di Gianfranco Marelli

Peter Sloterdijk, Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, traduzione e cura di Alessandro De Cesaris, Edizioni ETS, Pisa 2020, pp. 90

Se c’è un libro che, senza fronzoli e neppure illogiche congetture, può soddisfare la necessità di comprendere i comportamenti umani e il loro complicato rapporto con l’arte della possibile convivenza comune – soprattutto dopo aver subito, colpa di un virus considerato letale, l’obbligatorietà di rimanere segregati entro le quattro mura fino al termine del lock down – questo è sicuramente il libro di Peter Sloterdijk, Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, tradotto e a cura di Alessandro De Cesaris per le edizioni ETS. Un’esagerazione? Lo verificherete non solo dopo averlo letto, ovviamente, ma ancor prima di leggerlo, dal momento che quello di cui tratta è per l’appunto ciò che avete appena provato durante la convivenza forzata, subita con preoccupazione, o accettata con piacere, nei mesi trascorsi.

Chiariamoci subito, non si tratta dell’ennesimo filosofo che prova a spiegarci il disagio provato a seguito dell’infezione pandemica, né ha l’obiettivo di individuare cause e conseguenze del fenomeno. Pubblicato in lingua tedesca nel l993, il libro di Peter Sloterdijk non affronta ovviamente la questione del Covid19 che ha infettato così tanto giornali, riviste, radio, tv, blog, social da non saper più come riuscire a non imbatterci il muso. Oggi il filosofo tedesco, di certo avrà elaborato una sua opinione a proposito, ma ciò che gli interessa è discutere di politica, anzi, di iperpolitica. Perché se la politica è l’arte del possibile, questa coincide con l’immagine di una umanità che nella convivialità ha proiettato la speranza di una società coesa e votata al benessere comune; sennonché – ribatte il filosofo – «il concetto di “umanità” nasconde un paradosso processuale che può essere messo in questa forma: siamo destinati a convivere, ma non siamo fatti per convivere» e «quanto più facciamo esperienza con coloro con cui conviviamo, tanto più marcatamente emerge l’evidenza che non possiamo conviverci» [p.12]. Non è forse l’esperienza appena vissuta nel corso del lock down? Dopotutto, siamo tutti sulla stessa barca.

Una barca che però è cambiata nel corso della navigazione iniziata migliaia di anni fa e che ancora prosegue con la speranza di continuare la convivenza in uno spazio sempre meno adatto e adattabile alla socialità degli umani. Sloterdijk ripercorre questa tormentata navigazione descrivendo e analizzando il comportamento degli umani attraverso l’evoluzione storico-filosofica del fondamento della possibilità della convivenza umana a partire dal suo manifestarsi nell’agire politico; un agire politico che attraversa «tre stadi» – la paleopolitica, la politica classica, l’iperpolitica – mostrando quanto la storia delle idee politiche sia sempre stata «una storia di fantasmi della convivenza, dove l’espressione “fantasma” non va letta nel senso della critica delle immagini, come mera parvenza o come immagine ingannevole, ma va concepita piuttosto nel senso di una teoria dell’immaginazione attiva, come illusione demiurgica, come idea che avvera se stessa e finzione operativa».

«L’illusione demiurgica» ha permesso di immaginare la realtà del mondo plasmata dall’arte della convivenza umana nella società e di concepire l’uomo e l’umanità come la conseguenza del formarsi della «civiltà avanzata»; sennonché – a parere del filosofo tedesco – il concetto di «civiltà avanzata» non è altro che una menzogna, anzi «l’errore più grande non solo della storia e delle humanities, ma anche delle scienze politiche e della psicologia» [p.18], poiché ha determinato una lettura statocentrica della storia, in cui la socialità degli umani dalle prime «orde» che hanno segnato la separazione delle prime comunità dalla natura primordiale e dove la paleopolitica rappresenta «la più antica grammatica della convivenza» [p.26], si è trasformata nella politica classica delle civiltà avanzate che ha fatto degli umani un mezzo per costruire “l’uomo”, colui che si interessa delle grandi cose, ta megala, abbandonando la dimensione familiare dell’orda per occuparsi delle grandi questioni dello Stato.

Se nello stadio paleopolitico l’involucro delle orde protegge gli umani dalla natura, essendo la paleopolitica «l’arte del possibile in piccolo – l’arte di mantenersi piccoli in nome del bene maggiore, della vita animata» [p.30], la politica, nella sua accezione tradizionale, è l’arte del possibile su larga scala, in quanto nasce dalla necessità di estendere il piccolo gruppo, l’orda, trasformandolo in una “civiltà avanzata” in grado di esprimere «la miglior vita» mostrando la capacità di «diventare grande o molto grande senza fallire immediatamente nel compito di trasmettere questa grandezza alle generazioni successive» [p.31]; in questo secondo «stadio», la separazione all’interno della società è fra gli umani e gli “uomini megalopati”, gli esperti delle grandi questioni, in quanto sono stati educati alla «metanoia»: la capacità di «cambiare mentalità, passare dalle piccole alle grandi proporzioni» [p.38]. Educazione, impartita dalla filosofia greca come dalle sue controparti cinese e indiana, atta a formare l’homo politicus, l’«uomo» che si prende cura della “figura uterina” dello Stato – «una grande madre metaforica che pone i cittadini sotto il vincolo sociale di una comunità di grembo immaginaria» [p.42 ] – e ne rappresenta il «tratto più astratto e anaffettivo della nuova arte politica – la politica è ciò che va contro il sentire degli inesperti» [p.44]; in tal modo si determina una «doppia produzione umana: da un lato vengono prodotti, per così dire artigianalmente, degli esseri altamente performanti e individualizzati, grazie a una “educazione” nel corso di un allenamento filosofico; dall’altro vengono prodotte masse umane manovrabili per il lavoro bruto» [p. 52]. I primi educati a prendere decisioni, i secondi a eseguirle.

Fermiamoci un attimo e consideriamo l’assunto di Sloterdijk con quanto, da inesperti, abbiamo vissuto in questi lunghi mesi di lock down decretato dagli esperti. La preoccupante pandemia causata dal coronavirus ha dapprima valorizzato la figura dell’homo politicus, riconosciuto come colui che rappresenta e tutela l’autorità centrale del potere, soprattutto a seguito delle decisioni assunte in sintonia con le analisi scientifiche compiute dall’esperto, al punto che la credibilità del primo è dipesa dalla credibilità del secondo; sennonché la ritrovata fiducia nell’agire dei politici è via via svaporata con i balbettii, le contraddizioni e le reciproche accuse di incompetenza che gli esperti non hanno risparmiato di rivolgersi, provocando confusione fra gli inesperti. Inesperti che non si sono ritenuti più tali se – ritorniamo al testo del filosofo – «Nella nostra situazione la totale ignoranza siede in prima fila. Si vede il personale politico scatenarsi sui media e ci si ricorda dello squallore organizzato dei tornei cittadini. Certo, ogni tanto ci sono ancora megalopati alla vecchia maniera che appaiono convincenti, personalità elevate di vera statura atletico-statale, ma la loro apparizione isolata può solo relativizzare la disproporzione globale tra le forze necessarie e le debolezze a disposizione, non porvi rimedio» [p. 63]. Qual è la causa di un simile «disgusto nei confronti della propria classe politica»? L’incapacità di saper prendere le opportune decisioni per manifesta incompetenza? Incompetenza, peraltro, riscontrata anche presso i non politici: gli esperti tecnocrati?

Infatti, l’incapacità di essere all’altezza delle sfide mondiali è vera a maggior ragione e nella stessa misura per i non politici, che in fatto di consenso presso le masse umane accusano la simile diffidenza, aggravata per lo più dal fatto di volersi mostrare indiscussi esperti al punto da considerarsi i soli in grado di porre rimedio alle storture della Megamacchina tecnoburocratica; dopotutto, se la politica non sembra più essere l’arte del possibile è perché la convivenza sociale – fondata sul perfetto accordo tra disposizioni e compiti – non può più contare, come ai tempi della politica classica, sui «cercatori dello Stato» e i «cercatori di Dio», i politici e i chierici, impegnati a pensare la grandezza in termini assoluti all’interno di «esegesi politiche globali e dottrine ontologiche» in grado di raffigurare un ordine al mondo. Del resto, «in un mondo senza forma e in una società senza identità» [p. 66] proprio dell’attuale stadio iper-politico, la “convivenza” si riduce alla mera “conservazione delle possibilità vitali” soprattutto nei settori più marginali della società, mentre nei settori più ricchi si afferma al contrario «un individualismo quasi post-sociale». E in questo «terzo stadio» dell’iperpolitica, la perdita di consenso nella democrazia forse non è altro che «un nome in codice per una tendenza generale della modernità, che affonda in profondità nella storia europea: l’individualismo moderno» [p.83]; una conseguenza della mancanza di potere nell’ambito politico unitario, che si manifesta come assenza di fondamento nell’ambito logico, e in crisi della genitorialità e del principio genealogico nell’ambito antropologico [p.86]. In una battuta: Dio è morto, Marx pure e noi non siamo messi troppo bene!

Fra rigurgiti nazional-populisti forieri di un futuro di “guerra contro tutti” , individualismi moderni abbarbicati ai propri “piccoli godimenti per il giorno e per la notte”, e inarrestabile espansione del processo industriale su larga scala in grado di distruggere “riserve” naturali e umane più di quante ne possa produrre o rigenerare, il disagio di non sentirci “troppo bene” ha fatto progressivamente salire la febbre anche a chi – in questi tre lunghi mesi di lock down – non è stato affetto dal Covid19. Sembra ormai giunto il momento di darsi da fare, in teoria e in pratica, per promuovere una nuova politica per l’epoca in cui è scomparso un potere unitario nelle civiltà avanzate. Di questa necessità Sloterdijk ha tratteggiato, in questo libro, la proposta di una «iperpolitica» dinnanzi alle pretese sempre maggiori nell’arte della convivenza affidate agli esperti della tecno-struttura burocratica; iperpolitica che «si trova di fronte al compito di produrre dalla massa degli ultimi una società di individui che si facciano carico dell’impegno di rendersi intermediari tra i predecessori e i successori» [p. 90]. Ormai l’arte del possibile si è ridotta ad essere una navigazione a vista, in cui la scommessa in un miglioramento globale della forzata convivenza umana dovrà puntare su di una iperpolitica in grado di «apprendere un modello di comportamento che permetta di vincere in modo che anche dopo di lei ci possano essere ancora vincitori». E quale altro modo si potrebbe escogitare per contrapporsi al culto della dismisura, del pensar in grande della politica classica che ha ingigantito e gonfiato la struttura tecno burocratica, se non riprendere i principi del radicamento territoriale, della limitazione dimensionale, del decentralismo, dell’organizzazione per piccole unità locali solidali e confederate, così da rinverdire la ritrovata «grammatica della convivenza» fra umani, mondo animale e vegetale? Siamo o non siamo Sulla stessa barca?