di Giovanni Iozzoli

Arriva Anastasia, con la sua sobria pacatezza di giovane madre di famiglia – un filo di accento moldavo che sguscia tra le consonanti, mentre ringrazia la platea – e prende il microfono. L’ha già fatto tante volte, in queste settimane, è diventata disinvolta nel parlare in pubblico – non l’avrebbe mai creduto possibile un po’ di tempo fa, come molte altre cose. In pochi minuti racconta alla cinquantina di persone presenti, della sua esperienza lavorativa dentro lo stabilimento di un rinomato marchio modenese del “food” – la pressione dei turni impossibili, la fatica del lavoro, i guadagni così striminziti da creare sospetti nel marito, che vedeva la sua busta paga e diceva: ma lavori davvero? Anastasia è un’addetta di linea alla preparazione delle decine di migliaia di pizze che, surgelate e confezionate, vengono esportate ogni giorno ai quattro angoli del globo dall’azienda, leader europea del settore. Non ha imparato i trucchi delle retoriche da assemblea, non ce n’è bisogno quando parli della tua vita, delle tue verità. Racconta di sé, della loro dura lotta, degli scioperi, dei licenziamenti, della repressione e conclude il suo intervento senza grandi proclami, dicendo semplicemente: “adesso hanno capito che io sono Anastasia!” Ed è palesemente soddisfatta, mentre rilascia all’assemblea questa affermazione apparentemente poco significativa.
Io sono io. Certo, chi altro volevi essere? Potrebbe suonare criptica, buffa o surreale.
Invece tutti applaudono. Tutti hanno capito perfettamente cosa voleva dire Anastasia.

Prima che cominciassero le lotte alla Italpizza, lei era un ingranaggio invisibile e anonimo di quella grande impresa, dipendente, tra l’altro, di una cooperativa in appalto interno, perennemente schiacciata tra le rigidità degli orari, le esigenze domestiche, il malessere di un lavoro malpagato e mal vissuto. Forse il caposquadra non ricordava neanche che si chiamasse così, Anastasia: la sua mansione, la sua busta paga, il suo contratto “multiservizi”, tutto serviva a ricordare alla signora (extracomunitaria) che lei era un elemento infimo, sostituibile, intercambiabile. Che come lei ce n’erano migliaia in attesa davanti ai portoni degli stabilimenti: siete fortunati se avete un lavoro – questa scritta in ferro battuto dovrebbe troneggiare sui cancelli elettronici delle ditte, promemoria perenne a cui educare la moderna classe operaia, senza neanche il bisogno di raccontare perverse bugie sul fatto che il lavoro rende liberi.

Poi succede qualcosa nelle vite delle persone e delle aziende – una vertenza aperta, alcuni mesi di scioperi, botte, denunce, sulfumigi quotidiani a base di lacrimogeni, interviste (chi aveva mai parlato con un giornalista??), analisi di contratti scaduti e ipotesi di accordi, tavoli e riunioni in prefettura: e così l’operaia delle pizze realizza una qualche verità ineffabile, sottile, circa se stessa e il suo stare al mondo. All’inizio le sfugge, questa consapevolezza, è solo una del gruppo di donne che ha deciso di rivendicare un contratto adeguato e qualche soldo in più. Ma poi capisce che c’è anche altro in gioco. E dopo settimane che valgono come anni, oggi riesce disinvoltamente a prendere la parola in un assemblea pubblica, davanti a gente che non conosce, per dire serenamente: “io sono Anastasia”. Rivendicazione altissima, quasi estrema.
“Sono Anastasia”. “Non sono quella della linea 2”. “Non sono lavoro morto, non sono neanche lavoro vivo”: manganellate e gas hanno realizzato la combinazione alchemica, l’illuminazione – “sono Anastasia, lo sono sempre stata, solo che me ne ero dimenticata, perché tra l’affitto, la rata dell’asilo, le minacce del capoteam, tutto il mondo mi aveva istruito da sempre alla sottomissione di classe, da quando ero piccola, giù al mio paese e avevo dimenticato l’essenziale”. Rivendica, più che un contratto da alimentarista, il dato semplice e nudo della sua irriducibile umanità, della sua singolarità. “Sono Anastasia, una persona, sono una cosa complessa, esplosiva, da maneggiare con cura ed estremamente preziosa: cioè l’esatto opposto di come mi vedete voi, una insignificante farcitrice incuffiata (matricola Inps 41346)”.

Quelle come Anastasia hanno doppiato il capo di Mala Speranza, nel giro di un paio di generazioni: i suoi genitori sono scappati dalla bancarotta del socialismo reale per approdare carichi di easpettative nel paradiso occidentale venduto dalle Tv commerciali; e qui i figli sbattono il grugno contro il capitalismo reale, chiedendosi dov’è l’errore, cos’è che non capiscono, perché l’Eden è pieno di buche, di trappole, di merda; e reimparano le parole-tabù del lessico rimosso dopo l’89, nei loro luoghi d’origine – i padroni, la giustizia sociale, lo sciopero – proprio come chi esce dal coma deve ricominciare a sillabare con pazienza.

Ai cancelli degli stabilimenti della logistica o dell’agroalimentare, nei picchetti e durante gli scioperi, capita spesso di sentire lavoratori egiziani, ghanesi o bengalesi, che scuotono la testa increduli e dicono: non pensavo che da voi fosse così. Vengono da realtà dure, socialmente difficili, eppure sono stupiti delle bastonate della polizia italiana, dall’uso spropositato dei lacrimogeni, dagli alambicchi truffaldini ai tavoli di trattativa, dalle denunce, dalle minacce sui rinnovi dei permessi di soggiorno, dalla facilità con cui si imbrogliano i dipendenti, si ruba il TFR, si elude il fisco. Sono meravigliati da quanto siano labili ed elastici i confini del presunto “primo mondo”: anzi, da come i sistemi siano intrecciati, connessi, sovrapponibili – e il terzo mondo dei diritti può cominciare nel reparto logistica o nel rione in fondo alla strada. Non nutrivano attese puerili o messianiche, sull’occidente, ma erano convinti che qui, in qualche modo, si giocasse pulito: che la polizia non fosse smaccatamente al servizio dei ricchi, che gli operai non fossero numeri e che il lavoro fosse mortificato o spremuto o sfruttato, solo nei paesi dagli assetti sociali primitivi o premoderni. C’è da interrogarsi sull’immagine che l’Occidente offre di sé, ai popoli del mondo, anche in relazione all’intensificarsi frenetico dei flussi migratori: le nostre pay tv, le nostre fiction, il nostro star system, raccontano di un mondo in cui è stata bandita la fatica, l’insuccesso, un regno delle pari opportunità in cui tutti possono competere e raggiungere la piena felicità materiale – oasi di progresso, libertà, uguaglianza. Praticamente, l’opposto di ciò che siamo realmente.

Perciò è così rivoluzionaria e solenne, quasi una dichiarazione d’indipendenza, quell’affermazione: “io sono Anastasia” – c’è tutto un disvelamento, una conquista per niente scontata, un approdo faticoso, dietro quelle parole. Non è ancora l’assimilazione di un’ideologia – cioè di una concezione compiuta del mondo. Ma è già un cambio di immaginario, uno scarto significativo del modo in cui una persona guarda se stessa, la sua relazione con gli altri e con quella cosa oscura e gelatinosa chiamata società.

Già, l’immaginario. Lo tiriamo in ballo in continuazione e lo diamo sempre per scontato – anche se, per la verità, ognuno lo definisce a suo modo. L’immaginario è “quella cosa là”, che sta “sotto” il cielo statico delle ideologie e sopra il flusso caotico e schizoide della connessione permanente – e interagisce con entrambe le dimensioni. È una regione misteriosa e lussureggiante, fatta di simboli, segni, codici, visioni, un non luogo dove si formano le griglie attraverso cui interpretiamo e ordiniamo la nostra esperienza del mondo.

Quando sei totalmente succube, ricettivo, ubbidiente e passivo rispetto ai valori odierni – al feroce esprit du temps – quella regione diventa un deserto di desideri frustrati, aspettative irrealistiche e fuorvianti, inadeguatezze, speranze, odio competitivo. Quando invece Anastasia comincia a interrogarsi sulle sue pizze, sul suo contratto, sulla sua condizione di madre lavoratrice, sulle sue ragioni e la sua rabbia, sull’assurdità di un sistema in cui devi farti bastonare per rivendicare un minimo di legalità, allora il suo immaginario comincia ad aprirsi, esce dalle ristrettezze del micro mondo familiare, dal solipsismo del consumatore povero: vede se stessa in un altro modo, comincia ad essere orgogliosa di quello che capisce e che fa, vorrebbe spiegarlo al figlio (ma è ancora piccolo), vorrebbe coinvolgere sempre più i colleghi – spesso le mancano le parole, per esprimere quella nuova ricchezza. Magari le torna in mente un vecchio film che parlava di scioperi, oppure i racconti di suo cugino che lavora in una fonderia nella Ruhr; opera connessioni in autonomia, formula domande sempre più complesse: abbozza a se stessa delle prime spiegazioni. Anche se farcisce le pizze e guadagna 750 euro al mese, adesso sente di non essere una sfigata, è consapevole della ricchezza di cui è portatrice – e soprattutto ha capito di non essere sola. Le viene in mente che la vita forse non è solo sfangare il fine mese, pagare le bollette, curare la famiglia e sperare in un po’ di salute: forse c’è altro, un respiro più ampio e ardito, la solidarietà degli sconosciuti che vengono a stringerti la mano ai presidi, c’è la soddisfazione di contare, pesare, spiegare anche al sindaco o ai politici che “sei Anastasia” e che da oggi bisognerà fare i conti anche con te – e c’è la coscienza che sembra allargarsi, espandersi, quasi affamata di conoscenza. Il mondo non è come te lo avevano raccontato. “Elevazione spirituale della classe operaia” – così recitavano i bignamini di formazione marxista. Si può aggiornare il vocabolario, ma ancora lì siamo, dentro quello sforzo necessario di educazione ed autoeducazione.

Quando Anastasia, e quelli come lei, ai cancelli dell’Italpizza o davanti a magazzini, centri commerciali, stabilimenti, prendono la parola – e lo fanno non solo con la voce, ma anche e soprattutto attraverso i loro corpi – stanno realizzando un piccolo miracolo laico. Un atto di fede in se stessi e nel futuro – e come ogni fede, comporta l’assunzione di doveri e rischi. Conquistare la responsabilità della scelta. Uscire dalle linee di produzione. Staccarsi dal nastro, rendersi autonomi dalla macchina e dal logaritmo, sottrarsi alla quantificazione della prestazione ma soprattutto alle retoriche minacciose dell’aziendalismo, ai suoi ricatti o alle sue lusinghe paternalistiche.
La cosa interessante è che, attraverso la voce di chi lotta, in qualche modo, prendono parola anche gli altri: i crumiri, i fidelizzati, i complici, i rassegnati, gli sconfitti, quelli che durante gli scioperi entrano a testa bassa da un cancello laterale. La voce di Anastasia qualifica e getta luce anche su quel silenzio triste – parla anche di loro, che non hanno il coraggio di negare la propria mortificante condizione di merce a buon mercato.

Cosa c’è adesso, dentro l’immaginario di Anastasia, dopo mesi di battaglia davanti a quei cancelli e una faticosa, contraddittoria vittoria sindacale? La lotta cosa cambia, quale chimica, quali meccanismi innesca dentro la biografia di un individuo? Scoprirsi corpo collettivo deve essere esaltante e pauroso. Forse inizia a germogliare un barlume di consapevolezza circa l’appartenenza a un movimento storico, lento, ineluttabile, di emancipazione dell’umano dal lavoro salariato: la tua piccola vita acquista un valore luminoso, diventa un microscopico episodio di quella prometeica lunghissima marcia.

La mobilitazione all’Italpizza non è finita, è solo entrata in una fase nuova. Qualche settimana fa l’azienda è stata piegata – dalla lotta, solo dalla lotta – alla firma di un accordo complesso, pieno di ombre e criticità: che però contiene la reinternalizzazione di massa di buona parte dei lavoratori degli appalti interni. Quindi: non era vero che la precarietà è inevitabile, che è modernità, è necessità oggettiva. Quando i padroni cominciano ad aver paura, il senso della storia diventa reversibile, si aprono mille scenari, i rapporti di potere forzano e ridisegnano i confini del possibile. Ogni progresso, in fin dei conti, si fonda sulla paura.

Intanto è necessario che le parole di Anastasia escano dalla linea 2 del reparto farcitura, arrivino al confezionamento, alle spedizioni, alle celle frigorifere: e poi via, fuori, negli stabilimenti scalcagnati e nelle vetrine prestigiose dell’industria 4.0, verso le ciurme precarie di ogni colore e di ogni risma; giungano alle orecchie scettiche e pacificate dei lavoratori diretti, degli pseudo garantiti; fino ad arrivare all’attenzione dei giovanottini in camicia bianca che entrano adesso nelle nuove fabbriche integrate, nelle nuove mansioni massificate del lavoro tecnico-intellettuale, più o meno disarmati di storia e diritti, come lo erano le farcitrici di pizza fino a pochi mesi fa.

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