di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019, pp. 553, 28,00 euro

E’ una storia dal lato dell’ombra quella tracciata dal testo recentemente edito da Red Star Press e curato da Emilio Quadrelli. Di quel lato rimasto in ombra di un’esperienza, quella dell’Autonomia Operaia, poi diventata semplicemente Autonomia una volta perso l’aggettivo, di cui in compenso si è parlato tantissimo, sia a livello storiografico che politico e culturale. Una storia cui sono stati dedicati molti volumi, molte ricostruzioni, molte biografie e autobiografie; quasi quanto è stato fatto per quella che è rimasta, almeno nell’immaginario collettivo, la leggenda aurea della lotta armata in Italia: le Brigate Rosse. Con tutto il corollario di polemiche, illazioni e differenti interpretazioni soggettive che ne hanno accompagnato la leggenda mediatica e politica dal processo 7 aprile e dal rapimento Moro in poi.

Quadrelli, con il suo consueto stile efficace e incisivo, affronta di petto la questione e ricorda a tutti che da questa narrazione “monca” della storia dell’Autonomia (in particolare quella facente capo a «Rosso») è rimasta a lungo esclusa quella di una delle anime dell’Autonomia Operaia più vicine alla fabbrica, agli operai, alle condizioni di vita e all’immaginario politico che accompagnavano la classe nelle sue espressioni di lotta più avanzate e, al contempo, spontanee.

Non è pertanto una storia intellettuale quella che Quadrelli ripercorre nella sua stimolante introduzione alla raccolta dei nove numeri di «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti» usciti tra il giugno del 1975 e il settembre del 1977. Piuttosto è un’attenta riflessione sulle cause della messa in disparte di un’esperienza di lotta, riflessione teorica e organizzazione pratica che era sorta quasi spontaneamente dalle esigenze di una classe che, all’epoca, non intendeva affatto rimanere rinchiusa tra le mura delle fabbriche1 e nel recinto di un operaismo ortodosso che più che liberarla sembrava volerla trattenere in un mortifero abbraccio con gli interessi di crescita dei suoi oppressori, a causa di un determinismo di origine positivista che aveva fatto parte, per lungo tempo, del bagaglio politico e filosofico dei suoi teorizzatori.

Classe che a quel punto del tragitto intrapreso, dallo scaturire spontaneo delle lotte da Piazza Statuto e dall’autunno caldo in avanti, aveva visto le sue avanguardie interne giungere a quel rifiuto del lavoro che non stava a indicare soltanto il rifiuto della fatica e dello sfruttamento ma, nella sostanza, il modo di produzione capitalistico nel suo insieme: un modo di produzione di morte (come già nel 1976 Seveso e l’ICMESA avrebbero ben insegnato), di sottomissione di classe, di genere e di ghettizzazione sociale (anche se i ghetti iniziavano a mimetizzarsi da feste, festival o circoli del proletariato giovanile). Come il giornale nella sua breve ed intensa esistenza ebbe il modo di rimarcare e porre all’ordine del giorno.

Ordine del giorno che prevedeva soprattutto una ridefinizione del programma comunista e una discussione sulla forma partito che non intendevano affatto scimmiottare le precedenti (e perdenti) ipotesi ispirate dalle varie correnti storiche del marxismo ortodosso, ma che dovevano ri-nascere da ciò che lo scontro di classe di quegli anni aveva posto materialmente all’ordine del giorno. Soprattutto a partire dalle lotte di fabbrica e dalla loro estensione politica (e militare) sul territorio.

Ipotesi che mettevano al centro l’attenzione nei confronti della guerra civile come fase ineluttabile, intesa come porta stretta attraverso cui il movimento sarebbe dovuto passare nella sua lotta contro il capitale. Ipotesi che negava qualsiasi possibilità di convivenza tra forme di comunismo vissuto ancora in ambito capitalistico e mantenimento di rapporti sociali e di produzione fondati sulla mercificazione delle attività e dei bisogni umani e dello sfruttamento del lavoro. Soprattutto operaio.

E’ infatti proprio sulla questione del lavoro produttivo e del capitale variabile che si giocherà la partita definitiva con quell’area dell’Autonomia che si sarebbe dedicata, soprattutto a partire dal 1976/77, all’identificazione di nuovi soggetti sociali in grado di sostituire i lavoratori produttivi e la classe operaia, sia dal punto di vista economico che politico. Una sorta di “revisionismo” del pensiero marxiano che sarebbe partito proprio dai settori più ortodossi dell’operaismo precedente.

Quello che, affondando le proprie radici nella tradizione di Potere Operaio ben lontana dall’esperienza militante di Lotta Continua, aveva precedentemente predicato la separazione degli interessi e la funzione della classe operaia da tutti gli altri settori, soprattutto giovanili e studenteschi, che fin dal 1968 avevano iniziato a muoversi a fianco e con gli operai in lotta. In un’azione di stimolazione reciproca che i militanti di Senza Tregua, al contrario, riconobbero sempre come vitale e positiva.

La separazione definitiva tra l’ipotesi di organizzazione e riflessione radicale contenute nell’ambito del giornale e quelle ancora legate a quello che, nelle pagine di Quadrelli, potrebbe essere definito come una sorta di neo-riformismo dell’Autonomia intellettuale (forse ancora oggi leggibile in una parte dell’azione dei centri sociali, per cui troppo spesso il movimento sembra essere tutto e il fine nulla) avviene proprio sulla base dello scontro apertosi intorno all’ultimo numero della prima serie del giornale, quello del novembre 1976.

A quel numero sarebbe stato allegato un inserto scritto da Oreste Scalzone, intitolato Realismo della politica rivoluzionaria, che da un lato avrebbe marcato l’addio dello stesso al giornale cui aveva collaborato fin dall’inizio e dall’altro una definitiva rottura dei militanti che riprenderanno in mano e manderanno ancora avanti il giornale, con i due numeri usciti per la seconda serie nel maggio e nel settembre del 1977, con la strada che la tradizione operaista stava ormai imboccando.

Proprio nell’ultimo numero della prima serie si affermava:

Una composizione politica nuova caratterizza l’attuale fase dello scontro di classe in Italia. Fuori da una lettura “sociologica” dei comportamenti e della struttura di classe, un carattere politico nuovo emerge nella mutata composizione di classe che è frutto di elementi oggettivi e soggettivi presenti entrambi in modo determinante: l’antagonismo sociale diffuso, la riproduzione e massificazione dei comportamenti e dei bisogni operai a nuovi settori proletari si intreccia in maniera significativa alle forme in cui lotte, comportamenti e bisogni si sono espressi , ai momenti di combattimento praticati, ai livelli di organizzazione che hanno sedimentato. E’ [in] questo processo unitario, a volte contraddittorio ma interno al corpo di classe, in ci hanno agito da una parte il proletariato sociale e dall’altra – in maniera soggettiva – reparti avanzati di questo […] in queste lotte si è espressa una composizione di classe nuova, matura, rivoluzionaria […] Contro questo soggetto proletario rivoluzionario che può liberare bisogni comunisti, forza creativa e territori urbani, lo stato ha dichiarato guerra, si erge come puro strumento di dominio privo di qualsiasi prospettiva di sviluppo economico e di legittimazione sociale, votato alla formazione di una classe operaia militarizzata, obbligata ad erogare lavoro tramite comando.2

Il titolo della sottosezione dell’articolo recitava: Oltre l’Autonomia, un nuovo soggetto per il «Partito Operaio». Poiché la separazione d’intenti proprio nella costruzione di un soggetto politico-partitico nuovo, in una forma partito adatta ai tempi e ai bisogni organizzativi e ai compiti politici posti dalle pratiche di massa affondava le sue radici.

E’ questa coscienza anticipatrice dei compiti che attendevano il movimento che andava scaturendo e si sarebbe pienamente manifestato, pur con tutte le sue contraddizioni e travagli, proprio nel 1977 a rendere ancora oggi, in un clima di chiusura a qualsiasi ipotesi di trattativa e di inasprimento della repressione nei confronti dei conflitti socialie e, sostanzialmente, da guerra civile mondiale dichiarata dal capitale e dai suoi apparati repressivi e statuali nei confronti di tutti i movimenti che ne contestano ovunque il diritto al dominio, all’iniqua ripartizione della ricchezza prodotta e alla devastazione ambientale, estremamente attuale e interessante la rilettura delle pagine e delle riflessioni proposte dal testo curato da Emilio Quadrelli.

Soprattutto nel momento in cui l’incapacità e la scarsa volontà dei governi di provvedere al benessere e alla salute dei cittadini viene coperta e giustificata da un’ulteriore militarizzazione dei territori e della società. Aspetto non secondario che “Senza tregua” aveva già denunciato a proposito di Seveso nel 1976.

* Da leggere possibilmente utilizzando come colonna sonora Before The Deluge di Jackson Browne, nella versione dell’autore (1974) oppure degli irlandesi Moving Hearts (1981)


  1. Si veda anche Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019 (qui)  

  2. Lo scontro di classe ha già da un pezzo superato la soglia oltre la quale non risulta più componibile attraverso vie pacifiche. La guerra civile è la porta stretta attraverso la quale dovrà passare chiunque intenda sbloccare questa situazione in «Senza Tregua», 24 novembre 1976 ora in E. Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, pp. 280-281