di Francisco Soriano

Era il lontano 2009 quando erano state ormai represse tutte le contestazioni per i brogli elettorali perpetrati dai sodali di Mahmud Ahmadinejad, dopo un periodo di instabilità politica e sociale che originava dalla speranza di una strutturale riforma, in senso democratico, delle istituzioni di potere in Iran. L’Onda verde (“Moj Sabz”) era un movimento di contestazione nato soprattutto per protestare contro i presunti brogli elettorali che estromettevano il candidato riformista Mir Hosein Mousavi dalla scena politica. Famoso il motto urlato nelle manifestazioni “not my president”, riferito proprio all’elezione di Ahmadinejad) fu soffocata nel sangue, con persecuzioni, sparizioni, torture e incarcerazioni sommarie, omicidi mirati e una lunga e sistematica storia di annichilimento di ogni velleità democratica soprattutto fra studenti, intellettuali e società civile. Allora mi trovavo spesso nelle strade e nelle piazze presidiate dalle milizie paramilitari dei baseji, disposte a tutto, dalle bastonature agli assassinii, a Teheran e nei maggiori centri dell’Iran. Una storia drammatica ancora lasciata in un limbo incomprensibile: si spera che questo periodo storico possa trovare una giusta analisi e collocazione negli scenari della politica interna iraniana dalla rivoluzione del 1979.

Sembra aver dimenticato il suo recente quanto opaco passato, l’ex presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, oggi il grande escluso dal Consiglio dei Guardiani dalla competizione elettorale, soprattutto se si considerano le sue ultime dichiarazioni alla stampa: “Ho chiesto che mi spiegassero il motivo (dell’esclusione), ma non mi hanno risposto. […] Non andrò a votare. Mi sono esposto perché me l’hanno chiesto milioni di cittadini, ma ho chiarito che, in caso di squalifica, non avrei partecipato. Se qualcuno ha voglia di votare, faccia pure. Io no”. Sul nucleare espone anche la sua tesi, essendo questo argomento il fulcro del dibattito politico in campagna elettorale per le diverse dinamiche che potrebbero innescarsi: “Ci sono stati negoziati per anni, è stata firmata un’intesa e, dopo poco, è diventata carta straccia. Perché? Perché non era un accordo giusto. Dobbiamo aspettare un cambiamento nel comportamento americano”.

Per capire come gli illusionisti della Repubblica islamica gestiscono le dinamiche del potere, bisognerà comprendere il sistema costituzionale iraniano, ibrido e “duale”, che prevede la compresenza di organi elettivi e non elettivi e altri numerosi centri di comando più o meno formali che rendono “paradossalmente” monolitico il regime teocratico della Guida suprema. Il potere degli ayatollah è fortemente autoritario e verticistico: le forme di governo concepite dopo la rivoluzione del 1979 e tradotte nella carta costituzionale frutto di un referendum popolare rappresentano un guscio vuoto soprattutto alla luce del “velayat-faghi”, che consiste nel potere da parte della Guida suprema (oggi Alì Khamenei) di rendere inutili, impraticabili e cancellabili tutti i provvedimenti di qualsiasi origine e grado che vengano ritenuti disarmonici rispetto all’etica islamico-sciita su cui si fonda la moderna teocrazia dell’Iran. Un diritto di veto assoluto e incontestabile con il quale si sopprime ogni afflato di libertà e idea di democrazia in qualsivoglia provvedimento legislativo.

È la stessa Costituzione che assegna alla Guida suprema, eletta a vita, il potere di indirizzo di tutti gli organi dello stato: è comandante supremo delle forze armate, ha il controllo degli apparati di sicurezza fra cui i pasdaran, guida i servizi segreti e paramilitari, è il capo delle fondazioni religiose, nomina il capo di stato maggiore, il vertice del potere giudiziario, delle emittenti radiofoniche e televisive di tutta la nazione. Inoltre è particolarmente importante ricordare che la Guida nomina 6 dei 12 elementi del potente Consiglio dei Guardiani della Costituzione. Gli altri 6 membri del Consiglio (ha una funzione simile a quella di una Corte costituzionale) sono eletti dall’organo di controllo della magistratura e ratificati dal parlamento. Il padre della Repubblica e della rivoluzione islamica sciita, Ruhollah Mostafavi Mosavi Khomeini, così affermava: “il governo dell’Islam è un obbligo primario che ha la precedenza sugli obblighi secondari come la preghiera, il digiuno e il pellegrinaggio. Per preservare l’Islam, il governo può sospendere uno o tutti gli obblighi secondari”. Una dichiarazione che lascia intendere la preminenza della Guida addirittura sulle basi portanti dell’Islam sciita duodecimano.

A proposito del Consiglio dei Guardiani bisogna sottolineare come negli anni ha svolto sempre di più un ruolo preminente e di intrusione contro ogni pericolo “controrivoluzionario”: il potere è quello di porre veti sull’elettorato “passivo”. Infatti ciascun candidato di qualsiasi elezione in Iran viene attentamente esaminato dal Consiglio, dalla sfera privata a quella pubblica, tanto da poterne valutare la sua eleggibilità e, soprattutto, la sua moralità conforme ai valori dell’islam sciita e ricoprire un ruolo istituzionale. È un consesso formato da ultraconservatori, dogmatici e tradizionalisti, che hanno contribuito allo stallo riformista in Iran e vegliato sui valori sciiti del popolo. Come se non bastasse, con la riforma costituzionale del 1989, venne istituito un nuovo organo: il Consiglio del Discernimento, con le funzioni di mediare le controversie fra Parlamento e Consiglio dei Guardiani. Si deduce a questo punto che il Parlamento iraniano, simbolo della democrazia teocratica sciita, è praticamente divenuto uno strumento di ratifica di impegni già presi altrove, con la buona pace di molti “narratori” nostrani che decantano una democrazia e una “complessità istituzionale” che solo la loro “disattenzione” vorrebbe farci vedere in modo diverso.

Sembra inutile sottolineare che anche i membri del Consiglio del Discernimento sono nominati direttamente dalla Guida suprema, addirittura con mandato quinquennale. Questo organo ha una funzione inattesa (nel gioco delle illusioni è rimasto infatti abbastanza teorico), cioè quella di proporre un disegno di legge rigettato dal Consiglio dei Guardiani ma obbligatoriamente ribadito e richiesto dal Parlamento. Rimane ancora una volta superfluo affermare che questo labirintico sistema studiato appositamente per mantenere inalterato e sempre più rafforzato il potere della Guida suprema ha intensificato legami familiari e vincoli clientelari, corruzioni e prebende sulla pelle di milioni di iraniani.

L’elezione del Presidente della Repubblica avviene grazie al voto di elettori che abbiano un’età maggiore di 16 anni; per il Parlamento basta avere un’età superiore ai 15 anni, così per i consigli comunali e regionali. Il Presidente della Repubblica presiede il governo di cui nomina i ministri. Svolge le funzioni di primo ministro dopo l’abolizione di questa figura con la famosa riforma in direzione conservatrice del 1989. L’elezione avviene con il doppio turno, ogni quattro anni con un limite di due mandati. Il Presidente può essere eletto solo se è un musulmano sciita. L’articolo 115 della Costituzione recita: “Viene eletto fra le personalità di rilievo in campo religioso e politico che siano in possesso dei seguenti requisiti: origine iraniana per nascita da genitori iraniani, nazionalità iraniana, capacità direttive testimoniate da precedenti esperienze, affidabilità e virtù, lealtà convinta nei confronti dei principi della Repubblica Islamica dell’Iran e della religione dello Stato”. Il Presidente nomina gli ambasciatori, i direttori della Banca nazionale e della National Oil Company. La sua agibilità nel campo della politica estera è fortemente vincolata dalla figura della Guida e da altri centri di potere. Come nel negoziato per l’accordo sul nucleare, JCPOA, l’ex Presidente Hassan Rouhani e l’ex ministro degli esteri Mohammed Javad Zarif avevano ricevuto la benedizione di Khamenei per negoziare fra le parti in causa. Le funzioni del Presidente dunque possono essere influenzate da potenti centri religiosi ma soprattutto dal Parlamento, spesso in contrapposizione.  Il Parlamento è composto da 290 membri e l’elezione avviene ogni quattro anni, con seggi riservati alle minoranze religiose: uno ciascuno per ebrei, zoroastriani, cristiani assiro-caldei e due per gli armeni, uno per quelli del Nord e l’altro per quelli del Sud dell’Iran. Il parlamento unicamerale iraniano approva il bilancio statale, la ratifica dei trattati internazionali ed elegge sei membri rimanenti del Consiglio dei guardiani, selezionati a loro volta dall’organo di controllo della magistratura. Da quanto dedotto fino a questo punto è possibile comprendere a quanti veti, controlli e composizione di “listoni” di candidati, ben setacciati, sia connotata la “democrazia teocratica e sciita” dell’Iran. Una prova di ingegneria autoritaria che vuole dare una immagine democratica all’esterno ma che denota solo una forma sublime di autorità ai limiti della sopportabilità. Da ricordare che, all’avvenuta dipartita della Guida suprema, gli occhi sono puntati sulle glosse dell’organo religioso per eccellenza: l’Assemblea degli esperti sulla Guida. La funzione più importante è quella di eleggere la Guida suprema fra i suoi ranghi. Infatti la sede ufficiale è nella città di Qom, spesso definita come il “Vaticano dell’Iran”, sede ufficiale dello sciismo planetario. Gli articoli 107 e 108 della Costituzione iraniana affermano che “l’elezione è diretta”. Gli 88 membri devono avere una “provata fede religiosa, essere affidabili e avere un comportamento moralmente ineccepibile; essere in grado di interpretare la legge islamica in modo da poter giudicare se la Guida suprema è degna di tale carica; conoscere le tematiche politiche e sociali del Paese e infine credere nel sistema della Repubblica Islamica e averlo sempre sostenuto”. La sua durata è di otto anni.

Dopo la corposa “squalifica” dei candidati più importanti, con le elezioni di Ebrahim Raissi si chiude comunque il cerchio di una intera generazione, una storia che finisce per questioni anagrafiche e non solo. La competizione elettorale ha visto fronteggiarsi tre candidati forti: l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, il capo indiscusso dell’apparato giudiziario; l’ex comandante dei Pasdaran, Mohsen Rezai; il governatore della Banca centrale, definito come moderato, Abdolnaser Hemmati. Ma chi è Raissi? Nato nel dicembre del 1960 si distingue per la sua personalità grigia, silenziosa, istrionica e controversa. Formatosi in uno dei centri religiosi più influenti del Paese, nella città di Mahshad, proviene da una famiglia clericale secondo la buona tradizione del potere iraniano. Nel 1975 è nel seminario di Qom, centro intellettuale sciita, già seminarista attivo nella diffusione delle idee di Ruhollah Khomeini che propugnava il famigerato “velayat-faghi”, punto nodale del potere degli ayatollah. Dopo la rivoluzione del 1979 Raissi dedica tutta la sua vita e la carriera al consolidamento degli ideali dello sciismo rivoluzionario. Dopo aver cominciato la sua scalata nelle pubbliche amministrazioni del Paese ha assunto la funzione di procuratore per varie giurisdizioni, soprattutto nelle città di Hamadan e Karaj, alle porte di Teheran.

Raissi tuttavia è conosciuto soprattutto per il suo passato di intransigente persecutore dei dissidenti, dei controrivoluzionari, dei mujaheidin del popolo tacciati come traditori dell’Iran durante il conflitto con l’Iraq e dei membri del partito Tudeh, i comunisti filo-russi iraniani. Le esecuzioni di massa nel 1988, in migliaia di persone (non vi sono cifre ufficiali ma gli storici ne contano circa 30.000), gli sono costate negli anni proteste e sanzioni in tutto il mondo per la violazione dei diritti umani. Egli era al vertice di un potente organismo come quello giudiziario iraniano, caratterizzatosi negli anni del suo “governo” non solo per le copiose esecuzioni capitali che hanno portato l’Iran fra i primi Paesi al mondo per questo triste primato, ma anche per le epurazioni di molti dissidenti. Raisi era stato nominato dall’ayatollah Khamenei custode del santuario di Alì al-Rida a Mashad, una delle città più religiose e conservatrici del Paese. Egli gestiva con questo incarico di controllo e supervisione milioni di dollari e un potere di influenza ragguardevole. È probabile che questo gesto sia servito a fortificare la sua posizione nelle gerarchie religiose e lanciargli una volata per la successione allo stesso Khamenei. Durante il suo mandato a capo della magistratura ha perseguitato corruttori e funzionari pubblici guardandosi bene dal colpire gli amici del regime che fanno affari per miliardi di dollari. Nella dialettica con gli Stati Uniti si è sempre distinto, al pari di questi ultimi, per i toni accesi e populisti, intrisi di odio e vendetta. Quando la Guardia rivoluzionaria ha abbattuto il volo 752 delle linee aeree ucraine con un missile, si è prodigato in una indagine che è subito sembrata propensa a insabbiare e deludere la sete di giustizia degli iraniani, con scuse a volte al limite del ridicolo. Raisi ha vinto le elezioni con più di 17 milioni di voti su 59 milioni aventi diritto, nelle elezioni che verranno ricordate per la più alta percentuale di astensioni della storia del Paese, dimostrando nella realtà quanto sia alta la sfiducia nei confronti dei politici e della presunta democrazia degli ayatollah.

Di certo l’esito del voto sarà particolarmente importante per l’accordo sul nucleare e riguarderà non solo gli stati dell’area mediorientale. Le tensioni con Israele sono all’ordine del giorno e nulla lascia presupporre che si allenteranno. La visione di Raisi è una prospettiva cieca, buia, tipica delle gerarchie religiose più oltranziste che odiano le trasformazioni, le diversità, gli slanci in avanti, le donne e il loro ruolo carismatico nella società iraniana. L’avvento della sua persona ai vertici del potere è un chiaro percorso che questo Paese sta compiendo da ormai vent’anni, dai tempi in cui Mohammad Khatami aveva tentato qualche timida riforma presto naufragata nella repressione, con il suo stesso assenso, quando ormai si intravedeva una deriva popolare in termini di proteste e rivendicazioni in tutte le strade delle città iraniane. Gli spazi di libertà saranno più stretti, i margini di una dialettica più ampia in seno alla società iraniana composita e complessa poco praticabili. Il problema più grosso è proprio con la classe media iraniana, impoverita e sbeffeggiata senza voce in capitolo, relegata in un limbo di povertà e assistenzialismo sempre più grave. Quanto questa parte consistente di Paese sopporterà di essere impegnata nel quotidiano dal come procacciarsi sussistenza, per sopravvivere alle difficoltà, non è dato sapere. Un ruolo fondamentale per la soluzione dei problemi sarà, indipendentemente dalle schermaglie dei contendenti, capire come e che cosa si stabilirà nell’accordo sul nucleare, da cui dipenderà l’allentamento delle pressioni statunitensi sull’Iran. La politica statunitense nei confronti di questo Paese ha dimostrato di essere errata, spesso superficiale e, soprattutto, tragica, per gli avvenimenti e il danno che arreca alla popolazione senza ottenere i risultati sperati. La “resilienza” all’embargo americano è avvenuto grazie all’intelligenza di un popolo meraviglioso abituato alle difficoltà che sa inventarsi quotidianamente. Da parte degli ayatollah invece, è chiaro il ricorso ad accordi che hanno consegnato l’Iran fra le braccia molto interessate e per niente sicure di Cina e Russia, con la scusa di esserne legittimamente costretti. Ma come sarà il prossimo governo?

La strategia non può essere che quella assistenziale, clientelare e corruttiva. Gli ayatollah hanno profondamente dissipato molti dei “valori rivoluzionari” dando prova di una cinica e degradante politica che ha abbassato il livello qualitativo della vita di milioni di iraniani. La base sociale di questi governi è sempre di più proletarizzata, plasmata sulle regalie delle moschee nei propri quartieri in una rete fitta di aiuti e controlli sulla popolazione. Le classi sociali più in difficoltà otterranno sussidi e continueranno a fornire basseji e squadristi di ogni sorta se ce ne sarà bisogno. Negare queste evidenze è chiaramente un’operazione in cattiva fede, con la giustificazione di ritenere ancora questo Paese un avamposto democratico confrontandolo ai principati emiratini o all’Arabia Saudita. Inoltre per fronteggiare le difficoltà, le alte cariche iraniane soprattutto religiose, continueranno con la retorica politica del “doshman dar kamin ast”, il “nemico sempre in agguato” pronto a colpire il Paese e appropriarsi delle sue immense risorse minerarie e di altro genere. I sentimenti che animano gli iraniani sono generalmente nazionalistici, perché sono fortemente radicati in una cultura affascinante e pervasiva, per molti aspetti dominante nell’intera area dei Paesi confinanti e non solo. Senza rapide generalizzazioni chi conosce l’Iran sa che sono molto profondi i sentimenti e la consapevolezza di voler essere una potenza regionale, anche per il peso storico che il Paese ha assunto nei secoli. Questa condizione non ha a che fare con questo o quel governo ma è un valore che permea lo spirito degli iraniani. Non a caso sul tavolo del presidente Raissi, molti sono i nodi di politica internazionale da sciogliere ed è prevedibile la modalità con cui verranno affrontati: Yemen, Siria, Golfo persico, Israele, solo per enuclearne alcuni.

Il leader Khamenei vuole che vi sia una transizione secondo le sue prospettive, perché è consapevole della sua età. È inoltre perfettamente cosciente che questo Iran è cambiato rispetto agli anni ’80 e che, far finta di cambiare perché nulla cambi, forse non ha più senso. La prima generazione di ayatollah, rivoluzionari e pronti a imbracciare le armi avrebbe dovuto creare una classe dirigente che attualmente non si vede, in linea forse con quanto avviene in tutto il mondo. La contraddizione è enorme fra gli impulsi dei “giovani” e la continuità dei “vecchi”. La seconda generazione è stracolma di personaggi che provengono dai ranghi militari dei pasdaran: ciò potrebbe provocare insondabili scenari. Oggi i giovani delle classi medie e agiate fanno fatica a vivere e formarsi nei Paesi occidentali. Desiderano studiare e rafforzare le ottime conoscenze maturate in Iran. Vogliono anche sfuggire la soffocante dittatura degli ayatollah, sempre e comunque con la prospettiva di tornare nel proprio Paese e cercare strade migliori di quelle sempre più tortuose in occidente. Per il momento nella visione di Khamenei, Raisi è il leader più sicuro per una transizione conservatrice e, soprattutto, indolore. Ma questo non è né scontato, né prevedibile.

Questa volta tuttavia i sodali di Alì Khamenei non hanno voluto neanche dare l’illusione che potesse esserci una competizione fra moderati e conservatori, visto che i riformisti sono stati da tempo declassati a un labile ricordo, un “incidente spiacevole” nel florido percorso rivoluzionario khomeinista. Le grigie autorità religiose hanno compiuto, con l’elezione dell’unico candidato proposto, un gesto di chiarificazione, una discontinuità al tipico gattopardismo in salsa iraniana. In questo regime neppure l’illusionismo è più di moda.