di Giovanni Iozzoli

Massimo Campanini: L’Islam, religione dell’Occidente, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp.158, €15,00

«Questo saggio è uno studio sul problema delle origini. Intendo le origini della civiltà “occidentale” sui cui il cristianesimo ha impresso un’orma profonda. L’Islam, benchè possa spiacere a molti, è parte integrante di questa civiltà. L’Islam è pienamente “occidentale”» (p. 1)

Il volume di Massimo Campanini si apre con questa dichiarazione d’intenti, che potrebbe suonare incongrua o incomprensibile, agli occhi del profano. Questo perché, soprattutto negli ultimi vent’anni, la categoria “Islam” (di per sé abbastanza problematica da definire) è stata associata in “Occidente” (anche questo, concetto pressoché inafferrabile) ad una idea di “alterità” radicale, di differenza irriducibile o addirittura di nemicità. Naturalmente, per chi conosce un po’ l’evoluzione di questo continente e della percezione di sé che ha costruito nei secoli, l’idea di una internità forte dell’Islam alla cultura d’occidente – addirittura di un contributo essenziale alla sua fondazione – dovrebbe essere scontata: lo confermano una infinità di elementi storici, linguistici, urbanistici, che si intrecciano e si sovrappongono nel nostro passato. Ma restando al livello popolare, quanti baresi sanno oggi che la loro città fu un fiorente emirato? Quanti sanno che le categorie del nostro pensiero logico sono state spesso veicolate, rielaborate e trasmesse dalla mediazione di intellettuali arabi, senza i quali il pensiero greco non sarebbe arrivato fino a noi? Quanti conoscono l’apporto del patrimonio, scientifico, tecnologico e medico, che fioriva nelle terre musulmane, durante il nostro freddo medioevo, e si socializzava in perfetta integrazione, tra Oriente e Occidente, dentro quel reticolo fittissimo di relazioni cooperanti o conflittuali che fu il mediterraneo? Non c’è Occidente senza Islam.

La religione di Mohamed fu considerata per alcuni secoli una eresia cristologica: Dante mette il Profeta dell’Islam nel girone dei “seminatori di discordia”, come se egli non avesse fondato una “nuova religione” ma avesse contribuito a spaccare quella egemone. Agli occhi dei cristiani del tempo, le prime traduzioni in latino del Corano, per quanto approssimative, confermavano queste comuni radici, celebrando la nascita virginale di Isa (Gesù) dal seno immacolato di Myriam. Tra l’altro lo stesso Dante Alighieri, secondo l’illustre arabista Asin Palacios, pescò a piene mani nelle opere di Muhamad Ibn Al Arabi – un gigante della mistica islamica, peraltro iberico. Ed è nota la lettera che papa Pio II scrisse nel 1460 – sicuramente mai spedita ma fatta circolare tra le corti europee a scopo polemico –, nella quale il Pontefice invitava al battesimo Mehemet II, fresco conquistatore di Costantinopoli, condizione soddisfatta la quale il capo della Chiesa sarebbe stato disposto anche a conferire al Sultano il titolo di Imperatore Romano, in quanto legittimo padrone della “seconda Roma”. Un paradosso colossale, in cui il conquistatore ottomano avrebbe potuto acquisire il soglio più alto della regalità d’Occidente. Una idea di prossimità, oggi inconcepibile.

Questa “vicinanza” – nonostante le crociate e le guerre – era vantata anche dall’altra sponda. I musulmani consideravano se stessi come lo stadio più alto e avanzato del puro monoteismo nato dal padre comune Ibrahim. Quindi l’Islam non concepiva se stesso come un elemento di rottura, bensì di sviluppo e purificazione degli errori dottrinali accumulati nei secoli dal cristianesimo e dall’ebraismo. E mentre quest’ultimo restava una religione “etnica”, nata dal contesto semitico e strettamente vincolata ai legami di sangue, il cristianesimo e l’Islam si ponevano nella dimensione dell’universalità: la religione di Paolo è post-ebraica e guarda da subito a Roma; quella di Mohamed lascia prestissimo i deserti d’Arabia per meticciarsi con le grandi civiltà vicine, quella persiana e quella siriana. Si definirà per secoli un rapporto di competizione/scontro/prossimità tra Islam e Cristianesimo, i cui cascami, in forme molto traslate (spesso caricaturali) si riproducono anche oggi.

L’autore, Massimo Campanini, islamista e docente universitario, saggista prolifico e personalità assai rispettata tra le comunità islaimiche italiane – purtroppo prematuramente scomparso nel 2020 – si considerava “usando un termine coranico, un hanif, ovvero un puro monoteista”. Nel suo lavoro di ricerca, rivendicava “un atteggiamento né apologetico né fobico”. In questo saggio, preferisce partire dalla comparazione storica, teologica, filologica, dell’Islam e del cristianesimo, e soprattutto delle due personalità chiave del loro sviluppo – il Profeta e il Messia. Due figure radicalmente diverse, soprattutto nella storicità della loro collocazione: di Mohammed sappiamo molto e gli elementi biografici, pur inseparabili dall’agiografia, sono assai robusti. Mentre la figura di Gesù è tutt’ora oggetto di irrisolte dispute scientifiche , accademiche e storiografiche.

Un elemento di parallelismo-differenziazione è necessario rilevare preliminarmente. La sira di Muhammad è una narrazione storica che non prefigura alcuna “tesi” generale, ma solo mira a descrivere nei dettagli una missione: la predicazione dell’Islam come ultimo messaggio di Dio incentrato sull’unità divina e sulla escatologia. Le narrazioni canoniche della vita di Gesù, invece, sono apparentemente storiche, ma “trasfigurate” per così dire, nel senso che intendono dimostrare la tesi forte e precisa che Gesù è il figlio di Dio e dunque a sua volta Dio (…). I vangeli sinottici, come la Bibbia ebraica quando narra le vicende della storia di Israele, sono la “storia” di Gesù. Il Corano si limita ad accennare a Muhammad, in modo sporadico e non sistematico, e ad alludere criticamente ai fatti della sua vita, nel mentre non racconta alcuna storia organica o finalizzata. (…) Alla luce di tutti i problemi evocati, infatti, sembrerebbe che ricostruire in modo assolutamente certo una vita di Gesù e una vita di Muhammad sia un’impresa assai complessa. Tuttavia, anche se ciò fosse vero dal punto di vista dell’individuazione del Gesù “storico” e del Muhammad “storico”, l’impresa deve essere tentata per le sue implicazioni teologiche, filosofiche e e addirittura politiche, insomma per le sue implicazioni “ideologiche”. Che importanza ha se il Corano è stato collazionato nel 650 circa o nell’800 circa? Il Corano è stato un testo vivo, agente per secoli nella coscienza e nella prassi dei credenti. (…) Lo stesso vale per i/il Vangeli/o, evidentemente per i cristiani praticanti. (p. 47)

L’autore continua lo scavo sul “problema delle origini” intrecciando anche i testi sacri. I musulmani rivendicano da sempre che il Periclytos citato in Giovanni 16:7 – di cui Gesù annuncia la venuta – altri non è che Ahmed (Maometto), il Glorioso (o glorificato). Allo stesso modo il Corano dedica una intera sura a Mryam (Maria) e alla storia dell’annunciazione. Cambia radicalmente lo statuto ontologico del messia:

Gesù non deve essere inteso coranicamente come “messia” in senso ebraico: il suo compito non è quello di riscattare gli israeliti né quello di redimere il genere umano. Gesù è comunque nell’Islam una figura escatologica: sarà lui a manifestarsi, quando Dio vorrà, per sconfiggere il Dajjal (l’Anticristo) e preparare l’avvento alla fine del mondo. Gesù è uno dei sei grandi “messaggeri-legislatori” (rasul) dell’umanità: gli altri sono Adamo, Noè, Abramo, Mosè e naturalmente Muhammad. I “messaggeri-legislatori” sono coloro che, oltre a portare agli uomini l’ammonizione dell’unicità di Dio e del giudizio finale, apportano anche una Legge (sharia) (p. 69)

Queste considerazioni rafforzano l’idea che lo “scontro di civiltà”, più volte evocato nei secoli, sia stato anche “incontro di civiltà”, meticciato di culture, credenze, narrazioni, miti e suggestioni spirituali. Ed è evidente che ridurre le radici euro-occidentali alla matrice “ebraico-cristiana”, esprime una parzialità o una lacuna importante.
Ma se per l’autore, questi assunti sono evidenti, più complicato è indagare sul dove/quando le strade dei due mondi “Occidente cristiano” e “Islam”, si sono progressivamente divaricate. Massimo Campanini individua tre snodi fondamentali:

Nonostante cristianesimo e Islam nascano e si sviluppino in un humus comune, c’è un discrimine storico che li ha divisi: le tre rivoluzioni costitutive del moderno “occidentale” (la rivoluzione scientifica, la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale) hanno coinvolto il mondo islamico con grande ritardo, condannandolo ad una rincorsa che assomiglia al paradosso di Zenone (…). Le divarizazioni sopravvenute non dipendono però dai fondamenti, dai testi sacri, né dalle figure dei loro fondatori. Chiedersi dove sia accaduto il momento di svolta che ha separato le due ali principali della civiltà occidentale non è domanda futile o oziosa (…). Relativamente alla rivoluzione scientifica, due fattori sono stati determinanti: l’incapacità di sviluppare un “discorso sul metodo” e, soprattutto, a monte di questo, l’ipertrofia del diritto, che ha fagocitato le esperienze speculative. (…) Non c’è stato nell’Islam un Cartesio che abbia, per così dire, “matematizzato” la metafisica ritenendo possibile parlare di Dio in termini apodittici.(…) D’altro canto, l’origine divina della giurisprudenza (sharia), pur elaborata umanamente (fiqh) ha subordinato a quella le scienze speculative come la filosofia, che non hanno avuto modo di rivendicare un proprio spazio epistemologico. (…) Nell’Islam, in età moderna, non si sono avuti né un Kant, né un Hegel, né un Nietszsche né un Husserl o un Heidegger. (pp. 149-151)

E’ la nota tesi di Hans Kung, secondo cui l’inizio del declino dell’Islam, non va ricondotto a fattori esterni – il flagello mongolo o la crisi politica dei suoi grandi Imperi – quanto piuttosto ad un inaridimento “interno” al pensiero islamico, in cui l’ortodossia legalista dei giureconsulti ha preso il sopravvento sulla filosofia e sulla scienza, ingabbiando l’Islam dentro la conservazione e la riproduzione fedele dei paradigmi, delle teologie e delle prassi – il taqlid, l’imitazione degli antichi. Qui il livello di astrazione e generalizzazione – nel tempo e nello spazio – si fa però pericolosamente alto. Di quale Islam stiamo parlando, in che tempo, in che stagione della storia? L’autore conclude con un affermazione, secondo lui largamente condivisa dagli storici: la religione musulmana non è “refrattaria al capitalismo” e quindi non sono le sue basi teologiche ad aver zavorrato le formazioni sociali del suo mondo, “in ritardo” rispetto alla modernità occidentale. Ma se non fosse proprio così? Se cioè l’Islam covasse nel suo seno dei sani elementi di “refrattarietà” al discorso capitalista egemone negli ultimi due secoli? Se cioè il modello “vincente” – quello nostro – fosse poco compatibile con un etica islamica basata sulla sobrietà degli stili di vita, la prevalenza del comune, lo sguardo rivolto alla trascendenza più che all’accumulazione, l’attenzione per i poveri, gli orfani e gli anziani, il rifiuto della finanza: ebbene tutto ciò sarebbe un disvalore, un elemento di “ritardo”, oppure una ulteriore opportunità per opporsi alla marea nichilista che sta soffocando l’esperienza umana e il senso del nostro stare al mondo?

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