[Il 2019 è il cinquantesimo anniversario della morte di Jack Kerouac, avvenuta il 21 ottobre 1969. E’ uno scrittore ancora attuale? Resta qualcosa dello straordinario flusso artistico-letterario che ha finito per essere uno stile di vita, un tipo di contestazione soprattutto esistenziale? I “beat”, ha detto Allen Ginsberg, in realtà non esistevano. Erano un gruppo di amici che volevano scrivere e pubblicare le loro cose. E soprattutto volevano vivere, essere liberi nell’America puritana e rigida del dopoguerra. Tutto è venuto dopo. Quel viaggio senza fine (e senza scopo, come ha detto Bob Dylan, un beat pentito), quella ricerca dell’innocenza perduta è esplosa come una coscienza collettiva, una reazione ipervistalistica e disperata alla solitudine pubblica che abbracciava i giovani di tutto il mondo occidentale come una creatura mortifera. E lo stile di Kerouac, che, non dimentichiamolo, era un letterato finissimo, ha “spaccato” gli stili di intere generazioni di scrittori. Basta leggere alcuni libri di Tondelli.

Sull’attualità, e l’inattualità, di Jack Kerouac pubblichiamo la testimonianza di una delle ultime scrittrici beat italiane, Dianella Bardelli. MB]

Attualità e inattualità di Jack Keoruac
di Dianella Bardelli

Ci sono scrittori che sono attuali, anzi necessari proprio perché inattuali rispetto al nostro presente. Sono come un faro che indica la strada in periodi di confusione come quello che stiamo vivendo. I sentimenti, le emozioni, i valori che trasmettono (senza volerlo, spontaneamente) derivano dalle storie che raccontano e dal tipo di relazioni tra i personaggi. Nel caso di Kerouac, ciò che è ancora necessario è la spericolatezza della sua scrittura. I rischi che continuamente si prende a partire da On the road, per inventare una nuova lingua letteraria che gli permetta di esprimere il suo mondo interiore, il senso dell’amicizia, la curiosità, ma anche un mare di disperazione.

On the road non è il romanzo del “come eravamo”, ma del come potremmo essere. Non è attuale, a mio parere, ciò che semplicemente parla dell’oggi, bensì ciò che ci riporta alla parte più profonda di noi stessi e che abbiamo perso di vista. Per me un romanzo, una poesia, un film sono attuali se chiedendomi “mi riguardano?” la risposta è sììì!

Sono passati più di 60 anni dalla prima pubblicazione di On the road. Era il 5 Settembre del 1957, ma per me è come se fosse ieri. Kerouac non è il frutto del passato, del suo passato storico, ma la materia viva di una mente che ha attraversato indenne i decenni, e ne attraverserà ancora molti altri. Perché? Perché il suo è il racconto epico dei tempi moderni e per quanto mi riguarda punto di riferimento di quel “rimaniamo umani” di cui abbiamo così bisogno oggi. Nel saggio Jack Kerouac e la composizione di Sulla Strada che appare come introduzione in Jack Kerouac/On the road – il rotolo del 1951, Howard Cunnell dice una cosa importantissima: “Assai più che una guida per hipsters Sulla strada è una ricerca spirituale… gli interrogativi che si pone sono gli stessi che ci tengono svegli la notte e scandiscono i nostri giorni. Che cos’è la vita? Cosa significa essere vivi mentre la morte è ai nostri calcagni? Potrà la gioia togliere di mezzo le tenebre?” In On the road questa ricerca punta all’unica – forse – modalità in cui si cerca se stessi: viaggiando. E con chi? Soli, o con un amico.

Kerouac aveva già scritto sei dei suoi capolavori più importanti prima di veder pubblicato On the road nel 1957, dopo che fu costretto a “normalizzare” la versione del 1951. Quando iniziò a pensare al romanzo decise che quella storia aveva bisogno di un nuovo modo di raccontare. Doveva essere la scrittura dei tempi moderni, così come il jazz di Dizzy Gillespie e Charlie Parker lo era per la musica, e l’espressionismo astratto di Jackson Pollock per la pittura.

Nell’America degli anni Cinquanta, ciò che stava accadendo tra i giovani artisti era che la coscienza diventava la protagonista dell’arte. Attraverso i fatti, i luoghi, i personaggi si rappresentava direttamente la condizione della mente, la vita interiore. Dall’esterno del sé si raccontava l’interiorità, senza mediazioni, senza censure. Kerouac voleva raccontare l’America dei “battuti e beati”, l’America dei giovani emarginati del secondo dopoguerra. Per fare questo, lavorando duro, inventò la prosa spontanea, che teorizzò nei saggi contenuti in Scrivere Bop, e in una miriade di articoli pubblicati sulle riviste dell’epoca. La prosa spontanea è il racconto della vita in diretta. E’ l’unità di mente e corpo mentre agiscono. Fu una grande scoperta. L’essere umano tornava a quell’unità originaria e innata di corpo e spirito che la società tiene separati.

Dopo aver scritto La città e la metropoli (il solo che gli fu pubblicato poco dopo averlo scritto, nel 1950), Jack si accorse che lo stile tradizionale che aveva appreso da Tom Wolfe e William Saroyan non gli bastava più. Ha dovuto creare un romanzo di 1000 pagine per rendersene conto. Qualcosa macinava, e maturava in quelle sedute alla macchina da scrivere che duravano tutta la notte. C’era un sotto testo che stava sbocciando, che avrebbe dato luogo alla tecnica dell’improvvisazione nella scrittura.

Oltre che dall’insoddisfazione rispetto al suo modo originario di scrivere, la tecnica dell’improvvisazione nasce da altre sollecitazioni. Prima di tutto dal Bop, suonato dai musicisti che Kerouac andava ad ascoltare nei locali di New York come il Minton’s: Dizzy Gillespie, Charley Parker, Thelonious Monk, Lionel Hampton. Jack li ascoltava e pensava: posso scrivere come loro? Posso trasferire sulla pagina quell’energia, quella fatica, quella bellezza? Presto divenne per Jack un’ossessione. E poi c’era la lettera di 40 pagine che il suo amico Neal Cassady gli aveva scritto. Quel testo di migliaia di parole era un grande, unico paragrafo che parlava della strada, delle sale da biliardo, delle camere d’albergo e delle prigioni di Denver. Ed è allo stile e al contenuto di quella lettera che si ispirano le storie raccontate in On the road. Senza quella lettera e senza i viaggi per l’America fatti a fianco di quel grande affabulatore che era Neal, Kerouac non sarebbe diventato lo scrittore che conosciamo. Il cowboy furiosamente entusiasta delle strade d’America divenne non solo un amico ma soprattutto un mito idealizzato, musa ispiratrice di una parte consistente della sua produzione letteraria.

In Kerouac non c’è trama, cronologia, filo logico. La scrittura ha una funzione completamente diversa, è l’estremo tentativo di “confessare tutto a tutti”. Questa fu la sua grande presunzione.

Il suo nuovo modo di scrivere fu fatto proprio da Allen Ginsberg, che lo trasferì nella poesia. Intorno a lui e a Kerouac si formò una cerchia di amici, come Burroughs e Corso, il cui interesse principale era scrivere, fare bisboccia, viaggiare, frequentare donne e locali. Questo fu la beat generation. Un gruppo di amici che insieme cercarono e trovarono un nuovo modo di esprimersi. E questo è un punto importante, che ne fa un aspetto attualissimo: sperimentare, cercare la scrittura dove apparentemente non è, nelle strade, nelle persone che vediamo per caso, quel “fuori” di noi che finisce per essere “dentro”.

Oggi io leggo romanzi piacevoli, anche belle poesie, ma se voglio davvero tornare alla parte più profonda di me stessa devo rileggere ancora e ancora Sulla strada, Visione di Cody, leggere le astruse poesie di Kerouac, anche quelle brutte, perché sfogliando i suoi Schizzi e i suoi haiku, la perla la trovo sempre. Non so cosa sia rimasto in America di quel movimento letterario definito beat generation. L’ultimo poeta beat che ho avuto l’onore di conoscere è James Koller, morto nel 2014. In Italia con la morte della Pivano dei beat e di quello che hanno rappresentato che io sappia non è rimasto niente.

(Dianella Bardelli scrive romanzi e poesie; ha insegnato lettere e guidato corsi di scrittura creativa. Appassionata di letteratura beat e hippy, soprattutto di Kerouac, Ginsberg e della poetessa americana Lenore Kandel. Ha pubblicato i romanzi Il bardo psichedelico di Neal, ispirato alla figura di Neal Cassidy e Verso Kathmandu alla ricerca della felicità. E’ appena stato pubblicato presso Parallelo 45 Edizioni, il suo romanzo 1968, sulla Bologna di quel periodo.)