[Segnaliamo l’uscita per la casa editrice Paginauno de “La pace degli alveari” di Alice Rivaz, traduzione e introduzione di Sabrina Campolongo, postfazione di Valérie Cossy. Pubblicato nel 1947, si tratta del diario-racconto di Jeanne Bornard, una donna che questiona con acume il sistema valoriale patriarcale di assogettamento all’uomo e al marito e ribalta con ironia l’immagine pacificata di quelle istituzioni, come il matrimonio, che legittimano la perpetuazione dei rapporti di potere tra uomo e donna. Di seguito, vi proponiamo un assaggio dell’opera, estratto dalla seconda parte del libro. ss]

di Alice Rivaz

Facevo bene ad aver paura che non avrei più potuto scrivere su questo quaderno al ritorno di mio marito a casa. Non ho mai potuto tenere un diario in sua presenza. Come per il fenomeno dell’uomo degli uccelli. Alcune presenze, e soprattutto quella di mio marito, mi separano dalle mie radici, mi impediscono anche solo di avvicinarmi a me stessa.

E poi, in pratica, come potrei riuscirci? Non potrei nemmeno se lo volessi a ogni costo. Due giorni dopo il suo ritorno ho voluto provare. Non gli ho detto cosa stavo facendo. Avrebbe potuto supporre che scrivessi una lettera. Sfortunatamente, sa che scrivo raramente delle lettere e che ne scrivo di molto brevi. Quindi, vedendomi seduta con la penna in mano, all’inizio ha pensato che facessi i conti di casa. Poi, non so bene perché, è diventato sospettoso. Ha assunto un’aria inquieta e con la sua abituale indiscrezione: «Cos’è che fai? I conti?»

«No no» ho risposto. E credo di essere arrossita. «E quindi?» All’inizio non ho risposto, poi, dato che insisteva, mi sono messa a balbettare come una scolara presa in fallo: «Sto… sto… scrivo per me…»

Non ha capito subito. Poi, all’improvviso ha sollevato prima gli occhi poi le braccia al cielo, e sulla sua espressione apatica si è dipinta quella crudele piccola ironia che mi fa sempre arrabbiare, e non soltanto quando sono io a esserne l’oggetto, ma anche quando sono gli altri, dato che trovo che un certo tipo di ironia sia peccato. Non dice forse la Bibbia: “Guardatevi dalla lingua degli schernitori”? Ma lui, scandendo ogni parola: «Così la si-gno-ra-scri-ve-il-suo-dia-rio…»

E poi più in fretta: «O non sarà mica per caso un romanzo che ti sei messa in testa di scrivere?»

Poi si è allungato sulla sua poltrona, ha chiuso beatamente gli occhi, esalato voluttuosamente una boccata di fumo dal suo grosso sigaro di cui detesto l’odore e ha aggiunto, sarcastico: «Leggimi questo capolavoro… sono tutto orecchie.»

Mi sono chiesta cosa sarebbe successo se, anziché io, fosse stato lui ad avermi confessato di scrivere per se stesso. Come sarei stata attenta, rispettosa del suo lavoro! Non mi sarebbe mai venuta l’idea di prenderlo in giro. E ho pensato ai mariti di alcune mie amiche, che scrivono “per sé”, come dicono loro. Con quale interesse, quale rispetto, le mie amiche menzionano con me questo fatto. Perché invece una donna non potrebbe scrivere “per sé” senza suscitare lo scherno del marito?

Ero così mortificata, ferita, che ho chiuso in maniera febbrile il calamaio per poi correre a nascondere il mio povero quaderno nell’armadio della biancheria, sotto una pila di lenzuola! Ci è rimasto per più di quattro mesi. Non lo riprendo che oggi…

Quattro mesi di malessere, di lancinanti rancori… come dire? Come sempre accumulavo giorno dopo giorno rimproveri e risentimenti che lasciavo non formulati, o espressi in modo imperfetto, con abbozzi di frasi inconcluse. È così che reagiamo quando ci troviamo faccia a faccia con i nostri mariti, o che non reagiamo, piuttosto, aspettando di restare sole per poter vedere chiaro dentro di noi e dare un nome ai nostri sentimenti. Ma se la nostra lingua è paralizzata, si crea tuttavia tutto un movimento in noi che si esprime in modo alternativo alle parole. È il nostro passo che si fa strascicato, la nostra voce di colpo più tagliente, i nostri sguardi più severi. Sono le porte che sbattiamo. E questa volontà che si solidifica e che ci spinge a contraddirlo sempre, o ci immerge in un mutismo pieno di sottintesi, di rimproveri latenti, non formulati, che di conseguenza proliferano come vegetazione sottomarina, come il muschio nei boschi. Philippe vi si perderebbe. Non capirebbe un bel niente, non saprebbe più ritrovare le radici, i nodi, risalire alle fonti, ai germogli. Anche a noi capita a volte di non saper più risalire alle sorgenti, di coltivare così le ultime proliferazioni del nostro rancore dimenticando ciò che le ha fatte nascere. Per giorni e giorni ci sentiamo come sollevate da una mareggiata, come masse d’acqua scosse da tremende onde di profondità. È allora che la nostra voce diventa più critica, portatrice di scuri temporali. Ma la causa, la vera causa di tutto questo, il perché?

Prima di tutto c’è che non hanno riguardi – si sa, lo confessano, soprattutto in questo Paese (ma conosco poco gli uomini degli altri paesi) – e dietro la loro mancanza di riguardi c’è il loro egoismo, e dietro il loro egoismo la loro vanità, il loro accecamento, e dietro il loro accecamento la loro incomprensione, e dietro tutto questo c’è che ci hanno ingannato, perché prima si erano mostrati diversi, perché hanno saputo nascondere ciò che erano veramente, quello che volevano e si aspettavano da noi, sotto il loro amore e la loro proclamata devozione nei nostri riguardi. Così che abbiamo creduto al fatto che sarebbero stati sempre tutto amore e devozione, mentre per loro si trattava di un’attitudine passeggera, che non corrispondeva alle esigenze della loro vera natura. Quello che ora vogliamo è quella devozione alla nostra persona, è il culto dell’amore che incarniamo.

Eppure mi aspetto ancora qualcosa, lo sento, da questa razza straniera con la quale noi dividiamo la nostra casa, il nostro letto, la nostra vita. Ma cosa? Dopo l’esperienza di Philippe-marito? Dopo quella di Pierre M…? C’è stata, lo riconosco, quella di Stéphane, alla quale non ho dato abbastanza importanza perché a quel tempo avevo in testa solo Philippe.

Adesso, ho proprio bisogno di confessarlo, vorrei ancora un altro amore. Ma non ho più un visetto di ventenne, nemmeno di trentenne. Per di più, ora so cosa mi aspetta, cosa aspetta ogni amore in questa vita, quel che costa, quello che ci si può aspettare o meglio non aspettare da un uomo. Eppure, Dio sa perché, vorrei provare ancora per un po’ la loro commedia, la loro graziosa commedia, prima che cali il sipario. Il loro Prologo. Perché, per loro, l’amore non si inscrive che nel Prologo, nelle parole dette davanti al sipario chiuso, e poi quando la pièce comincia, a scena aperta, si tratta di tutt’altro. E come volete che possa venir bene una pièce con un malinteso del genere tra gli attori, fin dalla prima scena?

Il fatto è che noi eravamo delle innamorate, e loro hanno fatto di noi delle casalinghe, delle cuoche… ecco cos’è che non riusciamo a perdonargli.