modo i connotati immaginali (cfr. Mariano Tomatis, Mesmer. Lezioni di mentalismo. Vol. 2: La zona del Crepuscolo, 1784-1819). La suggestione della fantasmagoria (da φάντασμα, “fantasma”, anche in senso di “immagine”, “illusione” e ἀγορεύειν, “parlare”, “evocare”) impatta del resto in modo diretto sulla letteratura, da vere e proprie lanterne magiche narrative del primo gotico come – appunto – Fantasmagoriana e affini (Spectriana, Démoniana, Infernaliana eccetera) a riferimenti in testi gotici anche molto successivi, come in Carmilla di Le Fanu.

Un secondo filone rivela un sapore parecchio diverso: astrae da immagini macabre, e guarda piuttosto al drammatico e al patetico delle eroine alle prese con gli horrid mysteries. La tensione teatrale è fortissima, non solo nelle posture esagerate drammaticamente, ma nel tipo di set (edifici intatti o in rovina, grotte, boschi) dal sembiante di fondale scenico, e persino nel gioco allusivo che costituisce un ideale retroscena di soggetti più o meno misteriosi.

Anche qui si possono individuare alcuni sottofiloni. Troviamo ragazze in ambasce che sfuggono allarmanti edifici sacri (L’Abbaye de Netley, Ledoux, Paris 1801); che sono tratte in braccio dai loro salvatori (Phédora, ou la fôret de Minski, Denné, Paris 1798; L’Église de Saint-Siffrid, Maradan, Paris 1799-1800; Célestine ou les Époux sans l’être, Lemarchand, Paris 1800; Adeline et Solignac, ou les Amants du Prieuré, Cottin, Paris 1802; eccetera) o vengono salvate dalle acque (Ethelinde, ou la recluse du lac, Maradan, Paris 1799) o comunque corrono rischi più o meno fatali; ragazze turbate di fronte a fatti drammatici (Agnès de Courci, Buisson, Paris 1799) o che ricevono misteriosi messaggi (La Visite nocturne, Gueffier jeune, Paris 1801); coppie di ragazze dall’aria preoccupata in duetti patetici (Les Enfants de l’Abbaye, Maradan, Paris 1798). Un altro sottofilone è quello sul tema del viaggio, spesso in carrozza, tra vari tipi di pericoli e disavventure (Les Mystères d’Udolphe, Maradan, Paris 1798; Le Château de Saint-Donats, Billaut jeune, Paris 1800; La Fôret, ou l’Abbaye de Saint-Clair, Denné, Paris 1794), naturalmente ai danni di qualche donzella. Una caratteristica comune a queste tavole sta nel loro trasparente clima emotivo, mentre la natura dei fatti non è necessariamente di immediata comprensione neppure ove si sia letto il romanzo alla base (ipotesi peraltro non rara, gran parte dei testi citati sono gotici del tutto minori). Il fatto è che non sempre le tavole colgono i momenti cui lo scrittore attribuisce maggiore enfasi, e si piegano talora a censure per noi poco comprensibili: per dire, una gamba nuda può essere omessa dall’illustratore perché considerata più trasgressiva di un seno nudo, invece “presente con grande frequenza […] anche quando il particolare non è specificato, pertinente o richiesto dall’evento rappresentato”. Simili immagini, nel Novecento, faranno la gioia di Breton e di quanti conciliano l’amore per il surreale, l’onirico, lo straniato con quello per i libri vintage.

Ma l’autocensura non è solo “strana” dal punto di vista del nostro mutato linguaggio simbolico. Quel che sembra trattenuto come sotto la superficie delle tavole è una quantità di materiale provocatorio, che già i romanzi esprimono in forma di allusione ed ellissi: e l’illustrazione assume a questo punto la dimensione di un linguaggio omologo, l’ellissi dell’ellissi. “I remember finishing it in two days – my hair standing on end the whole time”, scrive Henry Tilney a proposito della lettura di Ann Radcliffe: dove però – come sa chiunque ne abbia accostato i romanzi – tutto ciò che può spaventare eroina e lettori resta prospettato appunto allusivamente, in chiave di raggelante ipotesi e magari di fraintendimenti di eventi e suoni (Jane Austen riprenderà tutto ciò in chiave satirica). In sostanza, lo spazio dell’allusione è giocato con estrema consapevolezza da Radcliffe e da colleghi anche molto minori, e può influenzare gli stessi illustratori. Se poi aggiungiamo che spesso si tratta di autrici, dunque soggette per motivi di decoro a una serie di pastoie sociali, comprendiamo come il tenore teatralmente candido delle tavole trattenga intere piramidi di livelli di indicibilità.

Nell’era attuale del vedotutto abbiamo dimenticato la forza allusiva – per esempio – di certi vecchi film gotici eredi in fondo di questa tradizione illustrativa, varati da virtuosi dell’allusione per evitare le maglie della censura. Si pensi ai primi film gotici della Hammer, per esempio a La maschera di Frankenstein (1957); e per esempio alla scena in cui Victor, con assoluta disinvoltura, impugna un bisturi e taglia via la testa inservibile del cadavere che va utilizzando. Il socio Paul lo guarda con orrore mentre si affaccenda con la lama e la sequenza macabra non viene mostrata, ma è intuibile, e anzi suggerita da particolari disturbanti – come il fatto che ora Victor si pulisca la mano (in ipotesi) sporca di sangue sul risvolto della giacca, prima di avvolgere la testa in un telo. Va quindi a scioglierla in una vasca di acido nell’altra stanza; poi ripiega con cura il panno (evidentemente insanguinato) in cui aveva avvolto il capo mozzo e, tornato da Paul, gli chiede di aiutarlo a svestire il cadavere. Scene come questa non potevano che lasciare di stucco i critici del ’57. Ma l’insieme dei dettagli e il loro potere di evocazione indiretta (ben poco si vede, con un’allusività coerente all’indicibilità dell’horror vittoriano) rendono il film provocatoriamente forte ancora a una visione odierna. L’omissione, l’ellissi permettono di far emergere per allusione il dettaglio disturbante assai più che il mostrarlo sguaiatamente.

In questo caso si tratta di orrore puro nel segno del macabro, ma spesso le implicazioni possono condurre verso un diverso terreno di velami, quello all’eros e anzi al mysterium indicibile del gotico, cioè il rapporto tra orrore ed erotismo. Ben rappresentato fin dai primi gotici, in forme ora velate, suggestive e allusive (per esempio nei romanzi radcliffiani) ora più o meno esplicite o urlate, fino al caso paradigmatico di Sade. Che una poetica dell’allusione disturbante finisse col passare dai testi alle illustrazioni era inevitabile: forse non era questa l’intenzione specifica di artisti e incisori, ma faremmo loro un torto se li ritenessimo incapaci di notare la potenza di tale artificio. Nelle tavole in esame, dunque, in gran parte edite in una Francia che ha visto oggettivamente consumarsi (pro o contro la rivoluzione) tanta violenza, a fermentare sotto la superficie di immagini incensurabili sono non solo batticuori, ma pulsioni di vario genere, estasi proibite (si pensi all’attrazione delle eroine radcliffiane per i loro persecutori), derive allucinatorie e incubi. In fondo il gotico è, per molta parte, affabulazione, compresa l’allusione a ciò che non può essere detto… e non solo per l’urgenza di non spoilerare (i casi in cui un’illustrazione potrebbe avere quell’effetto non sono troppo frequenti). Il gotico è tutto basato sul nascondimento e l’occulto, su verità taciute e identità alterate, travisate, simulate, dimenticate o velate, perturbanti: e dai fatti ciò traghetta al modo di narrarli, alle parole, ai desideri. Gotico è un certo modo di desiderare e nascondere, di evocare teatralmente il desiderio, svelarlo e velarlo come in retroscena; e in fondo c’è un fascino specifico di ciò che resta trattenuto, alluso, suggerito indirettamente. Lo conosciamo, può accompagnarci nella nostra vita, può temperare le nostre malinconie per ciò che non può essere, non è o non è più.

Tali caratteristiche sono intessute nei grandi romanzi gotici, e neppure il rasoio della psicanalisi ha potuto sviscerare in toto la potenza allusiva del mistero e del mito in essi sedimentati. Con buona pace di certi esoteristi da basso profilo, un simbolo non si esaurisce mai in una mera, netta equivalenza, come nelle operazioni matematiche delle scuole elementari: conduce in una direzione, ma esige ben altra operazione di avvicinamento. Il gotico poi, impastato con l’onirico, accede a linguaggi collettivi ma anche ad altri personalissimi, peculiarmente nostri. Che l’illustrazione possa suggerire – come in queste tavole – il fascino del non detto, del trattenuto, a volte dell’indicibile, è una delle provocazioni di un momento storico che partoriva la modernità, e di un filone culturale che ha ancora parecchio da dirci. In termini di cultura ad ampio raggio come – mi pare – in rapporto al linguaggio profondo della nostra vita.

Alberto Castoldi, Franca Franchi e Francesca Pagani (a cura di), Viaggi al termine del desiderio. Beckford, Potocki, Révéroni Saint-Cyr, pp. 220, € 20,00, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2017.