di Luca Cangianti

Ci provano con un cric, non funziona. Ritentano con un frullino. Segano una sbarra, entrano nel locale, portano via computer, denaro, giochi di società, mettono tutto sottosopra. È la notte tra il 29 e il 30 novembre e l’obiettivo è ancora una libreria indipendente romana che porta il nome di Giufà, un personaggio presente nella tradizione orale del mediterraneo, una figura ponte. Avevano già colpito nel 2018 e sono tornati. Sono tempi duri a Roma per chi cerca di sviluppare progetti di prossimità che sottraggano i quartieri alla logica del dormi-lavora-consuma. Non a caso è proprio del 2 dicembre la notizia che la Pecora elettrica, un’altra libreria indipendente di Centocelle, dopo il doppio incendio del 25 aprile e del 5/6 novembre, non riaprirà. Nel frattempo altri locali continuano a prendere fuoco, a essere vittime di furti o semplicemente a chiudere, come la storica Libreria del Viaggiatore in via del Pellegrino. In alcuni casi sono ipotizzabili logiche di controllo criminale del territorio, ma nel complesso non c’è bisogno di un esplicito filo d’Arianna che colleghi tutti i singoli fatti in chiave complottistica per capire che rischiamo un futuro urbano distopico, deprivato dell’elemento sociale e conviviale. Una massa di elettori e di consumatori singolarizzati, senza comunità, senza riti, canzoni, muretti, piazze e contatto diretto, si governa meglio. E ciò che non è governabile lo si lascia alle cure dello psicologo o a quelle del poliziotto, a seconda delle fasce di reddito in questione.

Francesco Mecozzi

«Eravamo un piccolo gruppo di trentenni e venivamo da percorsi universitari diversi», racconta Francesco Mecozzi. «Facendo formazione nelle scuole ci siamo accorti della centralità del libro. Così abbiamo fondato una cooperativa e aperto i battenti nel 2005, quando a San Lorenzo c’era solo un’altra libreria generalista. Era un mondo diverso: in via degli Aurunci c’erano botteghe di fabbri, falegnami, tipografi, ceramisti, e perfino un teatrino per bambini. Adesso invece la gentrificazione avanza perché non c’è protezione per attività come le nostre.»
La zona in effetti ha subito una metamorfosi radicale da quando era il baluardo della contestazione studentesca e popolare negli anni settanta, con le decine di sedi politiche e di centri culturali che si affacciavano sulle vie. Oggi il quartiere è rappresentato dai media come crocevia della movida notturna e del controllo criminale del territorio. «Ciò nonostante San Lorenzo è ancora un quartiere vero, a differenza di altre zone della Capitale devastate dalla ristorazione mordi e fuggi e dall’onda d’urto di Airbnb. Ci sono scuole, asili nido, il mercato, l’università e negozi a conduzione famigliare. San Lorenzo è un monumento consumato dal tempo che la natura sta ripopolando con nuova vegetazione: si tratta in particolare di ex studenti che ci avevano abitato da fuorisede e poi hanno deciso di tornare con la famiglia, oppure persone che scelgono di viverci in maniera mirata, perché questo quartiere ha ancora un posto ben definito nell’immaginario collettivo.»
Nei suoi quindici anni di attività la Libreria Caffè Giufà ha ospitato più di mille e duecento tra presentazioni, dibattiti e reading. Mi ricordo delle prime presentazioni di Zerocalcare con una fila di ragazzi e ragazze che arrivava fino a fuori la porta. Tutti gli chiedevano di personalizzare il libro di fumetti con un disegnino e lui si massaggiava il polso indolenzito. Chiedo a Francesco altri nomi noti. Vengono fuori Claudia Durastanti, Nicola La Gioia, Cristian Raimo, Makkox, gli statunitensi Rick Moody e Charles Burns, lo spagnolo Paco Roca, l’americana di origini messicane Sandra Cisneros e la messicana Valeria Luiselli. Ricordo poi la prima presentazione di 108 Metri dello scrittore working class Alberto Prunetti: si svolse proprio qui, nell’ambito di un talk show organizzato dal Gruppo di Studio Penequo, cui seguirono gli incontri con altri autori di “Carmilla” quali Gioacchino Toni e Sandro Moiso.
Ogni volta che entro da Giufà trovo studenti che preparano esami sorseggiando tisane, qualche passeggino parcheggiato tra i tavolini disposti accanto agli scaffali, appassionati di fumetti con il naso dentro un volume a copertina rigida. Poi nel tardo pomeriggio spesso compaiono un paio di microfoni, cominciano a circolare calici di vino e s’inizia a parlar di saggi, romanzi e graphic novel. I passeggini cambiano angolazione e molti dei presenti si fermano a sentire mentre arriva altra gente. Scattano i saluti, gli abbracci di chi non si vede da tempo e ci si guarda intorno per conquistare una sedia.
«Negli Stati Uniti le librerie indipendenti sono in grande ripresa», continua Francesco. «A Roma, negli ultimi anni, da quattrocento si sono ridotte alla metà, però credo che anche qui si possa assistere a una rinascita se saremo capaci di costruire un tessuto sociale e immaginario dove i libri, insieme agli autori e ai lettori, possano contribuire a creare una vita migliore.»

Uscendo noto il bel pavimento a scacchi della libreria. È un indizio chiaro: originariamente il locale era un’officina. Mi immagino quel fabbro o quel ceramista novecentesco che terminato il lavoro andava a bersi un bicchiere di bianco in un’osteria vicino alle mura o lungo la via Tiburtina. Me lo immagino nel 1922 tra il popolo che bloccò l’ingresso degli squadristi durante la marcia su Roma; poi a scavare a mani nude per tirar fuori morti e feriti dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale e infine a sognare un mondo migliore insieme ai partigiani. Esco dal negozio e me lo ritrovo di fronte, baffuto: attraverso la vetrata guarda i libri con le mani sui fianchi e sorride con aria d’approvazione.