di Giuseppe Ceddia

Gennaro Serio, Notturno di Gibilterra, pp. 260, € 18, L’Orma, Roma 2020.

Nell’attuale panorama della letteratura italiana, troppo spesso attento alla mercificazione da classifica e alla prostituzione della cultura tout court, avvengono – a volte – cose che non ci si aspetta e che lasciano nel fruitore quella sensazione mutuata dalla categoria filosofica del ‘non so che’, un’emozione da limbo, un dubbio perenne di valenza positiva sì, ma al contempo quasi d’irreale volontà d’accettare che un libro valido, sentito, importante non solo per l’oggi, possa davvero nascere dalle macerie della società attuale, in tempi in cui tutto avviene e nulla si risolve, dal virus alla disoccupazione, per finire – visto il contesto – a una cultura umanistica sempre più degradata e schernita da chi pensa erroneamente che una qualifica di altro tipo dia non solo più pane ma anche più prestigio.

Per moltissimo tempo, quasi ci fosse ancora bisogno di constatarlo, la cosiddetta letteratura di genere (il giallo, il romanzo rosa, la fantascienza ecc.) è stata relegata negli scaffali della letteratura di second’ordine, paraletteratura, prodotti insomma di serie B, da leggere in treno, in bagno (in barba a ciò che genialmente scrisse Poe nella Filosofia della Composizione, a proposito del grande prestigio della short story e del cosiddetto effetto in una sola seduta, non certo in bagno!, da essa derivante) o in luoghi non proprio consoni alla lettura di un libro impegnato, di un romanzo nell’accezione hegeliana di ‘moderna epopea borghese’; idem per il fumetto, fortunatamente riscoperto negli ultimi decenni e giustamente incluso in letteratura (vedi il caso di importanti e acutissime graphic novel), complice anche ciò che ne scrissero anni addietro numi tutelari quali lo stesso Umberto Eco.

Eppure il giallo, per rimanere nel contesto, è assai spesso stato non solo pretesto ma anche esempio vero e proprio di letteratura sociale a tutti gli effetti, noi italiani che abbiamo avuto Leonardo Sciascia, Scerbanenco, la ‘ditta’ Fruttero e Lucentini, Gadda col suo romanzo irrisolto, dovremmo ben saperlo ma forse facciamo finta di nulla, in molte circostanze.

Il romanzo di Gennaro Serio, trentenne napoletano (scrive per varie testate tra cui “Alias” e “il Venerdì”), si situa in quel suddetto limbo: da un lato vi è sicuramente il giallo, in quanto un’indagine – o meglio, delle indagini – sono presenti nell’architettura del testo, vi è un omicidio e questo dovrebbe bastare a situare il prodotto nella categoria del giallo (o noir, forse più adatta ai modern times); dall’altro però il romanzo è un viaggio nella letteratura, che è amata e odiata, vi è attrazione e repulsione, innamoramento e delusione, spirito critico e accettazione passiva, ribellione sopita e arrendevolezza sapiente, di fronte alla letteratura che ci uccide e ci ama, ci seduce e ci abbandona, ci fa immedesimare ma al contempo rendere conto che è tutto pur sempre una magnifica a catartica finzione.

Una cosa va detta, a scanso di equivoci e senza voler risultare letterariamente classisti, questo non è un romanzo per tutti, è un romanzo per lettori colti, è un romanzo che potrebbe in qualche maniera (per l’unione del giallo con la riflessione letteraria) far pensare al capolavoro dell’argentino Ricardo Piglia, ossia Respirazione artificiale.

E quasi a ribadire e sentenziare al contempo quanto finora detto, non è assolutamente una coincidenza il fatto che l’assassino sia uno scrittore (è uno scrittore?), del quale taccio il nome, anche perché egli stesso funambolo e manipolatore della storia, della parola, dell’intreccio, della fabula insomma. Uno scrittore conosciuto abbastanza, anche se si veda sopra il concetto di lettore colto che il romanzo in questione, così come quelli del romanziere assassino, si meritano nel bene e nel male.

Vi è una parentesi tragicomica in cui un campionato mondiale dei detectives fa da cerniera tra due parti del romanzo, quella iniziale – ancora in fase di tensione senza esplosione, dove ancora la poesia del fatto è in bilico tra accettazione e repulsione, in cui si cercano i moventi e le idiosincrasie dei soggetti – e una seconda parte di carattere quasi epistolare e di stream of consciusness joyciano (altro amore dell’autore… di quale autore verrebbe da chiedersi? di Gennaro Serio o dello scrittore assassino, finto o vero che sia?), di confessioni e frustrazioni, di giochi al massacro familiari e di rompicapi enigmatici. E poi nel campionato sfilano Maigret e Poirot, Montalbano e Ingravallo, Pepe Carvalho e Sherlock Holmes, ecc. Insomma, pane per i denti di un giallista ma non solo, perché a dirla tutta – se volessimo trovare davvero una giusta e inedita definizione per collocare il romanzo di Gennaro Serio, vincitore della XXXII edizione del Premio Italo Calvino, 2019 – più che un ‘ipergiallo’ come è riportato nel retro copertina, dovremmo dire che questo è un gioco enigmistico che sfocia non solo nel meta-giallo ma persino, a voler osare, nell’ultra-giallo, nella sua esasperante ed esasperata voglia di destrutturare l’azione e il pensiero umani, nella sua sagace ambizione a voler risolvere il puzzle del sentimento dei protagonisti, puzzle che muta – borgesianamente – a seconda del luogo in cui i medesimi operano, perché è anche un romanzo on the road questo, volente o nolente.

Mi fermo qui, perché della trama – come dovrebbe fare una recensione – ho deciso di non parlare più di tanto; però lasciatevi trasportare, innamoratevi di questo romanzo e dei suoi personaggi, risolvete pagina per pagina il rompicapo delle emozioni, dei dissapori, degli amori sommersi, dell’odio che, assai spesso, è contraltare dell’amore supremo, giocate anche voi con l’autore a inseguire lo scrittore assassino e i suoi collaboratori, a capire che Soledad non è quella che appare, a farvi scuotere i sensi da tanti sudamericani e spagnoli, al fine – prettamente personale, dunque soggettivo, e perché no egoistico – di arrivare a sciogliere quel nodo antico quanto il mondo che ci fa chiedere: la letteratura è davvero una merda? Se così fosse allora lo scrittore non può che essere un assassino. È così? Chissà.

Gennaro Serio scrive, per grande fortuna della letteratura italiana attuale, uno dei pochi romanzi che merita una sana e concentrata lettura, un libro che porta a sognare, a riflettere, a incuriosirsi ad altro, a cercare tra le pieghe delle pagine quel minimo accenno di felicità che all’uomo manca ma che un libro può donare, seppur in maniera non duratura e sfuggente. Giallisti e letterati di tutto il mondo unitevi, sancirete tutti assieme chi sia il vero assassino, la lista è lunga. La parola ai giurati.