di Alessandro Barile

Jean-Claude Michéa, Il lupo nell’ovile, Meltemi, 2020, pp. 144, € 14,00.

L’ultimo testo di Michéa riprende una sua conferenza del 2015, la condisce dei soliti scolii (note, precisazioni e riflessioni a margine che costituiscono da sempre la seconda parte di ogni lavoro di Michéa) e ci presenta la tesi ricorrente dell’autore francese: il lupo di Wall street, della grande finanza, della globalizzazione economica e del liberismo totalitario entra nell’ovile del socialismo attraverso l’ideologia dei diritti umani. Purtroppo quel che di utile veniva detto nei libri precedenti, a forza di essere ribadito in lavori troppo uguali diventa alla fine stanca ripetizione di una verità che si trasforma in cliché. E, come tale, anch’esso inevitabilmente soggetto all’opera di decostruzione che ogni luogo comune si merita.

Partiamo però dalle verità presenti nel testo, sebbene queste oramai meno vere man mano che si fanno discorso di fatto dominante, contro-narrazione ufficiale del diabolico verbo globalista. In un qualche tornante della storia della sinistra (a seconda dei casi: dalla scomparsa dell’Urss, dal ’68 o dalla svolta di Salerno e via arretrando) questa avrebbe operato una faustiana sostituzione dei diritti sociali con quelli civili. Di qui in poi, ai diritti dei lavoratori avrebbe sostituito la difesa delle minoranze, dai gay agli indigeni della Selva Lacandona alla nidificazione dei fratini della ferrovia adriatica. La difesa dei fratini garantirebbe a questa sinistra di preservarsi al potere nonostante l’odio dei lavoratori di cui sopra. Questa versione dei fatti, presentata come radicale e alternativa, è esattamente la versione egemone oggi nella politica italiana, europea e occidentale. La fa propria tutto lo schieramento populista, da Salvini al M5S. La fa propria la destra d’ogni risma e latitudine, da Boris Johnson a Donald Trump. La ripetono i corifei del politicamente scorretto, tipo Federico Rampini e Andrea Scanzi. La fanno propria tutte quelle “vere” sinistre radicali che infatti, forti della presa di coscienza, si mantengono nella consueta irrilevanza.

Quello che scompare in questa presentazione contrapposta tra diritti sociali e diritti civili è il loro rapporto dialettico, ovvero la loro sostanziale e intima unità di fondo. La scissione di questa unità è opera per l’appunto delle ideologie reazionarie di questi decenni. Ma è allora su questa scissione che andrebbero concentrati gli sguardi, non sul fatto di riproporla capovolgendo lo schema imposto dai ceti politici liberali dei diversi schieramenti al governo. Usata questa accortezza di fondo, è allora possibile leggere la traiettoria della sinistra liberale come percorso di de-emancipazione delle classi popolari, percorso compiuto anche attraverso l’uso metodico dei diritti civili presentati in antitesi progressiva con quelli sociali, dati per persi. È questo il tema di fondo che unisce i ragionamenti di Michéa (e anche di Carlo Formenti, che introduce il testo), su cui può darsi ampia condivisione proprio in quanto plateale e persino rivendicato dagli stessi protagonisti politici dei nostri tempi.

Ciò che non torna, come sempre, riguarda le possibili soluzioni, ovvero gli scenari auspicabili per superare l’attuale dominio dell’economia sul destino dell’uomo. Il passatismo, la decrescita, il ritorno a forme superate di economia e di società, l’elogio del piccolo e della prossimità, in altre parole la resistenza al moderno, riducono la portata di queste analisi a gioco intellettuale. Il mondo non tornerà ad una sua qualsivoglia forma precedente. Ciò che invece sarebbe necessario ricostruire sono forme di governo pubblico dello sconvolgimento economico delle nostre vite. Forme di controllo e di direzione, di gestione collettiva che, senza imbavagliare la libertà di ciascuno (ma senza neanche innalzarla a feticcio), pieghino le straordinarie potenzialità della produzione attuale in favore, e non contro, l’umanità stessa. Oggi ogni evoluzione tecnologica, ogni scoperta scientifica, è guardata con giustificato sospetto da sterminate masse di popolazione. La percezione è che l’utilizzo di questo processo innovativo sia in contrasto con i bisogni dell’uomo, ostacoli la sua possibilità di vivere e lavorare in modo più umano, meno asservito alle logiche riproduttive capitalistiche. È un sospetto più che comprensibile, che la politica ha il dovere di cogliere e discutere. L’averlo sottovalutato, per le sinistre, è segno del loro decadimento culturale e, di converso, descrive i motivi dell’attuale egemonia culturale delle varie opzioni reazionarie. Rimane il fatto, però, che questo progresso non può essere combattuto in quanto tale, ma governato. Finalmente liberandolo dalla cattura privatistica, ovvero capitalistica, delle sue conseguenze e dei suoi frutti. Questa accortezza nei lavori di Michéa non si trova, ed è il motivo per cui funziona polemicamente, come gioco intellettuale appunto, utile a demistificare l’orizzonte ideologico delle sinistre liberali, ma inutile a immaginare soluzioni politiche progressive proprio perché, nel demistificare l’ideologia liberal, le scaglia contro altre mistificazioni.

In conclusione, dunque, i libri di Michéa – e questo in particolare – si prestano ad un loro uso “utile” a patto di essere già vaccinati alle retoriche dell’antimoderno. Funzionano come pugno nell’occhio dell’insopportabile armamentario retorico delle post-sinistre, che antepongono – loro sì – l’individualismo proprietario, portatore di inesauribili “diritti” civili, ai bisogni comunitari e alle necessità sociali violentate dalle ragioni dell’amministrazione tecnico-economica. Ma qui si ferma l’utile, e sopraggiungono i problemi.