di Mario Boffo

Le grandi evoluzioni della Storia sono state spesso conseguenza di catastrofi: guerre, cataclismi, epidemie. Più correttamente, sono state tributarie delle catastrofi quelle evoluzioni che dovevano passare per la modifica o la rottura di preesistenti equilibri consolidati. Questo non vuol dire che le catastrofi intervengano a demolire situazioni socialmente, economicamente o internazionalmente armoniche ed equilibrate. Vuol dire invece che, calando come tremende tempeste su alberi già fragili e mal coltivati, contribuiscono a devastare la foresta, o almeno a darvi il colpo di grazia. Verso la fine della belle époque erano già evidenti i segni di sofferenza sociale dei paesi europei, mentre le “magnifiche sorti e progressive” decantate dalla filosofia e dall’economia positivista dei tempi facevano segnare il passo; la Grande Guerra spazzò quell’era di effimero progresso, facendone emergere le contraddizioni e le diverse risposte dei popoli: il comunismo in Russia, gli autoritarismi fascisti in Europa. La Seconda Guerra mondiale segnò per le nazioni europee (anche per quelle che formalmente furono tra i vincitori del conflitto) il declassamento da potenze internazionali a membri di alleanze da altri guidate, e per altri versi permise la sconfitta del fascismo e l’affermazione della democrazia, almeno in Europa Occidentale. La caduta dell’Unione Sovietica, infine, facendo crollare l’impalcatura bilaterale che aveva sostenuto i diversi concetti di libertà, di idee, di economia, anche mantenendo sui due fronti l’esempio o la minaccia di un’almeno potenziale alternativa, provocò l’abbandono di ogni idea socialista nella visione del mondo e nell’azione dei popoli e dei governanti, la pretesa “fine della Storia”, il trionfo di un liberismo esasperato, predatorio e senza freni che ha conquistato il mondo con la globalizzazione e lo sta devastando facendosi follemente catastrofe di se stesso. In epoche più antiche, le grandi epidemie, come per esempio la peste nera che infuriò in Europa nel XIV secolo, furono senz’altro foriere di grandi mutazioni sociali ed economiche.

Naturalmente è presto per capire se anche l’attuale pandemia dovuta al Covid 19 produrrà mutamenti di rilievo storico nella società umana, o almeno nel mondo occidentale. È presto, e non dobbiamo certo augurarcelo. Non possiamo nemmeno essere sicuri che “nulla sarà come prima”, secondo un auspicio o un timore che circola fra i molti commenti. Forse semplicemente l’epidemia finirà entro pochi mesi, prima di aver potuto attaccare a fondo gli equilibri e le teorie che oggi governano il mondo. Essa però sta già mettendo a durissima prova non solo la tenuta dei sistemi istituzionali, economici e internazionali, ma anche molti concetti di gestione della società che da tempo vengono proposti come dogmi, o come “mantra”, pur essendo paurosamente svuotati di contenuto e di significato. Quindi, non sappiamo se tutto o qualcosa cambierà, ma possiamo certo cominciare a guardare il “Re” finalmente nudo, spoglio delle arroganze e delle retoriche, del pensiero unico che ci è stato propinato per decenni. Propongo qui di seguito una libera e non esaustiva elencazione di pensieri, quasi un piccolo zibaldone di riflessioni di un periodo di isolamento, con la curiosità di vedere se e che cosa sarà diverso alla fine dell’emergenza.

Stato di diritto v. stato autoritario. Un commento che è spesso circolato è quello secondo cui la Cina ha potuto meglio contenere l’infezione grazie a propri metodi autoritari, mentre gli stati di diritto europei, impacciati dai vincoli della democrazia, sarebbero stati più lenti e meno efficaci. Corollario di questo commento è la sottintesa seguente considerazione: l’autoritarismo non sarà meglio della democrazia, almeno in situazioni di emergenza? Il ragionamento è ovviamente viziato; lo stato di diritto è sempre meglio dello stato autoritario. Il vizio del ragionamento risiede nel paragonare lo stato cinese agli stati di diritto non sul piano concettuale, ma su quello fattuale, che vede gli stati europei indeboliti da cinquantennali attacchi alla sovranità, da “deregulation” insensate al servizio del capitale finanziario e globalizzato, con poteri di governo parcellizzati fra enti territoriali in nome di una malintesa localizzazione del governo e della democrazia; e che vede le società europee inflaccidite da decenni di mala educazione, di fomento dell’edonismo consumistico, di infiacchimento della capacita di pensiero critico e di militanza civica. Va detto che poi, con l’incalzare del morbo e della paura, gli stati di diritto, soprattutto e primariamente l’Italia, hanno mostrato di saper prendere il toro per le corna, rendendo per fortuna evidente di possedere ancora risorse di valore. Allora bisogna portare il ragionamento sul piano concettuale, anche con il conforto di quanto appena detto. L’autoritarismo non è migliore dello stato di diritto, anzi, quest’ultimo è senza paragoni il miglior modello di governo, a condizione che mantenga o recuperi le proprie prerogative anche nella vita ordinaria, senza doverle far faticosamente emergere solo nei periodi critici. Quali sono i pilastri di uno stato di diritto, o, meglio, di uno stato democratico di diritto? Il mantenimento dell’univoco indirizzo politico; la coerenza amministrativa e fiscale del paese; la centralità e la pari distribuzione sul territorio governato dei servizi essenziali (sanità, educazione, servizi sociali, eccetera); la garanzia della sicurezza e della giustizia; il potere unico di ordinanza in occasione di periodo critici… Insomma tutte le cose che il “contratto sociale” di Hobbes delega al Leviatano, e tutto ovviamente sostenuto dai processi democratici e all’insegna della democrazia come fondamentale scelta di vita e di governo. Se certi paragoni con gli stati autoritari sono potuti sorgere, è solo perché oggi il Leviatano è vincolato dai mille “lacci e lacciuoli” dovuti all’assenza di sane regole economiche e fiscali, alla frammentazione del potere amministrativo, alla filosofia della globalizzazione che ne vanifica concettualmente l’esistenza e il senso. Lo stato di diritto dovrebbe tornare a essere sovrano (sovrano, non “sovranista”), cioè regolatore supremo della vita sociale: al proprio interno, procedendo a un riordino degli strumenti di governo (la decentralizzazione dei servizi è cosa buona, ma, almeno chi scrive, non vede la necessità che vi siano organi di governo territoriale che offrono servizi diversi allo stesso popolo e che sono in perpetua concorrenza con lo stato); all’esterno, incontrando gli altri stati sulla base di accordi, alleanze, cooperazione internazionale, collaborazioni nel comune interesse. Uno stato così concepito non è detto che debba essere necessariamente istituito su base nazionale: il sogno è ancora quello di uno stato europeo unito, democratico e socialmente orientato.

L’Europa. Il valore di un uomo si vede sul campo di battaglia, non attraverso le prebende di cui si è magari ornato. Se è così anche per le istituzioni, la sola conclusione che si può trarre dagli eventi più recenti è che l’Unione non esiste, o non esiste più, per i valori originari, per “fare l’Europa”, ma piuttosto per operare di fatto al servizio di soggetti e cause che circolano nel mondo e al proprio interno e che non coincidono né con la parità fra stati membri né con le cause fondatrici dell’attuale Unione. Risaltano infatti negli attuali orientamenti europei il favore per  i membri più potenti, l’ossequio ai dettami della finanza internazionale e delle istituzioni finanziarie internazionali, l’obbedienza alle multinazionali globalizzate, l’acritica autoreferenzialità della stessa burocrazia europea (vedremo se qualcosa cambierà, cioè se le misure in via di adozione sull’onda dell’emergenza siano i prodromi di una mutazione; ma a bocce ferme prima dell’epidemia, questi erano i fatti). Sia stato frutto di incapacità e supponenza, o di una deliberata azione lesiva dell’Italia in un momento di difficoltà, l’incidente di Christine Lagarde (che fece crollare le borse mondiali a metà marzo, dichiarando che la BCE non si sarebbe occupata di ridurre lo spread) non è che l’epitome del fallimento europeo rispetto alla visione dei padri. Il tema non è quello di stare in Europa o uscirne; il tema è piuttosto quello di capire se si possa ancora stare in quest’Europa, e a che condizioni, e dove un paese (non solo l’Italia) soffra di meno e abbia meno difficoltà. L’accelerazione della firma del MES (rientrata, ma solo temporaneamente), l’insistenza sul TTIP in questo momento, l’affossamento della borsa italiana da parte della BCE, sembrano essere azioni volte intenzionalmente all’accaparramento di quanto ancora di buono abbiamo nel nostro paese, al suo ulteriore indebolimento al fine di renderlo ricattabile e condizionabile (per esempio attraverso i meccanismi usurai del MES), o forse a costringerlo suo malgrado a uscire dall’Euro, e forse dall’Unione. Non sono un complottista: le dinamiche storiche si impongono senza bisogno di complotti; ma in un’alleanza come quella fondata da sei paesi europei settant’anni fa, certe “dinamiche” non dovrebbero essere permesse, né contemplate.

I “grandi sacerdoti” dell’economia globale. A livelli medi, alti e altissimi, e non solo in Europa, il “villaggio globale” è amministrato da una vera e propria corporazione: quella degli esponenti di vertice delle grandi istituzioni finanziarie europee e internazionali, delle grandi banche globali, delle grandi società internazionali di consulenza. Queste persone sono state in genere formate presso enti come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’OCSE, le istituzioni europee, i grandi istituti bancari come Goldman Sachs o J.P. Morgan, le società di consulenza globale come le Big Four (Pricewaterhouse & Cooper, Ernst & Young, Deloitte Touche Tohmatsu e KPMG). Spesso transitano da queste istituzioni internazionali o private negli organici degli stati, e viceversa (le cosiddette “porte girevoli” della politica”). Fanno il paio con il grande management delle multinazionali, e – poiché lo spunto di questo scritto è partito dall’epidemia del corona virus – menzionerei anche gli esponenti di vertice di Big Pharma. Questi personaggi si sono formati all’ombra dei dettati della Scuola di Chicago, del Washington Consensus, della teoria degli obiettivi (cioè del conseguimento ossessivo degli obiettivi scelti o assegnati passando sopra qualunque principio etico o morale, per così dire “con licenza di uccidere”). Essi hanno il loro corrispettivo a più basso livello nei vari paesi in moltitudini di manager e dirigenti che applicano gli stessi spregiudicati criteri all’interno di banche, di società pubbliche, di enti para-governativi. La selezione di queste persone è pretestuosamente basata sul merito. Ma su quale merito? Quello di una competitività cieca e spietata, volta solo al raggiungimento di obiettivi fissati da chi li comanda (in base ai quali sono pagati), in modo autoreferenziale e senza alcuna forma di empatia, di fedeltà istituzionale o talvolta neppure aziendale (manager e vertici migrano infatti in continuazione), senza alcun senso o buon senso politico. Provengono da scuole di pensiero economico spesso e volentieri utopiche e completamente avulse dalla realtà, delle quali si considerano i “grandi sacerdoti”, e sono consapevolmente o meno gendarmi al servizio dei grandi interessi globali. Operano in cordate e in fazioni in guerra fra loro, emergono e fanno carriera nella misura in cui siano funzionali ai predetti interessi. Hanno una grandissima influenza sul governo del mondo, e l’episodio della Lagarde ne è un esempio più che eloquente. Possiamo ancora permetterci presidenti della BCE che sfasciano le borse, di colossi farmaceutici che fanno ricerca solo nei settori giustificati dal profitto, di manager e dirigenti che affossano le banche traendo da ciò grandi guadagni, che dissolvono preziose risorse pubbliche per arricchire i privati, che operano in modo autoreferenziale al solo servizio di se stessi e di chi li dirige?

Il valore della competenza. La competenza di cui parlo ora non è certo quella dei “tecnici” di cui sopra, ma è quella vera. Abbiamo dovuto aspettare l’avvento di un morbo mortale per capire che la politica spetta alla politica, ma che questa deve valersi della scienza, della competenza professionale, delle conoscenze. Questo non vuole assolutamente dire che bisognerebbe avere governi tecnici. Tutt’altro. I governi devono essere politici, ma devono operare scelte suffragate dalla conoscenze, e questo non solo in periodi di emergenza. In Italia (e non solo) il tema della conoscenza, dell’approccio scientifico, di cui per fortuna ancora abbiamo splendidi esempi, non è stato minato solo dai recenti vaneggiamenti di una parte della società e della classe politica, ma anche da decenni di tagli alla scuola, all’università, alla ricerca, come se queste fossero cose di cui la società non ha più bisogno. Tagli che fanno il paio con quelli imposti alla sanità pubblica, in omaggio alle privatizzazioni e agli interessi dei poli medici privati e delle società di assicurazione, nella cervellotica idea che il “mercato” sia sempre e comunque meglio della gestione pubblica delle cose. Quousque tandem, dovremmo adesso dire ai sostenitori del “mercato”, a questo novelli perniciosi Catilina, abutere patientia nostra? Quanto a lungo ancora codesta follia si prenderà gioco di noi? Quando rinsaviremo per riportare allo stato le prerogative necessarie alla tenuta di un paese democratico e di un mondo equo e sostenibile?

Conclusioni. Niccolò Machiavelli riteneva che i fondamenti dello stato fossero il principe (l’ente sovrano), la milizia (intesa non solo in senso militare, in contrapposizione alle milizie mercenarie, ma anche come capacità di militanza civica, quella militare non essendo che una sua conseguenza) e una sorta di religione civica (con la quale intendeva l’etica pubblica, la legislazione nell’interesse generale, il rispetto sociale, il mantenimento degli impegni, la giustizia). Per Hegel, lo stato è la massima espressione dello spirito. Più modestamente, possiamo qui affermare che dopotutto la stessa nascita della civiltà umana come la intendiamo oggi è dovuta all’affermarsi di istituzioni statuali, per quanto primordiali, che grazie a risorse pubbliche e a governo sovrano, grazie alla formulazione di leggi sensate e organiche, grazie all’affermazione di regole di convivenza strutturate la cui infrazione era sanzionata, hanno permesso all’umanità di evolvere. Oggi tutto questo appare del tutto indebolito, a favore di soggetti privati, piccoli o giganteschi, in grado di vivere e comportarsi in totale autonomia da ogni regola o legge condivisa. Educati non più al civismo e al pensiero critico, ma all’edonismo e al consumismo, i popoli occidentali hanno perso la capacità di militare per la propria società, per il proprio stato, in definitiva per se stessi. Ai popoli sono stati concessi tutti i diritti cosiddetti civili, e altri ne verranno concessi, al solo scopo di privarli dei diritti più fondamentali: i diritti sociali (per dirla coi padri della costituzione americana, il diritto di essere liberi dal bisogno), e il diritto di partecipare alla cosa pubblica (con un voto non condizionato da vincoli precostituiti, con la critica, intervenendo negli oramai inesistenti corpi intermedi…). I popoli, che pretendono, anche giustamente, tutti i diritti, hanno in definitiva perso il senso del dovere, relegando questo valore a un passato fascista e nazionalista, salvo riconsiderarlo nei momenti di emergenza, o quando gioca la propria squadra di calcio, circostanze in cui in qualche modo tornano eroi. Ma… beato quel popolo che non ha bisogno di eroi, disse Bertold Brecht. Quindi, più che di popoli “eroici” nei momenti difficili, avremmo bisogno di popoli consapevoli e militanti anche nell’ordinaria e non meno importante vita quotidiana…