D. Hunter, Chav. Solidarietà coatta, Edizioni Alegre, Roma 2020, pp. 160, € 14,25.

di Fabio Ciabatti

La classe è una “cosa viscerale”. Non è una costruzione politica, come vorrebbe un certo populismo di sinistra. O qualcosa di semplicemente inesistente, come sostiene il neoliberismo thatcheriano. E’ una dimensione talmente reale da inscriversi in profondità nell’organismo umano.Se hai vissuto da sottoproletario o nella working class più povera, qualcosa risuona attorno al tuo corpo anche se sei riuscito a uscirne per vivere in spazi più sicuri. Queste esperienze hanno un impatto fisico, reale”. In altri termini  “Our bodies are classed, i nostri corpi sono intrisi di connotazioni di classe, e i corpi delle persone senza capitale valgono meno. Per questo possono smontare i nostri corpi, possono comprarli e venderli, imprigionarli e poi lasciarli andare”.1

Non parla certo per sentito dire D. Hunter, autore di Chav. Solidarietà coatta, libro pubblicato da Edizioni Alegre nella collana Working Class diretta da Alberto Prunetti (che è anche il traduttore del volume). Hunter scrive della sua vita, delle  persone che lo hanno picchiato, stuprato e torturato. Dei primi 25 anni della sua esistenza in cui è sopravvissuto prostituendosi, rubando e spacciando. Del suo abuso di alcool e droghe, dei periodi vissuti in prigione o per strada. Racconta di donne e uomini violenti e tormentati, già segnati da sfregi ancor prima di diventare adulti. Persone che hanno subito traumi e per questo hanno più facilità a riprodurre la violenza subita sugli altri. Questo sono i chav, i coatti: persone che vivono nel Regno Unito e che a causa della svolta neoliberista degli anni 70 sono state marginalizzate e demonizzate dalle politiche dei governi britannici. Uomini e donne a cui la società nega l’umanità affinché la coscienza collettiva possa sopportare le tremende disuguaglianze di cui sono vittime.
Eppure da queste pagine non emerge un lamento disperato o uno sguardo accondiscendente. E neanche una presa di distanza da parte di chi ce l’ha fatta a tirarsi fuori dalla merda e oggi appare un uomo rispettabile sulla quarantina. Perché il libro è impregnato della “passione e della fede” che l’autore nutre “verso la vita intellettuale di chi vive ai piani bassi della catena alimentare dell’economia”.2 I bassifondi della società non sono solo un luogo di perdizione e dolore, ma anche di speranza. Hunter evidenzia infatti i valori della solidarietà, del mutuo soccorso e dell’autodifesa che esistono all’interno di queste comunità. Organizzazione collettiva e resistenza sono pratiche diffuse tra le persone che vivono ai margini. 

Noi, persone povere e working class, siamo costretti dalle strutture e dalle istituzioni della società a vivere interi periodi della nostra esistenza in condizioni in cui la sopravvivenza è l’unica cosa che conta, momenti che possono durare settimane, mesi, anni, decenni. In questi periodi la nostra resistenza, la nostra forza come individui e come comunità, può venire alla ribalta. Una forza che ci permette di impegnarci gli uni con gli altri, di fare affidamento gli uni sugli altri, che permette alle nostre vite di intrecciarsi tra loro, consapevoli che abbiamo più possibilità di sopravvivenza se le nostre vite sono profondamente connesse. Ed è in queste circostanze che si sviluppano il nostro impegno verso gli altri e la nostra vita collettiva, e che si accrescono la nostra capacità di difesa e la possibilità di scegliere come pensare e agire. Perché è solo quando c’è collettività, e la si rafforza, che possiamo fare qualcosa di più di sopravvivere.3

Molti sono gli esempi che Hunter ci porta di piccoli e grandi gesti di solidarietà, cura reciproca e generosità inaspettata. Il più estremo è forse quello di un gruppo di bambini che si prostituivano insieme a lui per le strade di Nottingham.  Quei bambini si guardavano reciprocamente le spalle per proteggersi dagli adulti aggressori non perché si piacessero, ma perché sapevano che se non lo avessero fatto le cose avrebbero preso una brutta piega, anche se nella maggior parte dei casi ottenevano solo che la violenza dell’aggressore di turno si distribuiva sul gruppo.

Hunter però non scade mai in un’esaltazione del buon selvaggio metropolitano. Anche se la cosa più bella che ha visto sono le persone povere prendersi cura le une delle altre, sa benissimo che questo sta diventando sempre più difficile perché viviamo in una cultura che dà estrema importanza all’individuo e alla sua capacità di acquisire la ricchezza disgregando la collettività. Perché la società cerca di separare le persone relegandole a una vita di consumi per escluderli dalla politica. È consapevole, per esperienza personale, che il suprematismo bianco e il patriarcato sono incistati nei comportamenti e nelle convinzioni dei più poveri. Non si nasconde che la classe lavoratrice è stata stratificata in modo da rendere difficilissima una trasformazione rivoluzionaria. Marchiare a fuoco alcune categorie di persone come chav non significa additarli al pubblico ludibrio solo per una una generica opinione pubblica benpensante, ma anche per una presunta classe lavoratrice rispettabile creando ad arte una spaccatura in seno alla working class: una frattura tra chi vive delle briciole e chi ha lo stomaco vuoto.

E proprio qui potrebbe intervenire la politica. Almeno quella dei movimenti per la giustizia globale cui l’autore ha partecipato da un certo punto della sua vita. Ma proprio a questi movimenti Hunter riserva le parole più critiche e amare perché li considera dominati dalla middle class, da persone che, per quanto bene intenzionate, non soffrono davvero gli effetti di quel sistema che vanno denunciando. I movimenti contro il capitalismo e contro l’oppressione, secondo l’autore, non sono riusciti a creare spazio per le idee e le esperienze di chi ha un’estrazione sociale nel sottoproletariato e nei piani bassi della working class. I sottoproletari vengono utilizzati solo come simboli dell’oppressione ma non sono riconosciuti come soggetti in grado di autodeterminarsi e di esprimere un proprio punto di vista. Le loro analisi sono considerate legittime solo quando adottano le norme intellettuali della classe media. Le riflessioni fatte dall’autore a questo proposito chiamano in causa la sua stessa identità personale. 

Dopo aver adattato il mio linguaggio e il tono della mia comunicazione a quelli della classe media, a quel punto non era più la mia analisi a essere illegittima, quanto le mie esperienze, la mia connessione con i luoghi da cui provengo.4

Dopo aver inscenato svariate forme di comportamento middle class, Hunter sostiene di essere arrivato al punto di sradicare alcune parti della propria identità in maniera così profonda da non poterle più recuperare. A forza di recitare per essere accettati in alcune reti sociali, si finisce per perdere dentro se stessi le cose che si nascondono agli altri, rischiando di mandare in pezzi la propria identità. Non stiamo evidentemente parlando di un problema di disadattamento individuale, ma di una questione ben più ampia.  La delegittimazione che viene dall’alto, si potrebbe commentare, ha le sue radici nella mancanza di un reciproco riconoscimento tra i subalterni sufficientemente sviluppato da essere in grado di esprimere una cultura collettivamente condivisa. Di classe appunto. In mancanza di ciò, uscendo dalle situazioni quotidiane, i subalterni sono costretti ad esprimersi  in una lingua che è formalmente la propria, ma sostanzialmente è carica di contenuti ideologici e esistenziali alieni. 

La mancanza di riconoscimento non riguarda solo le idee ma anche i comportamenti. E qui la cartina di tornasole ce l’abbiamo con i fatti accaduti nel 2011 nel Regno Unito. In quell’occasione, ci racconta Hunter, molte persone con esperienze di vita simili alle sue si sono riversate nelle strade di molte città, saccheggiando, incendiando e attaccando i simboli, le istituzioni e le organizzazioni che li avevano da sempre trattati con disprezzo. I militanti dei movimenti sono stati sorpresi dalla rabbia che si era espressa contro lo stato e il capitale. Le analisi politiche di  molti gruppi radicali parlavano di azioni spoliticizzate, fatte da sbandati.  Anche molti marxisti si rifiutavano di ammettere che erano nel giusto quei giovani che non facevano altro che vendicarsi di chi aveva abusato di loro. Questo mancato riconoscimento nasce dalla negazione dell’autodeterminazione dell’oppresso, dal rifiuto di ammettere che sia lui a dover scegliere le sue forme di resistenza. Queste scelte devono essere accettate da chi vuole essere considerato suo alleato o complice. In caso contrario si finisce per passare dalla parte dell’oppressore.
La disgregazione prodotta dal sistema, sostiene Hunter, porta ciascuno a un disperato bisogno di controllo del proprio angolo di mondo. E una rivolta apparentemente disordinata, come quella del 2011, ha gettato molti nel panico. Gli attivisti middle class hanno avuto paura del fatto che questi giovani, con cui non avevano alcun legame, mostrassero una reale capacità di far sanguinare il naso dello stato e il capitale e di avviare così una trasformazione sociale. Hanno avuto paura che essi stessi  potessero diventare bersaglio della rabbia coatta.

E allora, sostiene l’autore, “dobbiamo trovare il modo di metterci alle spalle tutta la merda che ci è stata gettata addosso”,5 anche da parte dei movimenti. Riflettendo sul suo percorso Hunter si è convinto di non essersi politicizzato frequentando i circuiti antagonisti, ma durante il corso di tutta la sua esistenza imparando a riflettere e agire sulla base dei principi di solidarietà, mutuo soccorso e resistenza. Hunter ci racconta di aver vissuto i primi 25 anni della sua vita come un giovane incline alla violenza accanto a compagni di viaggio in tutto simili a lui. Ma il fatto di non usare parole come rivoluzione e resistenza non significava che non capissero cosa succedeva intorno a loro. Sapevano benissimo chi stava da una parte e chi dall’altra.
Certamente c’è stato un momento di svolta nella sua vita quando, ricoverato forzatamente in ospedale psichiatrico, comincia a leggere e rimane folgorato dall’opera di altri due reclusi, Antonio Gramsci e Angela Davis, iniziando a unire i punti della propria storia. Ma ricostruirsi dopo essere stato privato della propria umanità è un processo difficile che, ammette apertamente, sarebbe stato impossibile senza le persone che si sono prese cura di lui e gli hanno offerto alcuni strumenti. Per chi viene dal suo mondo “Senza dubbio si tratta di un processo collettivo che, sebbene sia sotto la propria responsabilità, non può realizzarsi senza la solidarietà degli altri”.6

In conclusione vale la pena di interrogarci sulla forma di questo libro, a metà tra il memoir e il pamphlet politico. Forse non è ancora giunto il momento di grandi opere teoriche di sintesi all’altezza dei nostri tempi, anche se ne avremmo un gran bisogno. In questa fase di disgregazione, forse, dobbiamo continuare a seguire con empirica caparbietà i mille rivoli delle singole storie per capire come essi possano confluire nel grande fiume di una rivolta collettiva perché, altrimenti, rischiamo di ritrovarci a camminare lungo i letti di vecchi corsi d’acqua oramai essiccati.
È vero che la solidarietà coatta di cui ci parla l’autore di
Chav non è ancora un’espressione politica. Almeno non nel senso in cui lo era la solidarietà che dava vita alle vecchie comunità operaie e popolari con il loro carattere relativamente stabile e le loro espressioni culturali sedimentate. La solidarietà coatta sembra piuttosto un collante a presa rapida, in grado di agire velocemente di fronte all’urgenza, ma che perde celermente le sue capacità di creare e rafforzare i legami. È qualcosa di viscerale e di ancora prepolitico. La politica, però, senza questa visceralità diventa qualcosa di freddo e disincarnato. Senza questo sostrato profondo non può essere radicale perché perde la capacità di cogliere la radice delle cose e delle persone.


  1. D. Hunter, Chav. Solidarietà coatta, Edizioni Alegre, Roma 2020, edizione Kindle, poss. 140 e 493. 

  2. Ivi, pos. 130. 

  3. Ivi, pos. 602. 

  4. Ivi, pos. 152. 

  5. Ivi pos. 1610. 

  6. Ivi, pos. 497.