Entriamo nel dibattito su letteratura/editoria/mercato con un contributo dell’editore di Transeuropa e fondatore del gruppo Imperdonabili (M.B.).

di Giulio Milani

Come e perché operare un assalto ai protocolli delle scrittura industriale.

Nel mio match con Antonio Franchini, di cui si può leggere qui una sintesi parziale, è emersa una questione decisiva, per chi come me si occupa di ricerca letteraria: la grande industria editoriale del nostro Paese non ha un piano culturale, lavora troppo e si affida alla fortuna, vivacchiando su risultati di piccolo cabotaggio che non implicano né producono nessuna questione di poetica né di politica. Sono cose che sapevamo, è vero, ma sentirlo ammettere con tanto candore è un elemento su cui riflettere, forse addirittura una buona notizia. I mezzi di produzione sono saldamente in mano a un’industria familistica di stampo otto-novecentesco e a una compagine di letterati editori – Franchini, Rollo, Repetti e i loro allievi –, che si limitano in modo arreso e spesso consapevole a una ricezione passivo/aggressiva dell’esistente.

Riprendo qui i punti salienti delle mie contestazioni:

1. Come Imperdonabili abbiamo parlato, fin dai primi manifesti, di paradigma o per meglio dire “paradogma” Rollo/Franchini, affiancando al direttore editoriale della narrativa italiana di Mondadori (oggi in Bompiani) l’altro letterato editore a capo della narrativa Feltrinelli più o meno negli stessi anni. Questi sintomatici guardiani dell’accesso sono letterati novecenteschi, che hanno lavorato e insegnato con strumenti, saperi, tecniche alle volte vecchi di cinquant’anni. In particolare, hanno impiegato soprattutto il protocollo di scrittura industriale del “minimalismo all’italiana”, ovvero una scrittura piatta, banale, completamente serva, questa sì, di una narrazione sempre epigonale, mai innovativa, sulla base di modelli come il minimalismo statunitense, appunto, che alla fine è soprattutto un protocollo di scrittura industriale codificato dagli editor di quel Paese e buono per qualunque genere. Con questo, non rimprovero agli editor di una grossa industria editoriale di fare scrittura industriale, ma di non essere riusciti a fare la differenza neanche dal punto di vista commerciale, visto che queste soluzioni non hanno conquistato una nuova generazione di lettori, ma producono la lontana eco di un valore letterario defunto presso un pubblico sempre più vecchio e svanente, nella più completa indifferenza di quella generazione che va dai venti ai quarant’anni, per esempio, o della working class – assolutamente sottorappresentata. Dunque i Nostri continuano a imperversare, occupando ogni frequenza disponibile, nonostante le loro proposte siano carenti anche dal punto di vista degli obiettivi commerciali per cui teoricamente lavorano.

2. Questi esiti non sono solo il risultato dei ridotti margini di manovra dell’industria editoriale italiana, ma alla fine rappresentano l’esercizio di una vera e propria scelta, che potremmo chiamare il pregiudizio estetico minimalista: i summenzionati editor, scrittori in proprio, hanno fatto in modo di togliere autorialità agli scrittori veri, mandando avanti (o al macello, il più delle volte) scriventi un tanto al chilo che durano una stagione e poi vivacchiano con le comparsate ai festival, i corsi di scrittura per begonzi, gli articoli addomesticati, accumulando dal punto di vista editoriale una serie di ribollite sempre più indigeste. Invece hanno riservato per le loro opere personali un profilo basso, laterale, con editori piccoli ma stimati, come a segnare una differenza rispetto all’apparato mainstream da loro stessi colonizzato e depotenziato. Di questo aspetto, che balza agli occhi, è consapevole anche una parte del vecchio pubblico di lettori, che oggi ignora o snobba le loro proposte per manifesta mancanza di un’autentica rappresentatività letteraria.

3. In definitiva, non hanno consentito all’industria editoriale di rinnovare le proprie file in base al merito, tenendo sempre le difese immunitarie altissime, evitando con cura di inserire possibili competitor nella loro comfort zone, allevando giovani funzionari ammaestrati e lavorando solo in base alle relazioni di spogliatoio, come si dice con un termine calcistico, e alla loro idea fallimentare di scrittura.

Ciò detto, per ribadire una prospettiva di conflitto inconciliabile con questo agonismo facile e autoriferito, questo perenne giocare in un campo dove l’arbitro e il giocatore sono le stesse persone, Davide Bregola ha trovato una definizione perfetta per la poetica del paradogma Rollo/Franchini, che poi è anche un programma politico della sinistra della ZTL: il cinismo empatico. Poiché la sinistra è ormai questo, una costola della destra: da una parte ha interiorizzato il cinismo dell’apparato tecnico-industriale, dall’altro finge di interessarsi ancora dei problemi delle persone, ma lo fa da una prospettiva ventriloqua e populista, la stessa che adesso mette in campo la narrazione sulla “salute come bene supremo” solo per sublimare il concetto destrorso di sorveglianza, decoro & sicurezza, che erode tutti i nostri diritti a partire da quello al consenso. Una forma di ipocrisia totale, insomma, che oggi rappresenta una frattura antropologica tra narratori covidisti e resistenti, mentre in termini di mercato consiste per esempio nello scegliere temi, personaggi e scrittori che possano essere spesi nell’ambito del pandemic & politically correct e della morale già bell’e cotta.

Questo è il motivo per cui ho sottoposto all’attenzione degli addetti ai lavori un riferimento al modo in cui lavora oggi l’industria cinematografica, che invece non ha gli stessi problemi di sotto-rappresentanza sociale, politica e generazionale, o comunque non ha gli stessi problemi di natura commerciale, e ha saputo rinnovare il proprio repertorio tecnico. Almeno questo, voglio dire, l’industria cinematografica ha saputo farlo: rendere la propria offerta ancora più ricca di occasioni di semplice intrattenimento, o di cassetta, ma anche di film più sperimentali, innovativi, vicini al sentire dell’arte. L’una si nutre delle innovazioni dell’altra, alzando l’asticella della produzione media. Per farlo, l’industria cinematografica ha allargato o reso possibile l’incremento del numero e delle competenze delle figure che intervengono nella parte alta della filiera della produzione industriale, quella artistica: si pensi alle case di produzioni indipendenti, alle parternship internazionali e alla figura dello showrunner come delle writers’room, che vengono in soccorso ai registi o agli sceneggiatori per alzare la qualità media delle produzioni. E se alzi l’asticella della produzione media, puoi ottenere la squadra che valorizzi anche l’autore vero, quello che emerge dall’industria con tutti i suoi valori artistici pressoché inalterati. Insieme a Netflix, infatti, convive Mubi, e su Mubi come su Netflix è possibile avere un osservatorio di quanto più ampia e diversificata sia la ricerca internazionale dell’industria cinematografica rispetto a quella editoriale. Il fatto che lo stesso discorso si possa applicare anche all’industria editoriale degli Stati Uniti, come risulta da questo prezioso contributo di Martina Testa sull’omologazione letteraria all’estero, rappresenta a mio avviso la dimostrazione della tesi: abbiamo un problema ai vertici, prima che alle basi della produzione letteraria.

In conclusione, emerge una volta di più la necessità di pensare al modo più appropriato per vivere la sfida del proprio tempo in maniera non succube delle dinamiche industriali, ma critica, allargata e determinata a incidere nel software culturale del Paese da una prospettiva libertaria, dissidente. Questo è il motivo per cui sto lavorando, con gli Imperdonabili, a un progetto editoriale che sia capace di cambiare le modalità di produzione e di distribuzione dell’opera letteraria, una specie di assalto ai mezzi della produzione culturale e ai protocolli di scrittura vigenti che tenga conto, senza ipocrisie, delle caratteristiche del teatro operativo: in letteratura comandano gli editor.