di Nico Maccentelli

(Capitoli 23 e 24)

23.

Le immagini scorrono veloci come in un film muto di Al Roach. Immaginiamocele in bianco e nero, come una pellicola invecchiata. Possiamo sentire anche il rumore sfrigolante del rullo e quello vibrante dell’otturatore, se ci piace.

Silvia scende le scale del liceo con passo ballonzolante, mentre Stefano, appena giuntole di fianco, si gira con uno scatto veloce, è quasi in posa per noi, scuote la testa verso l’ipotetica cinepresa, sorridendo di un sorriso ebete. Silvia ammicca veloce con un’amica all’indirizzo di Glauco, ragazzone filiforme in camicia scozzese, e il viso verso di lui non è tanto veloce a discostarsi. Ma parliamo di pochi secondi, la pellicola va oltre.

Sergio, Sandrone e altri due con capelli lunghi a codino li vediamo invece a un posto di blocco. La vecchia Mini Minor di Sergio viene messa sotto sopra da un carabiniere diffidente. Sembra il poliziotto di Chaplin. I ragazzi gongolano nervosi da una gamba all’altra. Ma tranquilli ragazzi. Stavolta i piedipiatti non vi troveranno il fumo.

La nostra lunga soggettiva va oltre. Ci vorrebbe una vecchia voce enfatica americana, da cinereportage degli anni ‘40, qualcosa alla Frank Capra. Perché ora vediamo l’ingresso del Laser game. Ma preferiamo un cartello in stile liberty. Che potrebbe avere scritto: “Dopo tante disavventure, finalmente riapre il Laser game, la sala giochi del mistero.”

Tanti giovani arrivano barcollando di qua e di là. È la velocità della nostra pellicola immaginaria a dare questa andatura ai passi da duri dei nostri giocatori. Le ragazze hanno una camminata più leggera: sembrano uccellini che si spostano lungo un ramo con graziosi saltelli.

I ragazzi entrano sotto lo sguardo felice del nuovo gestore. Non è obeso e ha i baffi arricciati all’insù, ma un po’ al panzone perfido di Charlot ci assomiglia. Ha le braccia conserte, pronte ad aprirsi per incassare il primo denaro da questi giovani alla ricerca di una breve guerra immaginaria.

Il nuovo mangiafuoco ha rilevato tutto, e a tempo di record, dai parenti dei due napoletani. Ovviamente nei locali del piano superiore altri nuovi gestori stanno progettando un magnifico fast-food, dal nome un po’ inopportuno: “L’antro del serial killer”. Tutto è lecito nel nome del libero commercio.

Ora vediamo i ragazzi entrare a grappoli, mostrare la tessera, pagare al nuovo gestore, ricevere il biglietto d’ingresso e dirigersi verso la porta del Laser game. Una ragazza dal viso largo, quasi fosse una donna cannone, li prende in consegna e li mette in fila. E i ragazzi, come una composta scolaresca (strana a vedersi, dati i soggetti…), attendono il turno della vestizione. A infilarsi il pettorale e ad afferrare il fucile laser, sembrano tanti soldati in un vecchio documentario degli anni ‘40, o in uno dei tanti servizi giornalistici sulla guerra in Afghanistan. La propaganda , come le guerre, si somiglia tutta.

Ma ora che stiamo vedendo il campo di battaglia, la pellicola manda gli ultimi sfrigolii sul rullo, mostrando la sua coda piena di righe. Siamo di nuovo nel Laser game.

I ragazzi armano a turno il fucile nelle zone di caricamento. Poi si avviano ai posti di combattimento. Tutto è pronto. Verdi contro rossi. Partono i primi raggi. I primi colpiti si fermano, proteggendosi le parti vulnerabili dietro un pannello. Le urla, le invocazioni, gli ordini impartiti dai più decisi, rimbombano da un corridoio all’altro.

Ma una vibrazione strana percorre l’aria. È questione di un secondo, nemmeno. Come lame rosse e verdi, i raggi che partono dai fucili dei giocatori squarciano i pannelli di plexiglas, trapassano corpi, tagliano arti, fanno volare teste. E le grida si trasformano in suoni inarticolati, urla di terrore. Qualcuno urla di sospendere il gioco. Ma molti ancora non sanno ciò che accade. Un paio di ragazzi, acquattati dietro un pannello, non sparano da almeno una trentina di secondi, sentono le grida. Commentano tra loro su come sia più entusiasmante di prima questo gioco, e attendono in agguato il nemico. Poi escono appena vedono un avversario e gli fanno un buco nel collo, trasformando il suo sguardo terrorizzato in un’unica orbita spettrale, che dentro pulsa di materia cerebrale.

Come mannaie di luce i raggi non conoscono ostacoli. Continuano a sparare morte anche adesso, che nessuno spara più. Anche adesso che il sangue nel pavimento riverbera di un verde e rosso sinistri. I fucili per terra si contorcono da soli, finché non trovano una posizione adeguata e continuano a sputare il loro getto laser sempre nella stessa direzione, come Meduse inerti ma ancora mortali, prima che Perseo tolga loro lo sguardo definitivamente, nascondendolo al terrore degli uomini. Eccone uno, verde, che si accanisce su un corpo a dieci metri da lui. Lo continua a scavare, finché non lo trapassa del tutto. E la luce può andare oltre, libera, e passare il plexiglas, e andare oltre ancora.

Le urla dei superstiti, si perdono verso l’uscita. Escono con i visi ridotti a maschere di follia, qualcuno con un braccio semistaccato, qualcun altro piegato in due da un morso di luce. Maschere comunque di sangue, misto a orrore.

Mangiafuoco li guarda impietrito. Smette di respirare anche se il cuore batte all’impazzata. È l’infarto che si annuncia.

 

24.

— “Ma non finisce qui…” … e l’aveva anche detto! — Yuri buttò su una sedia il pacco di giornali che aveva tra le mani. Tutti con titoloni in prima pagina riguardanti la disgrazia del Laser game: otto morti, cinque feriti e solo tre ragazzi illesi, ma sotto gli effetti di un violentissimo choc.

Improta sembrava non riuscire ad alzare il capo dalla sua scrivania. Era come impietrito, con lo sguardo assente, rivolto verso la tazza del caffè, ormai freddo. — La grande mattanza… ce l’ha fatta quel figlio di puttana. Ce l’ha fatta.

L’ispettore cercò di tirare su di morale il commissario e proseguì: — Che colpa ne abbiamo noi? Un sabotaggio così sofisticato non s’era mai visto. Un microtimer che dopo cinque minuti di gioco attiva un variatore di frequenze, che a sua volta attiva un modulatore di intensità dei raggi laser: una bomba a tempo. Mutolo aveva installato il modulatore sin dall’inizio. Solitamente per i giochi come il Laser game sono in commercio modulatori a bassissima intensità, che sparano innocui raggi di luce colorata. Il dispositivo che abbiamo trovato nell’impianto aveva il marchio della NASA.

— Chissà com’è riuscito a procurarselo — mormorò Improta.

— Commissario, proprio lei mi fa questa domanda, con tutti i traffici illeciti delle mafie: da quella russa a quella albanese. Ormai il plutonio e le armi sofisticate come appunto i raggi laser vengono trattati anche in mercatini come quelli di Piedigrotta o del Rione Sanità a Napoli, o a Bari, di fianco alle marloboro di contrabbando!

Improta per tutta risposta aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori la pistola. Yuri sgranò gli occhi e disse con una risata stentata: — Commissario, vabbè che è stato uno smacco, ma non tanto grande da giustificare il suicidio!

— Ma le dimissioni sì — rispose Improta appoggiando la pistola sul tavolo e tirando fuori dal cassetto anche il distintivo e una lettera con quattro righe battute a macchina e una firma fatta con una bic blu.

L’ispettore per un attimo provò una gran pena per quell’uomo battuto, che era arrivato sempre dopo in tutto, come un segugio privo d’olfatto che va ad inciampare sulla carogna di una preda già sbranata da altri cani. Un uomo che per settimane aveva sopportato i “Cattabriga di qua e i Cattabriga di là” dei giornali, che già poteva immaginarsi chi avrebbe preso il suo posto.

Avrebbe voluto fargli un discorsino retorico alla John Wayne, dicendogli che non può abbandonare la lotta contro il crimine proprio adesso, che è una lotta che per i tutori dell’ordine è fatta di vittorie e di sconfitte… tutte stronzate da film.

Avrebbe voluto indicargli Bologna, là fuori, oltre la finestra e dirgli che in quel preciso momento c’era qualcuno che stava tramando per mettere in discussione la sicurezza dei cittadini, per compiere reati e altre cazzate che piacevano tanto al commissario.

Ma a guardare la città, ancora più ingrigita da una settimana di pioggia, gli veniva in mente soltanto che da qualche parte c’era Silvia, che fumava, scopava, ballava, che provava vestitini attillati al mercato o nei negozi del centro, che ogni tanto studiava. Quasi mai.

Non seppe cosa dire, cosa fare, se non appoggiare una mano sulla spalla di Improta, una spalla da vecchio commissario, da ciuccio tirato su a grida di imbecille nella scuola di polizia, da abitante immancabile delle foto di gruppo del sindacato di polizia a Folgaria, papàdifamiglia di quelli che c’hanno nel portafoglio la foto della moglie e dei figli a Panarea, insieme al calendarietto in plastica con i centimetri e i giorni di ferie segnati a penna sin da gennaio, da funzionario orgoglioso dei suoi fugaci momenti di gloria, come la foto incorniciata dov’è ritratto accanto a un sottosegretario agli interni, chissà quale, in visita alla questura di Rovigo tanti anni fa.

I pensieri di Yuri furono interrotti dal un trillo improvviso del telefono. Improta guardò quella scatola di plastica come si osserva una strada all’inizio d’un bivio, come se l’atto di afferrare oppure no quell’oggetto presupponesse comunque una scelta irrevocabile. Al quinto squillo guardò Cattabriga. L’ispettore sorrise e alzò leggermente il capo, in segno d’invito a rispondere. Il vecchio poliziotto al settimo squillo fissò per un istante il distintivo, poi di nuovo il telefono. E la sua mano corse con uno scatto veloce alla cornetta.

— Commissario Improta … quando è avvenuto… sì… lasciate tutto così com’è…

Le sue parole si fanno più indistinte. Vediamo Improta e Cattabriga dall’alto della stanza. Il commissario guarda l’ispettore, gli dice qualcosa, poi continua a parlare al telefono. Ci allontaniamo. Ora li vediamo da fuori, attraverso la finestra. Il commissario ripone il telefono con gesto rapido, si alza, dice qualcosa all’ispettore, poi tutti e due escono quasi di corsa dalla porzione di stanza che ancora riusciamo a vedere. Passa qualche istante e una sirena squilla per le vie del centro. Ora siamo più lontani. Vediamo il palazzo della questura in mezzo a tanti altri edifici. I colori si stemperano. L’immagine appare rovinata dai segni di fine pellicola. E la città va sbiadendo sotto un cielo grigio. Buio. Accendete la luce.

 

 

(Fine)

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