di Ottone Ovidi

L’utilizzo dei materiali d’archivio audiovisivi è materia complessa, piena di incognite, che l’obiettivo finale sia un documentario o un film di finzione, sempre in bilico tra il rischio di scadere nello sterile esercizio di stile e il risultato retorico. Riescono egregiamente nella sfida i registi Federico Ferrone e Michele Manzolini con il loro ultimo lavoro, Il Varco, dopo la realizzazione, sulla stessa lunghezza d’onda, della loro precedente opera Il treno va a Mosca, affiancati da Wu Ming 2 in fase di scrittura. Il film è composto principalmente da materiali provenienti dagli archivi dell’Istituto Luce e dell’Home Movies – Archivio Nazionale dei Film di Famiglia, che vanno a (ri)comporsi nel viaggio che l’anonimo (ma allo stesso tempo collettivo) soldato protagonista, di cui sentiamo solo la voce, intraprende insieme a migliaia di commilitoni verso il fronte orientale per partecipare all’invasione tedesca dell’Unione sovietica.

L’opera, completamente di finzione su immagini reali come hanno dichiarato gli stessi autori, partecipa di quel rapporto mai risolto tra ricerca storica e opera cinematografica, dove si ibridano e si sovrappongono memoria e realtà, finzione e realismo, e che si affianca al dibattito che in questi stessi tempi sta attraversando il mondo della letteratura: l’uso dei documenti e delle testimonianze, la ricerca di una verità fattuale, alla base di molti romanzi storici contemporanei, non ha rafforzato la capacità di comprensione del passato che, anzi, viene continuamente frustrata dal tentativo di “scacciare” le ideologie dalla cultura. Questo tentativo di risignificare i materiali d’archivio fatto da Il Varco risulta coerente con una necessità che il cinema italiano sta esprimendo negli ultimi anni. Basti pensare che, rimanendo solo nell’ambito dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, sono stati presentati altri film che utilizzano, seppure con risultati molto diversi, pellicole dal passato, come Scherza con i fanti di Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna e Martin Eden di Pietro Marcello.

La storia narrata in questo film si può leggere su più livelli che si intersecano tra di loro, tenuti insieme dal varco tra passato e presente che fornisce il titolo all’opera, varco che non si manifesta solamente, come è stato sottolineato da alcuni, nell’apertura alla fisicità dei luoghi dell’Ucraina contemporanea, teatro di una nuova guerra, dove sono state girate le uniche sequenze non d’archivio – felice la scelta di desaturarle per evitare un contrasto troppo netto con il b/n delle immagini di repertorio – ma nella dimensione del destino ineluttabile e la lotta per la scelta. La necessità del libero arbitrio, che accompagna la riflessione di uomini e donne da millenni, si ripropone qui nel percorso del protagonista, prima trascinato e poi, forse, diretto attore dell’ultimo tentativo di rimanere umano che gli è rimasto. La guerra che per lunghi tratti è assente, si mostra, almeno inizialmente, solamente in alcuni cannoneggiamenti, così come assente è il nemico in armi. Presenti e corporei sono invece i prigionieri sovietici, gli ebrei costretti ai lavori forzati, i cui volti si mescolano ai volti sorridenti dei soldati italiani, mentre il protagonista comincia a vacillare di fronte all’evidenza della tragedia in corso.

Nel gioco continuo di rimandi tra il fronte e la casa lontana, si vanno accumulando sogni, ricordi e speranza, ormai indistinguibili gli uni dall’altra, che vanno a formare una realtà sognata o un sogno realistico, simili alla narrazione di una fiaba, come quella russa che apre il film, ispirata al mito di Faust, da sempre al centro delle riflessioni russe sull’essere umano come nel Faust di Aleksandr Sokurov. Non esiste una sola realtà che possa spiegare chi sia la donna rimasta in Italia, che rapporto abbia con il protagonista, e quindi come sia potuto nascere un bambino, a rappresentare forse quello che non si sarebbe più potuto verificare, spettro di un futuro mai giunto. Perché il film si interrompe non con la fine della guerra, o con la morte dichiarata del protagonista. Ma semplicemente sembra che il suo pensiero si dissolva, circondato dal gelo della pianura russa, in immagini di una campagna rinata che può essere sogno, speranza o realtà, lasciandoci una sensazione di vuoto profondo, nel terrore dell’infinito inverno che tutto avvolge.