di Jack Orlando

Guido Carpi, Lenin. La formazione di un rivoluzionario (1870-1904), Stilo Editrice, Bari 2020, pp. 247, 18€.

A cento e passa anni da quell’Ottobre, dal primo giorno del diluvio operaio, cosa resta dell’architetto della rivoluzione bolscevica?

Tendenzialmente poco, verrebbe da dire, data la sistematica opera di demonizzazione del comunismo che procede, ormai sfacciata, a livello istituzionale, mediatico ed accademico. Una vulgata fattasi verità che procede spedita attraverso gli innocenti nelle foibe, i gulag, Lenin che mangia i bambini, l’Armata Rossa che stupra Berlino e Che Guevara che ammazza gli omosessuali, come un fiume di fango liberale diretto a tappare ogni via d’uscita da un presente asfittico di miseria e morte. Nulla fuori di qui, nulla, se non barbarie, fuori dal capitale.

Poco ne resterebbe anche se si pensasse al graduale, ma sempre più largo, accantonamento (se non proprio di condanna alle volte), da parte dei movimenti degli ultimi due o tre decenni, non solo di Lenin ma di qualsiasi precedente storico, politico e teorico in cui ad essere protagonista è un soggetto collettivo organizzato attorno ai cardini della disciplina, della dedizione e delle ovvie rigidità che queste comportano. Ad esclusione di una più recente, ed ancora poco salda, ritrovata attenzione verso dati fenomeni, si è tendenzialmente centrato il focus sui movimenti contingenti, che di volta in volta si davano alle varie latitudini, ed alla loro dimensione acefala e spontanea; oppure ancora a forme organizzative e di autogoverno il più orizzontali possibile, dimenticando spesso il loro ruotare attorno a strutture politico-militari clandestine in cui, per formazione e per necessità, l’input leninista è ben solido.

Si vorrebbe quindi la figura di Il’ič Ul’janov come un pezzo d’antiquariato buono per le sedi polverose di vetusti circoli vetero-comunisti impegnati notte e giorno nella lettura di testi sacri che però non parlano più al presente.

Eppure, in tempi cupi come quelli attuali, e contro ogni aspettativa, Lenin torna ad esercitare il suo fascino prepotente. Perché?

Perché, al di là delle agiografie, delle biografie dattagliate e degli aneddotti che, ora che si avvicina il centenario della morte, verranno prodotte nel solito profluvio d’inchiostro delle ricorrenze editoriali, Lenin si pone come modello di pensiero e d’azione rivoluzionaria che per impatto e capacità di rottura rimane imbattuto. Chi ha aperto le porte al primo giorno del diluvio operaio, d’altronde, non si lascia mettere in soffitta facilmente.

A distanza d’un secolo di sconfitte, la vittoria dell’Ottobre resta quindi un nodo da sciogliere di nuovo e ancora per comprendere le possibili traiettorie di un cambiamento rivoluzionario.

Quello di Lenin è stato un apprendistato alla politica e alla militanza, che Guido Carpi ricostruisce in maniera eccellente e agile ( Il libro è pensato come il primo volume di una coppia e comprende il periodo a cavallo tra l’infanzia e il 1904, vigilia della prima rivoluzione e momento drammatico della frattura tra bolscevichi e menscevichi; lasciando spazio agli eventi successivi in una pubblicazione ventura), che parte al tempo in cui l’Europa era sotto il dominio delle corone e dei sovrani per diritto divino, nella Russia dello Zar in cui i contadini erano poco più che schiavi, la classe operaia ancora un embrione e la rivoluzione un tentativo agito, ed ormai sfumato, dai narodniki (i populisti russi, che ben poco ci azzeccano con gli attuali movimenti e figuri “populisti”) che tentavano di saltare a piè pari lo sviluppo capitalista facendo affidamento alle tradizioni e costruzioni sociali comunitarie del mondo contadino; ed in cui ogni tentativo di cambiamento sociale era obbligato a fare i conti con la repressione, l’espatrio, la clandestinità, la lotta nell’ombra.

Un mondo estremamente lontano da questo, ma lontano anche da quello che si avrebbe avuto un ventennio più tardi.

Il giovane Lenin vive sulla linea di faglia di un secolo in cui grande è la confusione sotto il cielo ed ha attorno a sé le ultime code del populismo ed i germogli del socialismo scientifico. Studia il primo ed il secondo, li assorbe, li vive tra i banchi delle università e le scuole serali delle fabbriche, milita, partecipa alle lotte, osserva le condizioni di vita dei contadini e discute con gli operai. Degli uni e degli altri accoglie tanto quanto taglia via. Quella del giovane Il’ič è un’attitudine polemica, critica, perennemente in movimento. Come per Marx, anche per Lenin, sbaglia chi ne vorrebbe fare un monolite teorico da cui discende una esatta ed infallibile scienza teologica che porti all’avvento del regno della libertà. Perchè è soprattutto nell’analisi e nell’azione contingente che vengono formulate idee ed indicazioni e, nel loro diventare regole generali, non possono che essere sempre messe in diretto rapporto con le forze esterne con cui si relazionano.

Ad ogni modo, dai primi circoli operai all’esilio siberiano e poi londinese e ginevrino, dalle colonne dell’Iskra alla costruzione del partito socialdemocratico (vale qui la pena precisare, come per il populismo, che la socialdemocrazia sotto la corona zarista di fine Ottocento era tutt’altra cosa di quella che fu dopo le due guerre) Lenin è un uomo in conflitto perenne con il mondo circostante e col suo stesso ambiente immediato. Sono aspre le lotte in seno al partito quanto sono dure le schermaglie con il nemico storico. Il suo interrogativo cardine è quello di costruire la forza in grado di generare il cambio di passo, il partito, e di formare il soggetto preposto a questo compito, il rivoluzionario di professione.

Attorno alla stesura del Che Fare? Si snoda quindi la prima compiuta ed originale costruzione teorica di Lenin, in cui assume forma il rapporto stretto e dialettico tra militante, struttura, classe e società. Rapporto in cui, lungi dalla postura univoca e dirigista in cui si vorrebbe confinato, spontaneità della massa e coscienza del militante procedono sul medesimo piano di costruzione organizzativa e di realizzazione di un profilo concreto della classe (che non è mai data a priori ma si costituisce nel corso della lotta) il cui processo di avanzamento la rende nucleo egemonico in grado di permeare il resto della società catalizzando attorno a sè classi subalterne trascinandole nel conflitto.

Nella visione di Lenin non è, insomma, possibile lasciare il campo al puro spontaneismo delle masse, riponendo la propria fede nella speranza che queste si educhino da sole mentre i militanti non fanno che da puntello, o supporter a questo processo. Ciò non di meno è la spontaneità conflittuale che apre quegli spazi di possibilità tali per cui una lotta, magari limitata e corporativa, può diventare dirompente. Ecco perché è necessaria l’organizzazione, il partito. Per assumere il ruolo di propulsore, connettore e guida di quel processo assorbendone le istanze e depurandole, distillandole dalla loro dimensione primordiale di istanza contingente, economica e spuria, convertirle in programma per elevarle ad una dimensione politica che possa esercitare la propria egemonia sul contesto circostante. Dalla materia prima al prodotto finito. Ed a lavorare questa materia è il militante, figura che emerge dall’incontro tra le avanguardie coscienti di operai ed intellettuali e si forma nel corso delle lotte, nella pratica, procedendo spontaneamente a delineare sé stessa. Ciò che non è spontaneo è invece l’agire di questa figura, dotata della coscienza del proprio ruolo storico, che si destreggia nelle battaglie ed è punto di raccordo tra massa e partito, qui ci si muove sulla base dell’analisi, dello studio e dell’osservazione. Qui, all’interno del laboratorio-partito, il militante dà corpo a quell’unità di teoria e prassi, cuore dell’azione leninista, dove la prima informa e traccia le linee per mettere in campo la seconda mentre quest’ultima, sulla base dei suoi risultati, corregge la teoria in un circolo ermeneutico che non lascia spazio ad ideologismi ma si presenta come un incedere concreto e scientifico. Ed essendo questo partito un consesso formato da operai, formati dalla disciplina e dalla fatica della fabbrica, e da intellettuali avvezzi allo scontro con l’apparato statale ed all’azione clandestina, non può che essere modellato sulla loro immagine: una struttura ristretta, cospirativa, neogiacobina, predisposta alla guerra sociale, i cui sodali sono disciplinati da una reciproca solidarietà marzial-spirituale, garanzia del democraticismo di un’organizzazione che per forza di cose non può che essere gerarchica e verticale.

Ma, lo ricordiamo, siamo nella Russia dove lo Zar è ancora padrone e il bagno di sangue delle trincee non è ancora nemmeno immaginabile. Ed è fondamentale comprendere come quella forma storica fosse ciò che il momento rendeva come la migliore possibile, la più funzionale allo scopo, quella in grado di interpretare ed evolvere la soggettività operaia che ne era protagonista e portarla sul piano dello scontro finale. Impossibile pensare il rivoluzionario socialdemocratico fuori da quella parentesi, impossibile replicare bello e fatto il partito di Lenin nella Russia odierna o nell’Italia di un qualunque tempo.

Possibile, anzi necessario, è invece ripescare in Lenin non la sua figura monumentale da museo, ma quello che Carpi individua come focus della sua opera: il metodo dell’unità dialettica tra teoria e prassi per individuare i gangli da colpire, la funzione di sintesi e avanzamento e l’obbiettivo egemonico del partito (qualunque sia il nome che vogliamo dare alla forma organizzativa).

Come scritto nelle prime pagine, infatti, non è un libro interessato all’agiografia del personaggio o alla biografia intimista né pensato per essere oggetto di civetteria da anticaglia accademica; non interessa cosa Validimir Il’ič Ul’janov facesse in casa sua o al bar, quello è gossip storiografico. Ciò che interessa è la traccia indelebile lasciata da Nikolaj Lenin nel suo passaggio, come indizio e strumento, come lascito da raccogliere, smontare, riassemblare e riutilizzare. Una traccia che non interessa i curiosi; ma i militanti. Perché, come nel 1902, è a essi che Lenin è interessato a parlare; ed è ancora ad essi che tocca il compito immenso di cavalcare il ronzino della storia fino a farlo schiantare.

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