L’ARSENALE DI SVOLTE DI FIUNGO di Loris Campetti

Manni Editore, San Cesario di Lecce 2020, pagg. 176 € 14

di Pierluigi Sullo

(Pierluigi Sullo è stato redattore del Quotidiano dei lavoratori, vicedirettore del manifesto a fianco di Luigi Pintor, fondatore e direttore della rivista settimanale Carta. Ha pubblicato diversi libri, tra cui La rivoluzione dei piccoli pianeti (Lastaria 2018), un romanzo ambientato nel ’68 che avrà un seguito la prossima primavera. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con Carmilla.)

l libro di Loris Campetti racconta, attraverso le avventure di Loris medesimo (il narratore), una vicenda che storicamente e politicamente si potrebbe collocare a fianco de La bomba, la ricostruzione della vicenda di Piazza Fontana fatta da Enrico Deaglio. Diciamo che si tratta di un tassello, nemmeno tanto minore, del mosaico di aggressioni e provocazioni, tentati colpi di stato e bombe con cui un grumo di fascisti e massoni, militari, agenti segreti e democristiani obliqui tentarono di fermare quel che si era messo in moto tra il ’68 e il ’69.

Nei primi anni Settanta venne rinvenuto, nelle Marche, un deposito di armi e altri attrezzi bellici, nonché una lista di terroristi rossi, così furbi da lasciare le loro generalità a disposizione di chi avesse “scoperto” l’arsenale, e un codice basato su un libro di Régis Debray, noto “filo-castrista”. Tra i nomi degli aspiranti combattenti c’era anche quello di Loris. La vicenda, giudiziaria e non, si trascina per molti anni, finché si scoprirà che le armi le aveva messe un carabiniere utilizzando manodopera fascista. Solo che nel frattempo una magistratura particolarmente ottusa incrimina Loris e altri tre, due dei quali finiscono in galera, mentre lui è costretto a una lunga latitanza. Fugge in varie parti d’Italia, finché viene scagionato una prima volta ma in seguito assurdamente processato (la macchina della giustizia è stupida ma inesorabile), un incubo che non sembra finire mai. Una storiaccia da anni settanta della “strategia della tensione”, molto sottovalutata, perché nel frattempo esplodevano bombe a Brescia e sull’Italicus, ma che aiuta benissimo a capire quale fosse il clima di quegli anni tanto diffamati (una intera società si muoveva, cambiava il paese, le leggi, i costumi, la democrazia stessa, e appunto la “tensione” serviva a disperdere e deprimere quel movimento, a immergerlo in un clima di paura e di violenza).

Però quello di Loris non è un saggio storico, è un romanzo. La cosa che spinge alla commozione (nel senso letterale, una vera empatia) è che l’intera vita di Loris Campetti, giornalista comunista e amico degli operai, che ha vissuto a Torino inseguendo la storia operaia di quella che fu una città-fabbrica, sembra appesa a questo scheletro: la persecuzione giudiziaria che ha subito senza ragione. Anzi, per una ragione: la mappa militare di una zona dove si sarebbero dovuti compiere gli attentati della banda terrorista immaginaria. Ma perché avevi in casa quella cartina? gli hanno chiesto tutti, tra il rimprovero e la diffidenza, per anni. Una cartina? Mi serve per andare a funghi, rispondeva lui. Tra l’altro si comprano, quelle mappe, nel negozio apposito dell’esercito. Macché, c’era la cartina. Questo bastava.

Così è fuggito dal suo paese, Macerata, e dall’università in cui si era laureato e dove aveva partecipato a un ’68 molto vivace, Camerino, per andare prima al sud, in Salento, poi a Roma. E i suoi anni di formazione, diciamo così, sono stati sempre sotto l’ombra minacciosa e incomprensibile di quella inchiesta. E anche quando viene una prima volta scagionato, e poi deve partire per il militare, passa i suoi guai perché il suo dossier personale lo insegue, e lui non cessa, cocciutamente, di far politica, ad esempio nel movimento dei soldati (fenomeno tanto grande quanto dimenticato).

Ma insomma leggetevela questa storia, perché non è solo istruttiva, è soprattutto una storia di vita. Ci conosciamo da molto tempo, Loris e io. Siamo diversi, e siamo amici, abbiamo lavorato insieme per oltre vent’anni al manifesto, eppure mi sono sorpreso, leggendolo, inseguendolo per San Lorenzo, a Roma, o nelle periferie torinesi. Un uomo come lui, così alieno alle smancerie, ha narrato una vicenda persino tenera.

(Post scriptum. Ho una ragione personale, per apprezzare il libro di Loris: io stesso, dopo aver pubblicato La rivoluzione dei piccoli pianeti, ho scritto un seguito ambientato nel 1974 che uscirà il prossimo maggio. Molto difficile diradare la nebbia su quel periodo. Ho faticato molto.)

LA BUONA EDUCAZIONE DEGLI OPPRESSI, di Wolf Bukowski

Alegre Roma 2019 pagg. 160 € 14

di Mauro Baldrati

Un libro utile. Anzi, necessario per capire. Può essere un manuale per navigare nel sistema di canali dove scorre l’acqua inquinata della demagogia, alla ricerca di una via d’uscita. Perché capire il nemico è indispensabile per combatterlo.

La navigazione che ci propone l’autore ricorda il celebre Viaggio al centro della terra di Jules Verne. Romanzi avventurosi, densi di sorprese e apparizioni spaventose che sbucano da tempi remoti, mostri voraci e aggressivi che popolano i nostri incubi.

Romanzi? Ma questo libro è un saggio. Un pamphlet. Vero. Ma per l’intensità del procedere, e per gli scenari che esplora, assume i contorni di un romanzo di avventure noir. Il nero delle grandi, meschine menzogne che quotidianamente il potere del nuovo capitalismo neoliberista esercita sull’immaginario, le paure e i desideri degli abitanti delle città. Trasformando le vittime in complici dei carnefici.

La trappola continua a scattare da secoli, decine di secoli, sempre la stessa: seminare paura tra la popolazione, confondere la percezione (imposta) con la realtà, tenerla in uno stato di tensione perenne per poi proporre dei rimedi che agiscono sulle corde di queste paure come promesse rassicuranti. E funziona. Funziona sempre.

Con precisione implacabile Wolf Bukowski analizza queste paure, blandite col linguaggio rozzo, minaccioso del potere, un misto di menzogne e verità reticenti, apparenza e mistificazione. Ogni capitolo è una specie di racconto, la sezione di un’opera che potrebbe anche intitolarsi Teoria dello spavento. Tutto sembra partire nel 1994, l’anno zero, l’elezione di Rudolph Giuliani come sindaco di New York e la sua tolleranza zero. Un insieme di normative che hanno fatto andare fuori di testa molti sindaci nostrani, che l’hanno citata, copiata, incorniciata. Un’occasione, finalmente, per mostrare i muscoli, o meglio, nella loro fantasia, “le palle”. Nel 1999 il sindaco di Forza Italia Albertini e di Napoli Bassolino vanno in pellegrinaggio a NY per imparare la zero tolerance. Basta criminalità di strada. Basta mendicanti, sbandati, pazzi, gente sporca, maleducata. Basta vagabondi che dormono sulle panchine. Inventiamo le panchine antibivacco, con un traverso che le divide in due, così non potranno più stendersi (Pag.118). Le città sono abitate da gente perbene. Cacciamo quelle permale. Li multiamo, li arrestiamo, li mandiamo… dove? Questo è un dettaglio che non compare mai nella prosopopea dei vari sindaci legalitari. Non si possono cancellare. Forse nascondere. Per un po’. Ma poi tornano, sempre più numerosi, perché sono i prodotti di un sistema che produce disuguaglianza e sfruttamento. Nessun problema. I sindaci cazzuti, indifferentemente che siano leghisti o del PD, alzano la voce, promettono pulizia, decoro, ordine.

Questo libro li segue, li archivia, riporta le loro ordinanze, le analizza. E le smonta. Non ci sono i soldi è una delle parole d’ordine usate come arma contundente per giustificare i tagli al welfare, che costituisce una della poche possibilità di sopravvivenza per il popolo della under class: “Che non ci siano i soldi per il welfare lo si ripete da quarant’anni incessantemente; eppure, cancellata ogni prospettiva storica , questo assunto è presentato sempre e di nuovo come un’urgenza del presente, quando basterebbe appunto accostarlo ai dati dell’arricchimento dei ricchi per dimostrarne la fallacia.” (Pag. 52)

In una narrazione che in certi punti assume sfumature horror Wolf Bukowski segue la creazione del nemico, della sua criminalizzazione, del suo fallimento, in quanto non ha saputo essere vincente, secondo le regole del merito. Sì, i poveri sono dei falliti, perché non sono diventati dei cittadini perbene e benestanti. E fanno schifo. Tra le varie citazioni spunta un post su FB del 2019 del mitico sindaco leghista di Trieste Paolo Polidori: “Sono passato in via Carducci, ho visto un ammasso di stracci buttati a terra… coperte, giacche, un piumino e altro; non c’era nessuno quindi presumo che fossero abbandonati: da normale cittadino che ha a cuore il decoro della sua città, li ho raccolti e li ho buttati, devo dire con soddisfazione, nel cassonetto: ora il posto è decente! Durerà? Vedremo. Il segnale è: tolleranza zero! Trieste la voglio pulita! P.S. sono andato subito a lavarmi le mani.” (Pag. 33).

Così, en passant, ha distrutto la casa di un senza tetto. Un gesto particolarmente abietto, anche per questi mutanti della specie, infatti subito dopo puntualizza, con una tracotante guasconata: “Si scatenino pure i benpensanti, non me ne frega niente.”

Questo libro è utile per tutti, anche per noi, che siamo, o dovremmo essere sensibilizzati: infatti quante volte, durante le varie peregrinazioni in città, all’uscita dai supermercati, veniamo abbordati da ragazzi, soprattutto di colore, che ci tagliano la strada col berretto in mano, o insistono per venderci libri di fiabe africane? Una volta, quando mia figlia era piccola, ne ho comprato uno, pregando il ragazzo di darmelo non violento, una fiaba tenera e divertente. E lui nooo! Questa fiaba bella! Una volta a casa l’ho aperto: iniziava con una bimba divorata da un leone. Talvolta sbottiamo, pensiamo che non se ne può più!

Wolf Bukowski ci aiuta a restare lucidi, a controllare il nervosismo, del quale siamo già invasi per conto nostro, perché ci racconta, ci chiarisce come stanno veramente le cose. Così La buona educazione degli oppressi diventa anche un prezioso manuale di salute mentale.