Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, pp. 240, euro 18,00

[E’ difficile, ancora a distanza di decenni, vedere affrontata la storia della lotta armata e delle sue organizzazioni in Italia senza che questa sia ammantata da una serie di paramenti sacri ideologici o di memorie giustificazioniste che rischiano, quasi sempre, di far affondare la Storia in un mare di problematiche etiche, morali o di appartenenza settaria politico-partitica e che finiscono coll’eludere la questione principale: ovvero come sia stato possibile che il fenomeno della lotta armata in Italia (non unico nell’Occidente di quegli anni) abbia visto l’adesione di un numero altissimo (questo sì unico) di operai alle sue organizzazioni, sia principali che secondarie.
Ed è invece proprio quello che cerca di fare Chicco Galmozzi con un testo che, nel ricostruire la genesi delle formazioni armate legate a quella che sarebbe poi diventata più nota come Prima Linea, concentra proprio l’attenzione su come tale iniziativa avesse preso forma proprio all’interno della classe operaia e delle sezioni operaie di Lotta Continua, a partire da quella di Sesto San Giovanni. Rivelandosi come uno dei migliori testi pubblicati fino ad ora sulla storia della classe operaia e delle sue lotte nel corso degli anni Settanta. Si potrebbe dire, forse, la Storia che ancora mancava di quella fase della storia della lotta di classe in Italia.
Un’interpretazione che manda a monte sia l’idea dell’ineluttabilità di ogni scelta che quella marxista-leninista, più vicina a quella delle BR, della coscienza importata nella classe operaia dall’esterno ovvero da avanguardie, rivoluzionari di professione e, in ultima analisi, da un’organizzazione politica pregressa.
Qui di seguito vengono presentati due estratti dal testo stesso, il primo tratto dall’introduzione curata da Marco Grispigni e il secondo direttamente dalle pagine di Galmozzi. S.M.]

Il libro di Enrico Galmozzi è importante e utile. Come dice il sottotitolo racconta quello che condusse una serie di persone, soprattutto operai, quelli che un tempo venivano definiti «avanguardie di fabbrica», da Lotta continua alla scelta della lotta armata, e infine alla creazione dell’organizzazione Prima linea. Potremmo dire, seguendo il modello di Guerre stellari, che il libro narra il «prequel» della storia di Prima linea.
Di libri di memorie di chi in quegli anni fece la scelta della lotta armata siamo pieni: pentiti, dissociati, irriducibili un po’ tutti hanno contribuito a questo filone che, specie nei primi tempi,
incontrava un certo interesse del pubblico, alimentato anche dalle campagne forcaiole di gran parte della stampa. «Non hanno diritto di parola», «Devono tacere e ringraziare la magnanimità dello Stato» erano le affermazioni ripetute sulle pagine di giornali e riviste – e sto citando le frasi più «garantiste».
Personalmente, come studioso di quegli anni, anche se non fossilizzato sulle vicende della lotta armata o terrorismo, a seconda di come si decida di nominare quelle vicende, ho sempre pensato che i libri di memoria sono per lo storico un’utile fonte, una delle tante che occorre incrociare per ricostruire il senso e le vicende di qualsiasi periodo. Alcune di queste memorie possono essere particolarmente interessanti offrendo allo studioso il punto di vista, le motivazioni, le reazioni al concatenarsi degli eventi, e spesso le riflessioni a posteriori, di chi visse in prima persona quelle vicende, oltre l’accesso a fonti dimenticate o più difficili da trovare. In altri casi prevale invece il fastidio, specie quando prevale l’approccio autobiografico giustificativo nel quale, indipendentemente dal pentimento o meno per quello che si è fatto, si propone una chiave di lettura univoca di quelle drammatiche vicende. Mi riferisco ai non pochi libri in cui il proprio percorso individuale che dai movimenti (quali che fossero) arriva alla scelta della lotta armata viene letto come un percorso ineluttabile, che va nel senso della storia, per cui l’esito della lunga stagione dei movimenti non poteva che essere la sfida estrema, armata, allo Stato. Questa interpretazione, che nella versione «non pentita» continua a circolare in alcuni ambiti della cosiddetta «sinistra antagonista», mi sembra una ripetizione, in chiave di farsa come diceva il Moro di Treviri, di quelle letture dominanti nella storiografia di fede e osservanza comunista (nel senso del Pci) che leggevano tutta la storia delle prime forme di organizzazione operaie e contadine come l’inevitabile cammino verso i sindacati legati ai partiti storici della sinistra, il movimento operaio, ponendo nell’oblio, o definendo come «primitivi», tutti i filoni che non erano riconducibili in questo schema (che fossero anarchici o semplicemente repubblicani). Senza contare poi quanto questa lettura di quegli anni sia molto simile, anche se di «sinistra», a quella reazionaria per cui chi occupa una scuola, una fabbrica, un’università è un potenziale «terrorista in erba».
Il libro di Galmozzi mi sembra lontano da questo approccio.
Non perché nelle pagine che leggerete scorra una qualche forma di pentitismo, ma perché il percorso del gruppo di operai che abbandonarono Lotta continua per dar vita a Senza tregua e infine, dopo tre anni, a Prima linea non è mai presentato come il percorso ineluttabile e l’unico coerente, ma è semplicemente letto e descritto nel suo flusso, come una vicenda particolare di quel periodostorico, paradigmatica certo (e di qui il suo interesse per lettori che vadano oltre alla cerchia dei «reduci»), ma senza intenzione di spiegare il tutto con la parte.
A mio parere il lavoro di Galmozzi solleva alcuni nodi per l’interpretazione storiografica degli anni Settanta di enorme peso, questioni che vanno anche al di là del tema della violenza politicanelle sue varie forme.
Il primo è proprio il punto di inizio della storia narrata dal libro: il 1973. Galmozzi sottolinea come il tema che conduce alla rottura tra il nucleo di operai che facevano riferimento alla sezione di Lotta continua di Sesto San Giovanni e l’organizzazione è quello del «che fare» dopo la fine dell’occupazione dei «fazzoletti rossi» alla Fiat.
Tutti sono convinti che con la firma del nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici si sia conclusa una fase storico-politica. Il lungo e duro ciclo di lotte, iniziato nel 1968 (Galmozzi a questo proposito ricorda, giustamente, che il ’68 in Italia, ma io direi non solo, non fu esclusivamente studentesco, ma anche operaio) si era concluso senza che le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria fossero riuscite a conquistare l’egemonia nelle fabbriche sulla classe operaia che rimaneva ancora in larga maggioranza legata ai sindacati e al Partito comunista1. La «spallata» nei confronti del riformismo non era riuscita. Su quale strategia seguire a fronte di questa constatazione si apre una frattura netta in Lotta continua tra l’opzione «neo-istituzionale» della maggioranza del gruppo dirigente del partito (accettata da gran parte dei militanti) e la scelta di radicalizzare ulteriormente il conflitto da parte di chi in quel momento sceglierà di lasciare l’organizzazione […]
L’altro tema del libro che mi sembra di particolare interesse è quello della caratteristica operaia dell’esperienza di Senza tregua. Galmozzi afferma che questa è «la storia di un estremismo operaio».
Nelle ricostruzioni storiche la questione del radicamento nelle lotte di fabbrica raramente viene affrontata. Non parliamo della pubblicistica per la quale l’intera stagione dei movimenti è esclusivamente una questione di «intellettuali in formazione», studenti e qualche operaio. In realtà le lotte di fabbrica che dal 1968 sconvolgono il paese, innescando un ciclo conflittuale che non ha confronti possibili con il resto della storia repubblicana italiana, sono guidate da numerosi operai che fanno riferimento alle principali organizzazioni rivoluzionarie nate in quegli anni. Sono questi operai estremisti che guidano il conflitto, spiazzando le organizzazioni sindacali, costrette per un lungo periodo a inseguire il movimento spontaneo, a coprire modalità di lotta spesso violente, accettandone, parzialmente, gli obiettivi. Questa presenza è stata normalmente nascosta, rimossa. La durezza del conflitto operaio, la violenza esercitata in fabbrica contro capetti, crumiri e, a volte, gli impiegati non è stata oggetto di lunghe e dettagliate analisi.
Galmozzi, che apre il libro con un rapido excursus sulle biografie della ventina di operai che nel 1974 guidano la fuoriuscita dalla sezione di Sesto San Giovanni di Lotta continua, nelle sue pagine ripercorre le forme di lotta e l’eco che ebbero sulla stampa e nel dibattito operaio interno alle fabbriche. La violenza operaia è diffusa in quegli anni; ne sono ben coscienti i sindacati e anche il Pci che ne parleranno esplicitamente solo a posteriori, dopo che la crescita delle organizzazioni armate diviene il problema centrale per la credibilità politica del partito. (pp. 5-9)

La mia opinione personale è che gli operai di Senza tregua avessero una visione più realistica e fossero coscienti che la posta immediatamente in gioco non fosse l’instaurazione del comunismo ma una lotta per la sopravvivenza. Si combatte per non morire, per non sparire come soggetto storico. Questo spiegherebbe anche la particolare curvatura estremista che prenderà la rete operaia successivamente, e il ruolo che avrà nella fondazione stessa di Prima linea. Perché, va detto chiaro, in sede di ricostruzione storica si è parlato sempre del «golpe dei sergenti» come della rivolta del «quadro combattente», ma senza la rete operaia Prima linea non sarebbe mai nata.Gli operai avvertono con chiarezza la percezione di trovarsi nel pieno di grandi processi di ristrutturazione che comporteranno delocalizzazioni e chiusure di intere fabbriche. Su ciò affiora una divergenza di vedute fra la base operaia di Senza tregua e Toni Negri e Rosso. Per questi ultimi, la fabbrica diffusa e l’operaio sociale sono un passaggio che addirittura allude a una fase e un terreno più avanzati per il passaggio al comunismo, per gli operai di Senza tregua, invece, il rischio che si prospetta è la fine di un mondo, del loro mondo. Per altro, non appare infondato sostenere che se la lotta armata nasce in fabbrica, essa muore con la morte della fabbrica. O, per meglio dire, le sopravvive divenendo altro da sé: la lotta armata si farà eco e prolungamento artificiale, pratica che non corrisponde più alle sue ragioni originarie. La scomparsa delle grandi concentrazioni operaie e del soggetto storico scaturito da queste segnerà la fine di una storia.
Se questa sarà stata solo la fine di una storia o la fine della storia, ovvero se apparirà un nuovo soggetto motore del processo di emancipazione e liberazione da tutti i tipi di sfruttamento e di oppressione, solo il futuro ce lo saprà svelare. (p.136)