di Fabio Ciabatti

Elsa Dorlin, Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, 2020, pp. 304, € 19.

Il fuoco ha appena avvolto la stazione di polizia di Minneapolis in cui lavoravano gli sbirri assassini di George Floyd. Immediatamente si infiamma anche il dibattito: un coro di voci gracchianti si leva per condannare la violenza pur pretendendo, allo stesso tempo, di sostenere le ragioni della protesta. Ma è possibile mantenere il piede in due scarpe in modo così pilatesco? In fin dei conti anche il non violento Martin Luther King sapeva che il riot è il linguaggio di chi non è ascoltato.
C’è però qualcosa di più che si può dire. E lo possiamo fare utilizzando un libro della femminista francese Elsa Dorlin, da poco tradotto in Italia, Difendersi. Una filosofia della violenza. Secondo l’autrice una linea di demarcazione storica oppone i corpi “degni di essere difesi” a coloro che rimangono esposti alla violenza del potere dominante e alle minacce di una minoranza con il diritto permanente di usare impunemente le armi. Ciò pone la questione dell’uso della violenza per la difesa di ogni movimento di liberazione. Una violenza, è questo il punto, che è un momento essenziale per la politicizzazione degli oppressi. Di più, la soggettività del dominato si può costituire solo imparando a difendersi. Prima non esiste. 

Se il soggetto moderno è stato definito attraverso la sua capacità di difendersi, questa capacità di autodifesa è anche diventata un criterio utilizzato per distinguere i veri soggetti dagli altri, quelli che sono condannati a una “soggettivazione infelice”. Questi ultimi, infatti, più si difendono dalla violenza subita più diventano “indifesi o indifendibili”: indifesi perché incorrono nella reazione cruenta e sproporzionata di chi ha il monopolio legittimo della violenza; indifendibili perché ogni azione tesa alla preservazione di sé viene a priori interpretata come un’azione aggressiva, espressione di violenza “pura”.
Questi corpi vulnerabili, sostiene l’autrice, possono riscattarsi esclusivamente impossessandosi di tattiche difensive; attraverso, cioè, l’autodifesa propriamente detta, che è cosa opposta alla legittima difesa, giuridicamente intesa. Esiste pertanto una storia sepolta delle “etiche marziali di sé” che hanno attraversato i movimenti di liberazione.

Vediamo alcuni esempi tratti dal libro di Dorlin. Poiché gli schiavi africani deportati nel nuovo mondo non possono portare alcun oggetto atto ad offendere, possono prepararsi alla lotta solo attraverso danze i cui movimenti simulano le mosse di un  combattimento. In questo modo si manifesta la dinamica di uno scontro differito che si imprime nel corpo del colonizzato: un corpo in costante tensione, pronto a scattare appena si presenti l’occasione della rivincita, e per questo costretto nell’immediato, per immaginare una reazione, a rifugiarsi in una temporalità onirica. A partire da ciò si dispiega un processo di liberazione che, dovendo passare per una forma di sensualità scatenata, risulta inesorabilmente violento.
Con il secondo esempio giungiamo in Inghilterra ai primi del ‘900. Le suffragette inglesi si impadroniscono delle forme di combattimento personale che uniscono tecniche occidentali e orientali. Abbiamo a che fare con un tipo di combattimento che si basa su un principio di economicità in quanto gioca sulla sorpresa suscitata dalla reazione di soggetti presuntamente inermi e in quanto  ribalta sull’aggressore, che si presuppone fisicamente più potente, la sua forza. Non si tratta soltanto di affrontare la polizia e dunque di utilizzare uno strumento per raggiungere un fine, l’uguaglianza. L’autodifesa è un processo continuo di incorporazione e di realizzazione dell’uguaglianza. E’ una forma di politicizzazione dei corpi senza mediazione e senza delega che modifica i corpi stessi e il loro rapporto con il mondo.
Il terzo esempio è forse quello più noto. Le Black Panthers fanno dell’autodifesa armata una vera e propria bandiera per quanto adottino una strategia ultralegalista e rigidamente difensiva. L’autodifesa ostentata fa emergere una semiologia dei corpi militanti in lotta giocata sul fatto che ci sarà una reazione inesorabile a ogni colpo subìto, che ci si approprierà con la forza dei diritti negati. Il codice di abbigliamento (armi e basco nero) incarna un tipo di mascolinità in grado di trasmettere una potenza generatrice di orgoglio alla minoranza nera oppressa e un impulso potente di consapevolezza politica per chi ha da difendere solo un noi che è nulla e nulla possiede senza la prassi dell’autodifesa.

Si potrebbe obiettare che tutto ciò fa parte del passato oppure che non riguarda l’occidente democratico. Ma questa obiezione non tiene conto delle ripetute rivolte causate dalla brutalità delle forze dell’ordine in Francia, nel Regno Unito e soprattutto negli Stati Uniti. Torniamo dunque, insieme all’autrice, negli USA per notare come nella storia di questo Paese c’è un filo rosso che parte dal regime schiavistico e arriva fino ai nostri giorni. Una storia iniziata con la costituzione delle milizie difensive che, durante il periodo della colonizzazione, si appropriano di competenze giudiziarie e poliziesche, basandosi sul diritto all’autodifesa armata di ogni singolo cittadino. Nasce così il fenomeno del vigilantismo che finisce  per istituzionalizzarsi accanto al sistema giuridico, in nome della difesa di una minoranza coloniale bianca.
I vigilanti, o giustizieri, rifiutano ogni principio di equità e di presunzione di innocenza. Il loro compito è dare la caccia a chi è a priori colpevole, a chi appartiene alla categoria dei “nemici naturali”. Per difendersi contro il crimine è a priori legittima qualsiasi violenza, anche il linciaggio, pratica che viene incoraggiata dalla complicità dell’istituzione giudiziaria.
Veri e propri eredi del vigilantismo, i dipartimenti di polizia statunitensi applicano un doppio standard: uno esplicito, rispettoso delle regole dello stato di diritto, l’altro, appena dissimulato, modellato sulla prassi dei giustizieri. Questo secondo standard, negli USA come nel resto del mondo, sembra prendere sempre più piede come testimonia la progressiva militarizzazione di corpi di polizia (p. es. con l’utilizzo di armamenti da guerra e l’arruolamento di ex soldati) o la diffusione del modello securitario israeliano che, con una logica prettamente coloniale, presuppone la sfera civile quale spazio di violenza e pericolo permanente. 

L’applicazione di questa logica bellica all’ambito interno rimanda al fatto che il diritto di difendere la propria vita, nel soggetto moderno, è inestricabilmente legato a quello di difendere la proprietà. Se l’autodifesa è legittima solo per l’individuo proprietario, un capitalismo che, nella sua fase neoliberista, si basa sempre più su meccanismi di accumulazione tramite spoliazione sembra destinato a estendere il novero dei soggetti privati di qualsiasi diritto di proteggere la propria vita.
Dorlin mette a nudo il potente intreccio storico del classismo con il sessismo e il razzismo nella costituzione dei dispositivi moderni di dominio, concentrandosi sulle donne, sui neri, sugli ebrei (quelli che erano minacciati dalla violenza dei pogrom o dei nazisti, perché con la costituzione dello stato di Israele la situazione si ribalta). Ma i “corpi disarmati, violentabili” possono essere costruiti anche attraverso una logica meramente classista, come ci racconta, per esempio, D. Hunter nel suo Chav. Solidarietà coatta, parlando dei corpi dei proletari inglesi intrisi di connotazione di classe, svalorizzati in quanto privi di capitale e per questo passibili di essere comprati, venduti, imprigionati, picchiati, violentati (l’autore è comunque molto attento nel denunciare il patriarcato e il suprematismo bianco che aggravano pesantemente l’oppressione di una parte consistente della working class).

Decenni di egemonia incontrastata (almeno in Occidente) della borghesia ha intensificato un processo ben descritto da Dorlin. Il potere risparmia ai soggetti dominanti la fatica di conoscere l’altro e permette loro di concentrarsi su se stessi, riproducendo le condizioni materiali del proprio dominio. All’opposto, ai dominati è richiesta una continua attenzione nei confronti dei loro oppressori che produce un’approfondita conoscenza dell’altro. In questa conoscenza, però, è l’oggetto osservato a dominare a discapito del soggetto che, nel continuo sforzo di decifrarlo, diviene dimentico di sé e della propria potenza di agire.
Chi domina, dunque, deve andare a sbattere contro la resistenza attiva dell’oppresso. Inutile chiedergli con gentilezza una maggiore considerazione. Chi è oppresso deve ritrovare la propria capacità di agire sull’oppressore. E’ quantomeno ingenuo meravigliarsi del fatto che moltitudini di sfruttati americani (soprattutto neri, ma non solo) abbiano dovuto fare fuoco e fiamme prima di poter finalmente urlare “I can breath”.