Una premessa: noi di Carmilla non seguiamo molto la letteratura/letteratura. Cerchiamo di chiarire. Non è un atteggiamento snob. E’ una questione di priorità. Abbiamo altre urgenze. Sì, perché siamo impazienti. E la letteratura/letteratura, per la quale, sia chiaro, nutriamo il massimo rispetto, è rivolta molto allo stile, all’interiorità dell’autore, a certi meccanismi di pensiero trasfigurato ecc. L’insieme di queste immanenze creano un pachiderma ermafrodito che si muove lento, quasi incurante dell’ambiente che lo circonda. Mentre la nostra impazienza è rivolta soprattutto al mondo, che va in malora sotto l’aggressione globale del capitalismo neoliberista, che ha dichiarato guerra al pianeta. Intendiamoci: impazienza non vuol dire fretta. Anzi, pubblichiamo molti saggi, pensosi, articolati, documentati. Significa urgenza, perché il mondo precipita a velocità vertiginosa. Prediligiamo il genere, vale a dire una forma letteraria disposta a farsi inseminare dal conflitto e dalle tematiche sociali, senza essere didascalica: testi più “bastardi”, più contraddittori, duri, popolari, ma anche teneri, dei romanzi di fascia “alta” creati da scrittori/artisti. Ovvero opere che sentiamo più vicine a noi redattori, perché come abbiamo già scritto, Carmilla è un gruppo di redattori, non un collettivo politico.

I due romanzi che presentiamo ci hanno convinto soprattutto per un aspetto: lo stile “vischioso”, come una ragnatela che intriga il lettore, lo cattura suo malgrado. Come se lo attirasse in una trappola. Certo non è spiegabile criticamente questo strano meccanismo. E non è escluso che sia sconosciuto agli stessi autori. Eppure una simile attrazione da pianta carnivora ci affascina, perché fa parte di quella follia diffusa, e anche creativa, del sottobosco under class che cerca di sopravvivere nella società del privilegio e dell’autoreferenzialità (MB).

L’ULTIMO DISCO DEI CURE di Massimiliano Nuzzolo

Arcana Edizioni, Roma 2020 pag. 171 € 15

(Romanzo di musica e di formazione. Il protagonista, un trentenne deluso dal mondo e da se stesso parte alla ricerca del passato perduto.)

(Secondo capitolo) Lui si sdraia sul letto. Ha appena scartato un Cd dei Bluvertigo comprato in special price. Osserva con attenzione la copertina bianca, quasi ci trovasse dentro risposte che gli altri non sanno capire, inizia a sfogliare il booklet anch’esso bianco mentre la musica si sparge nella stanza e la riempie.

Con un colpo di reni raggiunge la manopola del volume e prima di ricadere lo alza. Ora il suono si diffonde uniforme, attraversa le pareti.

Chiude gli occhi. E sente che insieme alla musica cresce in lui una strana sensazione, come di vuoto, che non fa male, ma gli toglie ogni volontà, e fa venire voglia di piangere. Una incredibile voglia di frignare, come un bambino sperduto in un ipermercato. Ma non piange, si limita a respirare profondamente.

Quando è in corso una crisi
Che cos’è mai una crisi?

Si alza di scatto, raggiunge la libreria in corridoio, afferra il vocabolario, stando in piedi lo sfoglia, B, Bene, Buco, C, Cantaro, Ciclo, Ciperacee, Coorte, D, Debrayage… Torna indietro. Cri…

Crisi: 1. Stato di perturbazione, di dubbio, di incertezza nell’equilibrio
di una persona o di una collettività.

Sì, descrive il suo stato, ma anche la definizione 5 potrebbe andar bene:

5. Fase di perturbazione, di squilibrio più o meno grave in campo economico
e sociale.

Richiude il vocabolario e con lo sguardo basso torna al letto, si lascia cadere sulle coperte in disordine, poi spegne lo stereo. Schiaccia la testa più forte che può in mezzo alle lenzuola che profumano ancora del recente bucato di sua madre, ma non cambia nulla.

Suona il telefono.

Lo lascia squillare, poi pigia l’eject, estrae il Cd, lo rimette nella custodia, apre la finestra, lo lancia fuori. E ride.

Ride, sì.

Perché non farebbe mai una cosa simile: ha troppo rispetto per i suoi Cd. Ride, perché si è comportato come un quindicenne. In fondo chi mai potrebbe comprare un disco e cercarvi dentro qualcosa? Solamente un ragazzino pipparolo e pieno di brufoli. Anche Mario, il suo amico fraterno, gliel’aveva detto, era stato cortese, ma lo aveva fatto sentire stupido, proprio come adesso. Ride, perché lui ha quasi trent’anni, una buona famiglia di ceto medio, una ragazza che gli vuole bene, due pasti caldi assicurati al giorno, vestiti puliti e stirati, un’automobile, anche se il fine settimana deve dividerla col fratello che torna a casa, insomma non gli manca niente.

O quasi…
Che cosa c’è che non va?

Una famiglia ce l’hanno tutti, no?! È una cosa normale. Come avere la ragazza, la macchina, i vestiti, il cibo garantito.

Avere quasi trent’anni…
Avere trent’anni…
Trent’anni…
Sono davvero tanti.
Troppi.
Insopportabili.
Trent’anni e non aver combinato nulla di buono.

VIALE DEI SILENZI di Giovanni Agnoloni

Arkadia Editore, Cagliari 2019, pagg. 131 € 15

(Un viaggio sospeso tra Varsavia, Berlino e l’Irlanda alla ricerca del padre scomparso)

(Incipit) Ancora quella sensazione.

Che tutto si stesse svuotando, risucchiato in un gorgo. Uno spazio oscuro, un corridoio d’ombra dove deboli bave di luce permettevano a stento di distinguere profili di oggetti. Come se la vita fosse scivolata in uno stato di apnea e per pochi, brevi attimi, le cose si mostrassero per com’erano quando nessuno le osservava: traslucide, prive di sostanza.

Mi capitava sempre più spesso, forse perche anch’io stavo diventando invisibile. Del resto, era questa l’impressione che ricavavo dagli sguardi della gente che incrociavo per strada. Una garbata, imperturbabile indifferenza.

Era cosi da quando avevo intravisto per la prima volta quella parentesi aperta: quella che tu avevi creato dentro di me, non so se prima o dopo essertene andato. Quando il calzino umido e appiccicoso del mondo aveva iniziato a capovolgersi, sfilandosi dai miei piedi indolenziti e lasciandomi nudo a contatto col suolo.

L’aria di Varsavia era una cenere immateriale e senza nome, che ben s’intonava con la mia inconsistenza; uniforme come il tono medio dei miei giorni, che ormai non contavo più. Il tempo mi si sfarinava tra le mani, che tendevo nello spazio per afferrare, fugacemente, soltanto luoghi.

Quella fuori dalla finestra era un’arteria trafficata. Percepivo il suo brusio di fondo, simile al suono del mare. Remoto, appartenente a un universo irraggiungibile. Come il passato, che a tratti si avvicinava alle mie sinapsi intorpidite, sfiorandole con uno stelo urticante e accendendo lampi di immagini nitide della vita di prima. Quella dove c’eri ancora tu, e che non avrei voluto ricordare. Osservai la mia stanza per un intervallo indefinito. Cominciava l’ultimo tratto di quel periodo di tre mesi che mi ero preso per stare lontano da tutti. E per scrivere. Un’opportunità offertami da un’istituzione culturale polacca, che mi era parsa una benedizione. L’occasione per far coincidere il mio bisogno di concentrarmi sul lavoro con l’esigenza irrimandabile di lasciare Firenze. Via dall’ombra del mio matrimonio finito. Via dagli spettri della città, e soprattutto dal tuo, immancabile fin dal giorno in cui eri scomparso.

La scrivania, che spiccava col suo dignitoso marrone sull’indaco pallido della carta da parati, era in ordine: il portatile, il mio taccuino degli appunti, una penna. Non avevo mai perso l’abitudine di scrivere prima a mano. Era una necessità fisica, di contatto con le cose. Mi aiutava a sentire che la realtà era ancora solida, che il macro contenitore nel quale mi muovevo in cerca di un significato non era prossimo a sfaldarsi in un’entropia di calcinacci. Cosi, con una gradualità costante, quel libro era venuto prendendo forma. Un romanzo che avrebbe dovuto riguardare tutt’altro, ma che aveva finito per parlare di te. O forse con te.

Mi riscossi. Non potevo più restare lì: avevo bisogno di uscire, di camminare. Mi chiusi la porta alle spalle con la sensazione di aver lasciato quella storia in custodia a una casa che non era mai stata – ne sarebbe diventata – veramente mia. Un ambiente anonimo, incaricato di conservare, per qualche ora, il nucleo del tuo segreto.