di Sandro Moiso

Luciano Mecacci, Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935), Adelphi, Milano 2019, pp. 274, 22,00 euro

Siamo in pieno Ferragosto e vorreste star tranquilli, lo so. Non pensare a nulla e oziare è sicuramente il modo migliore per rilassarsi, qualsiasi sia l’attività che accompagna o determina le nostre giornate di attività fisica e/o mentale.
Soprattutto, in questi primi o ultimi giorni di ferie non avete voglia di farvi mettere in agitazione da discorsi, letture o riflessioni che possano mettere a soqquadro la mente, le convinzioni e le, poche, certezze che vi rimangono.

Invece no, quella foto sulla copertina di un libro, quello sguardo furtivo e incattivito di un bambino che, lo saprete soltanto poi consultando la terza di copertina, sbuca da un cassonetto della spazzatura di Odessa, nel 1928, ha attirato il vostro sguardo e vi ha incuriosito.
In quegli occhi è contenuta una storia, un enorme dramma che, lo si capisce al volo, non può essere soltanto individuale, ma deve essere per forza collettivo. E in effetti lo è.

Luciano Mecacci, già ordinario di Psicologia generale presso l’Università di Firenze e membro dell’Associazione Italiana degli Slavisti, sintetizza in un volume, che si fa leggere come un romanzo, la storia e le esperienze educative e repressive collegate al problema dell’infanzia randagia in Russia tra la Prima guerra mondiale e gli anni del pieno trionfo dello stalinismo.
Un problema non da poco se si pensa che su 147 milioni di abitanti della Russia, poi sovietica, almeno 7 milioni di giovanissimi appartenevano a tale e sfortunato gruppo.

Bambini di un’età compresa tra i 6 (e forse meno) e i 16 anni che venivano definiti come besprizorniki, una parola che tradotta letteralmente significa bambini abbandonati, privi di tutela, genitoriale o di qualsiasi altra specie.
Un fenomeno che iniziò a manifestarsi con la Prima guerra mondiale, ma che tese ad espandersi nel corso della rivoluzione, della susseguente guerra civile e delle carestie che si abbatteranno sul paese a seguito della seconda e delle svolte repressive messe in atto dal regime durante le campagne di espropriazione dei cosiddetti kulaki e che finiranno col dar vita ad un’ampia resistenza contadina nei confronti delle politiche bolsceviche di collettivizzazione dall’alto della terra e di ammasso forzato dei suoi prodotti, prima e dopo la morte di Lenin.

Bambini che non erano obbligatoriamente orfani dei genitori, ma che dalle alterne vicende della guerra, della rivoluzione, della Nep e delle politiche agrarie e. troppo spesso, della deportazione nei gulag e dell’eliminazione fisica di molti adulti ritenuti terroristi o nemici del partito stalinizzato negli anni Trenta, erano stati costretti ad abbandonare, spesso con l’incoraggiamento degli stessi genitori, le case e i luoghi di origine in cerca di una salvezza che, quasi sempre, non c’era e non poteva esserci.

Nell’Introduzione, l’autore afferma

Generalmente in queste ricerche la dimensione psicologica e comportamentale dei besprizornye, la vita di quei bambini e quei ragazzi nelle loro famiglie d’origine, nelle strade, negli orfanotrofi, nelle prigioni e nei lager emerge a posteriori rispetto all’esame del contesto storico, sociale e politico della Russia sovietica che li aveva generati. In questo libro si è adottata una prospettiva diversa, descrivendo i basprizornye attraverso i loro pensieri, il loro linguaggio, le loro emozioni e i loro affetti, e a questo scopo si è dato ampio spazio alle testimonianze dei protagonisti, così come ai racconti e alle relazioni degli scrittori russi o stranieri negli anni Venti e nei primi anni Trenta. Ne risulterà, così ci auguriamo, un quadro completo – dall’interno e, dall’esterno – dei vari aspetti della vita dei besprizornye: dalla fuga all’accattonaggio al furto, dalle manifestazioni di aggressività e di autodistruzione alla vera e propria violenza psichica e fisica (fino all’omicidio), dalla prostituzione al consumo di droghe.1

Già negli anni Settanta l’autore aveva trascorso un periodo di studio nell’URSS, durante il quale aveva avuto modo di raccogliere materiali e testi inerenti all’argomento sviluppato nel testo attuale e aveva potuto incontrare personalità quali, ad esempio, Aleksandr Lurjia che avevano avuto modo negli anni Trenta di occuparsi del pensiero e del linguaggio di quei bambini. Poiché già all’epoca, e soprattutto negli anni Venti, non erano mancati gli studi e i tentativi pedagogico-educativi di risoluzione del problema.

Ma se negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione si era peccato, forse, di troppo ottimismo nei confronti della possibile soluzione del problema attraverso il miglioramento dell’uomo socialista, come dimostrano le osservazioni della stessa Nadežda Krupskaja contenute nel testo di Mecacci, a partire dagli anni Trenta la risposta aveva cominciato a consistere in una progressiva rimozione dello stesso, accompagnata da una azione repressiva degna di quella degli squadroni della morte che hanno il compito di liberare le strade delle metropoli brasiliane dai meninos de rua che le “infestano”.

Il vero dramma infatti consiste proprio in una rimozione che ha fatto sì che per decenni, praticamente fino alla morte di Stalin ma anche oltre, negli anni Sessanta e Settanta, in Unione Sovietica fosse di fatto vietato parlare di tale, enorme problema.
Il documento di riferimento ufficiale è rimasto per anni lo pseudo-romanzo Poema pedagogico di Anton Makarenko pubblicato tra il 1933 e il 1935, e recentemente ristampato con eccessiva pompa magna qui in Italia, in cui si tracciava il cammino evolutivo di alcuni di quei bambini attraverso i provvedimenti statali che li avrebbero trasformati da piccoli delinquenti affamati a giovani pionieri, poi in militanti del Partito e infine in tranquilli e sereni cittadini sovietici.

Una narrazione ideologizzata e tranquillizzante che corrispondeva pienamente al progetto dell’uomo nuovo sovietico e dell’immagine che attraverso di esso il regime staliniano avrebbe voluto dare di sé. Un’immagine che fu distorta anche attraverso narrazioni fasulle e falsate, successivamente sbugiardate dalla ricerca storica, che raccontavano di un cammino dalle stalle alle stelle di numerosi personaggi in vista della scienza e della politica sovietica post-rivoluzionaria, tutti provenienti dai besprizornye e dagli istituti che se ne occupavano.

Purtroppo, invece, la realtà fu ben diversa poiché proprio nel 1935, anno di pubblicazione definitiva del Poema pedagogico, avvenne la svolta decisiva con la risoluzione congiunta del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e del Consiglio dei commissari del popolo, approvata il 7 aprile di quell’anno, con cui si abbassò il limite d’età per perseguire penalmente i giovani delinquenti e i besprizornye: “A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furti, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passabili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive.”2

Secondo le ricerche condotte dall’autore

Il limite dei dodici anni fu aggiunto personalmente da Stalin sulla bozza di proposta preparata da Andrej Vyšinskij, il procuratore generale dell’URSS che di lì a poco avrebbe rappresentato l’accusa nei grandi processi di Mosca. Pochi giorni dopo, il 20 aprile 1935, una nota segreta fu trasmessa agli organi competenti: vi si chiariva che tra le ‘misure punitive’ andava annoverata anche la pena capitale (fucilazione). Non è noto il numero dei besprizornye che furono fucilati in applicazione di questa ‘nota esplicativa’, ma testimonianze e documenti indicano che già negli anni precedenti si era fatto ricorso ai proiettili per ‘liquidare’ quei ragazzi vestiti di stracci. Da ultimo il decreto del 31 maggio 1935 sanciva la fine del fenomeno dell’infanzia abbandonata.3

Il trionfo della pedagogia sovietica stalinizzata consistette, dunque, nella rimozione fisica del problema e nella rimozione di ogni memoria differentemente caratterizzata. Non solo la propaganda collegata al Poema pedagogico avrebbe nascosto la struttura criminalizzante, liquidatoria ed omicidiaria dei provvedimenti dell’aprile del 1935, ma anche il fatto che molti di coloro che si erano occupati in ben altri termini del problema sociale e pedagogico rappresentato dai bersprizornye avrebbero concluso le loro vite nei gulag e/o davanti a un plotone di esecuzione con l’accusa di terrorismo e tradimento.

Molto altro ci sarebbe da dire sull’ottimo libro di Luciano Mecacci, ma credo che sia sufficiente fermarsi qui per disturbare il tranquillo Ferragosto del lettore. E per ricordargli come non sarà mai possibile costruire alcun nuovo mondo e alcuna altra comunità umana se si continuerà a credere in modelli politici e culturali nati morti, sulla scia di un modello sociale ed economico di stampo ancora eminentemente autoritario e classista. Come quello stalinista, appunto.


  1. L. Mecacci, Besprizornye, p. 15  

  2. Sulle misure della lotta alla criminalità minorile, in Izvestija e Pravda dell’8 aprile 1935, cit, in L. Mecacci, op. cit. p. 29  

  3. Ivi, p. 29