di Stefano Erasmo Pacini

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Le mie Colonne d’Ercole le avevo varcate mesi prima, dopo l’occupazione e la cacciata di Lama dall’Università di Roma. Avevo pianto di gioia, avevamo infranto l’ultimo tabù, era ora. Le università erano occupate contro la circolare Malfatti, a Roma in particolare il Movimento era fortissimo, i fascisti avevano provato a fare irruzione come nel ‘68, respinti, avevano sparato, ferendo in modo gravissimo un compagno. Alla manifestazione del giorno dopo, il 2 febbraio, in seguito all’incendio della sede dei fasci, c’era stata una sparatoria tra noi e la polizia con altri feriti gravi; le occupazioni però, invece di scemare, erano aumentate ovunque, con il Pci tagliato fuori, il partito che prendeva su di sé il ruolo di gendarme “democratico”, che tacciava tutto il Movimento di essere in mano a provocatori, squadristi, intimandoci di sgomberare le facoltà occupate, che così ostacolavamo la sua politica di compromesso storico e sacrifici.
Quel giorno, in realtà, il Pci non voleva tenere nessun comizio, nessun dialogo, voleva semplicemente affermare di fronte alle istituzioni che con noi non c’entrava più nulla, non eravamo figli suoi né legittimi né illegittimi, eravamo nemici. Era un po’ anche uno psicodramma collettivo, il tradimento dei padri, la rabbia dei figli, non più una contrapposizione politica, ma una guerra, definitiva. Giornali che sino al giorno prima avevano tuonato contro il ‘68 e gli estremisti, che all’improvviso ne tessevano le lodi per contrapporli alla nostra marmaglia violenta, per dividerci. Quel giorno è iniziata l’opera di sistematica distruzione del Movimento, delle forze più vive e critiche della società, della scelta per molti obbligata, e già perdente, della lotta armata. Il Pci è riuscito in questa opera in pochi anni, senza ottenere nulla in cambio, neppure un ministero di lenticchie, senza neanche accorgersi di gettare i semi del suo stesso suicidio, ben prima della caduta del muro di Berlino.
Sin dalla mattina la tensione era palpabile, squadre di persone coprivano tinteggiando le nostre scritte sui muri, erano edili e operai romani del servizio d’ordine del Partito, orgogliosi delle proprie mani rovinate dal lavoro, colmi di diffidenza per noi studenti sfaticati, erano vecchi rispetto ai nostri vent’anni, e venivano da una galassia lontana. Montavano un apparato pazzesco di altoparlanti su di un camion; neppure volendo si sarebbe potuto ascoltare il comizio di Lama, era troppo potente, era assurdo, come la situazione. Il resto è noto, ma rivedo al rallentatore sempre la stessa scena: a un certo punto Mau, di fianco a me, nel parapiglia, con la faccia pesta per una bastonata di un tipo con un impermeabile che ci urlava “Pariolini di merda, in Siberia!” e io che urlavo con gli altri “Via! Via, la nuova polizia!” caricando poi con centinaia di compagni e rovesciando quel camion fortificato che ci sembrava un enorme carro armato russo. Pensai che ce l’avrebbero fatta pagare cara, che ci avrebbero schiacciati, non ci sarebbe bastata una vita per sfuggirli, che eravamo davvero soli, ma almeno, se dovevamo, saremmo morti da esseri liberi e non da schiavi.
Le promesse che seminavamo creavano grandi aspettative, seguite da delusioni immani, disastri emotivi. Ho confinato quei pochi lunghissimi mesi in un recesso della mia mente. Ma mi hanno forgiato per il resto della mia vita. Il 16 marzo del ’78 capii che era iniziata la fine.

Ci eravamo sbattuti tantissimo per creare una radio nostra, libera, anarchica, di movimento. Come e più di Radio Brigante Tiburzi a Grosseto. E lo facemmo con mezzi leciti o meno, coinvolgendo in un canto del cigno anche Alessio e i suoi amici, chiunque ci capitasse a tiro e ci potesse far gioco. A un certo punto era tutto pronto, l’antenna, gli amplificatori, il microfono, con Claudio facemmo anche la prova: “Uno, due, tre, prova, sì, prova, ci siamo, qui Radio Malaria, uno due tre…” Ma non c’era più nessuno in giro, le riunioni andavano semi deserte, sparivano tutti tra Massa, Follonica, Grosseto, chi arrestato, chi suicida, chi con l’ero, chi fuggiva lontano, le donne per conto loro, nelle due stanze nei vicoli non ci passava più nessuno, cosa potevamo dire da soli? Le attrezzature rimasero a prendere polvere, poi le rivendemmo a quattro soldi, alla fine chiudemmo anche le stanze. Ricordo una delle ultime sere, gli chiesi a cosa fosse servita tutta questa nostra storia, tutto quello che avevamo fatto, perché dovesse finire così. Claudio Tuttopenne, il capellone che faceva innamorare schiere di ragazzine, mi sorrise nelle tenebre, ma la sua voce era cupa: “Non è importante che tutto sia finito, è importante che abbiamo fatto quello che dovevamo fare, è importante che sappiamo che è stato giusto farlo, senza nessun rimorso. È importante che rimaniamo liberi, qualcuno deve rimanere per raccontarlo, che la memoria non si perda, almeno quella, mi raccomando, se no moriamo anche noi prima che ci seppelliscano.”

Ho conosciuto la solitudine dopo che per un tempo ostile avevo cambiato spesso casa, città. Ero disposto a tutto prima di perdere la libertà. Invece non si sa per quale combinazione di istinto, caso, amicizia, nessuno mi ha denunciato nessuno mi ha arrestato. Un mio vecchio compagno di Roma che poi è diventato un medico affermato, mi ha procurato un biglietto aereo e i contatti giusti. Mi ha fatto cambiare aria per un po’. Nel posto giusto al momento sbagliato. Sono andato prima a Damasco, poi a Beirut, ospite dei nostri compagni palestinesi del Fplp. Proprio quando l’esercito israeliano ha deciso di regolare i suoi conti con l’Olp, con Abu Ammar, noto in occidente come Yasser Arafat. Mi tornò in mente in quei giorni Lawrence d’Arabia, film che mi fece sognare viaggi esotici dopo averlo visto da ragazzino in paese in un cinema affollatissimo. La vita poteva diventare ferocemente ironica: mi ritrovai in una città bella, dolente con bambini dagli occhi grandi, curiosi e allegri, che correvano a frotte, impegnati in giochi di guerra finta con armi vere. Mi ritrovai in una guerra vera con gli israeliani che giocavano con le milizie palestinesi intrappolate in città come il gatto con il topo. L’urlo delle ambulanze della Mezzaluna Rossa che spesso riportava i pezzi di quei ragazzini.

Ho pensato che almeno mi potevo rendere utile e combattere anche qui la mia battaglia. Non avevo più nulla da perdere. Eppure mi sentivo vivo in quella disperata allegria, in quel mondo che subito mi aveva accolto come un figlio, trattandomi come un ospite di riguardo. Vivevo presso la famiglia di un medico dirigente del Fplp che parlava italiano; si era laureato a Roma. Hamed mi spiegava la situazione politica e militare, mi portava spesso al piccolo ospedale da campo che era stato allestito tra le macerie dei bombardamenti. Nei momenti liberi mi facevo dare lezioni da alcuni miliziani con armi anticarro. Giravo con una pistola alla cintura, che Hamed mi aveva dato dicendomi con un sorriso che così adesso ero diventato la sua guardia del corpo. Visitavamo molte case e campi, decine di volte ci accoccolavamo per prendere tè e dolci, ovunque ero presentato come un rivoluzionario italiano, amico fraterno del popolo palestinese e della sua causa. Ricevevo decine di abbracci e benedizioni, da parte mia masticavo un po’ di frasi in arabo; a parte i convenevoli la mia preferita era “Thawra atta’ nasr – Rivoluzione fino alla vittoria”. A casa, Rashida badava a tre bambini dagli occhi neri, la femmina, Jasmina, faceva il segno di vittoria con le manine e poi sorrideva, guardandomi con aria interrogativa solo quando il tonfo cupo delle esplosioni sempre più vicine faceva tremare tutto come in un terremoto. In quel caso la prendevo in braccio mentre Rashida prendeva per mano gli altri due fratellini e scappavamo con altre famiglie in una cantina che faceva da rifugio antiaereo. Lì, alla luce fioca di una lampada a gas, sotto lo sguardo benevolo dei poster di Arafat, Habbash e Leila Khaled, Rashida mi parlava senza abbassare gli occhi o nascondere con fazzoletti il suo volto, bellissimo. In un inglese, molto migliore del mio, mi diceva come stesse lavorando per l’organizzazione con le donne palestinesi, come fosse fiduciosa che questa rivoluzione ormai in marcia non si sarebbe fermata fino a che la Palestina non fosse stata liberata, i suoi uomini, le sue donne, emancipati. Ero io invece, con imbarazzo, ad abbassare gli occhi quando mi chiedeva della nostra rivoluzione. Era lei a farmi coraggio alla fine, un giorno mi disse di non disperare mai, e mi citò una poesia di Hikmet: “la speranza, la speranza, la speranza: la speranza è nell’uomo”. Non so che fine abbiano fatto, in seguito mi dissero che avevano perso i contatti con Hamed e la sua famiglia, pare si fossero trasferiti a Damasco.
Estate del 1982, bombardamenti dal cielo, dal mare e da terra, tra una partita e l’altra del campionato del mondo di calcio. Ho scoperto che i ragazzini palestinesi erano tutti per noi: “Paolo Rossi, squadrazzurra!” Foto di una umanità urlante ma orgogliosa, bagliori di bombe e di tv con il commento in arabo delle partite, i gol di Pablito intervallati dalle urla dei feriti e dei miliziani, gli shebab che gioivano dei gol. Chissà che bei bianco e neri, ma non li ho mai visti, la Yashica per una cannonata è finita sotto dei calcinacci, le tendine sfondate, i rulli dispersi durante la fuga precipitosa. Dopo un abbraccio frettoloso con Hamed e Rashida, mi hanno caricato quasi a forza su un vecchio Mercedes che mi ha riportato a Damasco, ordini superiori, non volevano martiri italiani, ne avevano d’avanzo in proprio. L’Italia ha vinto il campionato del mondo, ma non abbiamo potuto vedere la finale, l’arbitro era israeliano e le tv arabe non l’hanno trasmessa. La radio sì, urli di gioia nella notte, raffiche di mitra sparate in aria. L’ultima festa per molti di loro, prima che Abu Ammar fosse costretto in esilio a Tunisi, prima del massacro di Sabra e Shatila.

Niente da fare, sono rimasto vivo, sono sopravvissuto anche a questo inferno.