di Mauro Baldrati

E’ doverosa una premessa: Quentin Tarantino non è un regista “contro”. Non è “anti”. Anzi, è patinato. Non è un Altman che dice: “Finalmente Hollywood è riuscita a togliersi i registi dai piedi”. Ama usare le star di Hollywood. Ama i red carpet. E’ hollywoodiano fino all’ultimo centimetro di pellicola. Fino all’ultimo byte. Eppure ha una particolarità che lo rende unico. Benché amante ricambiato dello spietato sistema commerciale globale americano, infila nelle sue opere elementi di satira “pesante”, sempre in bilico tra l’eversione e un innato talento naturale per il successo; inserisce elementi splatter quasi antagonisti, ammorbidendoli, piegandoli con una sovraesposizione di cinismo autocosciente, di comicità paradossale; li traveste da citazioni di classici pop che rendono il tutto, alla fine, conforme al “guanxi” del grande fratello del cinema americano. Tutto questo lanciato nel cosmo dell’entertainment con uno stile inconfondibile, complesso, raffinato. E’ senza dubbio un sensei delle riprese, dell’accostamento immagini-musica, della fotografia e della direzione degli attori.

Tutto questo emerge spavaldamente dal suo ultimo film, l’attesissimo C’era una volta a… Hollywood. Senza scadere nel luogo comune si può affermare che si tratta di un’opera completa, matura. Sì, l’opera della maturità. Sembra che certi eccessi fumettistici siano tenuti a bada, che il controllo stilistico e dinamico sia perfetto. E poi le citazioni, una sua passione di sempre: i western italiani, smitizzati da una caustica, non reticente presa in giro. Quando Leonardo DiCaprio, attore in crisi, riceve la proposta di venire in Italia a cercare fortuna negli spaghetti western, tra cui Sergio Corbucci (“Corbucci? E chi cazzo sarebbe?”), spara a zero: “E io dovrei recitare in quei fucking western italiani? Sono tutte farse del cazzo” (poi ci va, fa un po’ di soldi e si porta a casa persino una moglie italiana). Ovviamente prendendo in giro il genere prende in giro anche se stesso, in quanto fan. Prende in giro tutti, gli hippies, di cui la California era piena (siamo nel 1969), tutti giovani, belli e patinati, specialmente le ragazze, a pacchi; Dennis Hopper (era appena uscito, o stava per uscire, Easy Rider); i telefilm americani, in una straordinaria antologia per immagini con spezzoni di girato. Oppure quando uno strafatto di acido Brad Pitt disfa la faccia di un’assassina seguace di Charles Manson, in un finale ultraviolento e ultratarantiniano, che tutti in sala salutano con risate liberatorie, come non riconoscere una fulminea citazione di Dario Argento.

Lo stile, la classe registica, la ricostruzione dei dettagli, tutto è di prim’ordine. Tarantino qui dimostra una mano artistica nelle riprese, nel configurare i personaggi e i luoghi che ne fanno uno dei grandi maestri viventi. Senza alludere a fusioni o corrispondenze imbarazzanti, in certe inquadrature ricorda Fellini, la sua epica, uno splendore che addirittura commuove lo spettatore sensibile. Quell’avanzare della Cadillac di DiCaprio guidata da Brad Pitt per le strade di Los Angeles del 1969: non troviamo altro aggettivo che non sia “magnifico”.

E poi il gioco degli attori, dicevamo. DiCaprio è quello oscuro, sporco, alcolista, catarroso, disperato. E’ un attore di medio calibro, star delle serie western, un mondo aleatorio, nel quale domani si può sprofondare nel nulla e da famoso in pochi attimi si può essere dimenticati. Vive in una villa sui colli di Hollywood, come tutti nell’ambiente del cinema, ma quanto durerà? Il suo agente, in un cameo di Al Pacino, glielo preannuncia: preparati, tu sei il cattivo, e lo sarai sempre. Come tale la gente ti ricorderà, e subito ti dimenticherà. Parole velenose che gli infuriano nella mente e lo portano a bere sempre di più, a fumare come un turco, a confondere le battute, ad aspettare la fine. Tarantino qui si diverte a inserire il truffautiano “cinema nel cinema”: assistiamo a scene in cui Di Caprio spara, salta, recita prodigiosamente la parte dell’attore che ogni tanto si impappina, sbaglia battuta. E allora ricomincia, ripete la scena con grande realismo. Gli spezzoni di film nel film sono perfetti, non sembrano recite nella recita, ma campionamenti di film di ottima fattura.

Accanto a DiCaprio c’è Brad Pitt, la sua controfigura, uno stuntman, che tuttavia non riesce a lavorare in quanto tale, ma gli fa da autista, da tuttofare, e anche da spalla, quando l’altro sprofonda nella depressione e nel pessimismo. Come DiCaprio è stravolto, scapigliato e scuro, Pitt è un wasp da manuale, algido, imperturbabile. Sembra un’intuizione geniale questo accostamento, come il ribaltamento di un luogo comune: chi comanda è il bruno, il peloso, il rauco, chi lo assiste è il biondo, il chiaro, il bello. Brad Pitt è un tipo tosto, con un passato sempre in bilico tra la libertà e la prigione. Sembra che abbia ucciso sua moglie, non si sa come né quando, e “l’abbia fatta franca”. Lo dice un tipo a Bruce Lee (un’altra esilarante presa in giro), prima che i due si scontrino in una lotta nella quale Brad Pitt lo fa fuori più o meno come Indiana Jones si sbarazza di quell’enorme arabo ne I predatori.

DiCaprio è vicino di casa di Roman Polański e di sua moglie Sharon Tate, che lui guarda con ammirazione e con invidia, perché lì si nasconde il vero successo, il vero cinema. Il regista è in Inghilterra per girare il suo prossimo film, dopo il trionfo mondiale di Rosemary’s Baby, per cui Tarantino si concentra su Sharon Tate, che è un personaggio importante, cui dedica un ampio spazio. E proprio sulla tragica vicenda che la vide vittima della strage di Bel Air, l’8 agosto 1969, Tarantino cambia la storia, come fece con Inglourious Basterds.

Una speranza? Una favola? Oppure un sogno, come avrebbe potuto, o dovuto essere quella notte infernale. L’ennesima presa in giro della Storia, che a sua volta si diverte a puntare sempre al peggio del peggio.

(Un consiglio: il film deve essere visto in lingua originale. Perdere la recitazione dei due campioni per il doppiaggio significa rinunciare a un buon terzo della qualità del film.)