di Gianfranco Marelli

Francesco Biagi, Henri Lefebvre. Una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano 2019, pp. 252, € 20

Non si abita lo spazio, si è abitati. Chi lo decide e perché? Quali le conseguenze? Quali le opportunità e le possibilità di ritornare padroni del proprio spazio/destino?
Francesco Biagi, nel suo ponderoso studio su Henri Lefebvre, affronta queste e altre problematiche di strettissima attualità ricostruendo il pensiero del filosofo-sociologo francese da sempre impegnato a rinverdire il pensiero e la pratica marxista a partire innanzitutto dalla critica della vita quotidiana per la sua intrinseca capacità di essere l’espressione più compiuta della modernità capitalista, vera e propria cartina di tornasole che al contempo «contiene simultaneamente le conseguenze nefaste dello sviluppo del capitale e, anche, le possibilità utopiche per ribaltarne il corso. Tale ambivalenza è la cifra entro cui recepire il pensiero di Lefebvre, il quale salda indissolubilmente teoria politica e prassi sociale» [p. 19].

Ed è proprio all’interno di questa griglia di lettura che Biagi espone il percorso teorico e metodologico di Lefebvre; percorso sviluppatosi all’interno del “secolo breve” e vissuto intensamente – dallo scoppio della rivoluzione russa, quando aveva 16 anni, fino alla sua dipartita all’età di novant’anni, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino e qualche mese prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica – con l’obiettivo di fare i conti con l’esperienza comunista. Infatti, sarà proprio la critica della vita quotidiana ad essere la lente di ingrandimento grazie alla quale Lefebvre leggerà e analizzerà la complessità del mondo moderno, in modo da poter individuare il punto archimedico in grado di trasformarlo, ad iniziare da una rivisitazione della prassi rivoluzionaria marxista, definitivamente sganciata da interpretazioni strutturaliste che ne avevano limitato e impedito l’afflato utopico e costretta entro le maglie di un determinismo economico-materialista di matrice althusseriana, oppure rimaneggiata in chiave umano-esistenzialista da Sartre, al punto da vanificarne la prassi sociale nonché l’incipiente lotta di classe.

Sì, perché la grandezza del filosofo di Hagetmau è stata quella di sbarazzarsi delle filosofie interpretative più seducenti e à la page del pensiero di Marx, tanto in voga nella Francia del secolo scorso, per affrontare un percorso di ricerca teorica tesa a confutare la presunta scientificità marxista al fine di coglierne concretamente la sua praxis di ribellione. Convinto, soprattutto, che lo sfruttamento cui è sottoposto il proletariato non è un concetto teorico da elaborare all’interno di un pensiero strutturato e definito, quanto una condizione concreta vissuta quotidianamente, necessaria a comprendere i modi, i luoghi e i tempi dello sfruttamento non soltanto circoscritto nel mondo della produzione, ma esteso e ampliato ad ogni aspetto della produzione di un mondo che ne determina la proletarizzazione della propria vita. Un simile approccio ha pertanto permesso a Lefebvre di ripensare e riflettere sui reali fattori che il sistema capitalista impiega per sfruttare il proletariato nella fabbrica/mondo, al punto da ripercuotersi anche al di fuori di essa, attraverso la produzione di un mondo/fabbrica contraddistinta da una vita quotidiana soffocata dalla merce e dai suoi falsi bisogni indotti dallo spettacolo consumistico di beni, generatrice del perbenismo borghese, che – a detta di molti sociologi e intellettuali engagées del secondo dopoguerra – aveva determinato la scomparsa della classe operaia in quanto classe rivoluzionaria.

Come sappiamo, la questione se ritenere il proletariato ormai soddisfatto del benessere raggiunto nel 2º dopoguerra, oppure considerarlo ancora l’agente rivoluzionario in grado di cambiare la società capitalista, è stato al centro del dibattito sviluppatosi all’interno della gauche, soprattutto in ragione del fatto che lo sviluppo economico aveva garantito un progresso sociale tale da consentire anche ai lavoratori un tenore di vita più consono alla disponibilità del consumo del proprio tempo libero, ben oltre il consumo del proprio tempo di lavoro. Tutto ciò aveva determinato la necessità di riconsiderare fino a che punto la qualità della vita dei lavoratori fosse cambiata in rapporto alla maggiore disponibilità di tempo da dedicare alla cura di sé e in che modo questa attenzione alla “vita privata” avesse contribuito a riconsiderare il proprio ruolo di lavoratore in una società sempre più urbanizzata e dedita al consumismo di massa.

Fu proprio durante i corsi di sociologia tenuti da Lefebvre nel 1961 all’Università di Strasburgo che l’analisi e la critica dei concetti riguardanti la quotidianità, l’urbano, lo spazio/tempo sociale, divennero il terreno sul quale furono poste le basi per ripensare la rivoluzione in un regime sociale in cui l’abbondanza delle merci – caratterizzante la società francese ed europea agli inizi de gli anni ‘60 – non poteva non nascondere la povertà, lo sfruttamento e la marginalizzazione subite dalle frange più deboli e reiette ammassate nelle grandi periferie urbane; infatti queste, assieme al significativo numero di studenti aumentati a seguito della scolarizzazione di massa, rappresentarono il nuovo soggetto proletariato in grado di opporsi al processo concentrazionario determinato dall’affermazione dell’ideologia funzionalista applicata all’organizzazione dello spazio urbano, così come l’architettura lecorbusiana andava diffondendo in tutte le metropoli mondiali.

Non a caso, fra i partecipanti di quei corsi di sociologia, figurarono personaggi come i situazionisti Debord e Vaneigem, nonché Jean Baudrillard – allora assistente di Lefebvre – e il giovane studente Daniel Cohn-Bendit che rappresentarono la punta più avanzata nel processo contestatario di lì a breve innescato durante il maggio francese nel 1968. Di tutto ciò Francesco Biagi nel suo lavoro ne offre un ampio resoconto, ravvedendo un importante crocevia dello sviluppo del pensiero di Lefebvre, in quanto permise al filosofo di temprare la propria ricerca sociologica, risalente ad una iniziale analisi delle trasformazioni avvenute durante il processo di urbanizzazione delle campagne francesi nell’immediato dopoguerra, con le trasformazioni conseguenti all’implodere delle città e il formarsi delle periferie, luoghi dove la marginalità urbana viene eletta come prospettiva per « svelare l’autentica realtà sociale, oltre e contro l’immagine di sogno promossa dai dispositivi spettacolari ed edonistici della città a matrice fordista».

Tale punto di vista, oltre a rispecchiare un’interpretazione situazionista della città come spettacolo della merce, avanza l’ipotesi di un’epistemologia sociologica della marginalità, che secondo Biagi, consente di osservare l’intera società a partire dalla periferia, ridefinendo radicalmente l’osservazione sul resto dello spazio urbano in modo da consentirci di «assumere uno sguardo più preciso sulla complessità delle situazioni sociali che ci ritroviamo di fronte. È il particolare punto di vista di chi è oppresso e più debole, di chi vive ai margini come scarto, che ci rende intellettualmente tangibile il concreto stato di salute della vita urbana della città » [p. 96]. Ecco dunque compresa l’attenzione che Lefebvre dedica allo studio della città e al suo farsi territorio urbano complesso e indistinto, in quanto vi intravvede la proiezione della società sul suolo: «una società nella sua interezza, una totalità sociale o una società considerata come totalità, compresa la sua cultura, le sue istituzioni, la sua etica, i suoi valori, in breve le sue sovrastrutture, compresa la sua base economica e i rapporti sociali che costituiscono la sua struttura propriamente detta» [p. 99].

Proprio nel considerare la città quale sineddoche della società, Lefebvre può essere considerato un pensatore della “crisi” della città proiettata sull’intera società; pertanto la sua osservazione sociologica sull’organizzazione dello spazio urbano non è altro che una riflessione sui tempi storici che hanno consentito al sistema capitalistico di affermarsi compiutamente nel tessuto della società attraverso il processo dialettico e conflittuale fra città e campagna, determinando l’obesità dell’urbanizzazione a scapito del dimagrimento dello spazio rurale. Un fenomeno lebbroso che ha infettato l’intero spazio sociale a partire dagli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, trasformando l’ambiente rurale e urbano in un “habitat” standardizzato, massificato su larga scala e funzionale alla produzione capitalista globalizzata, al punto da cancellare quasi completamente l’originalità che contraddistingueva la pratica relazionale fra l’uomo e il mondo nelle differenti forme di vita espresse nel modo di “abitare” il luogo attraverso la partecipazione alla vita sociale, il sentirsi parte di una comunità, la possibilità di una vita quotidiana attiva, felice, armonica, per opporsi alla tanto pubblicizzata “vita privata”. Sì … privata di fare in prima persona la propria la storia, perché resa omologa e indistinta in ogni suo ruolo assegnatoli – di lavoratore, di cittadino, di turista, di consumatore del proprio tempo libero – al punto da essere riprodotta in ogni luogo come e più di qualsiasi altra merce in commercio, in quanto “bene” così prezioso da sfruttare e vendere ad libitum.

Concorde con Debord nel considerare proletari coloro che non hanno alcuna possibilità di modificare lo spazio-tempo sociale che la società concede loro di consumare, Lefebvre si chiede assieme al situazionista parigino se una simile realtà, diretta conseguenza dell’incapacità di “saper abitare” – in quanto «il nostro abitare odierno è ossessionato dal lavoro, reso instabile dalla ricerca del vantaggio e del successo, succube dell’industria del tempo libero e dei divertimenti» – , non possa trovare proprio nella critica della vita quotidiana la possibilità di riformulare il progetto rivoluzionario a partire dalla necessità di changer la vie che le avanguardie artistiche del ‘900 avevano manifestato compiutamente e che l’esperienza del proletariato, durante i tre mesi della Comune di Parigi, aveva provato a praticare proprio a partire dalla presa della città e dalla sua riorganizzazione in senso autogestionario e federalista dello spazio sociale.

Anche di questa nuova fase del pensiero del filosofo di Hagetmau, il libro di Francesco Biagi ne dà ampia documentazione, evidenziando puntualmente quanto «nella scena della vita quotidiana, Lefebvre registra una dialettica permanente fra piattezza e straordinarietà dell’esistenza»; una dualità che contrapponendo alla serialità capitalista l’originalità di ogni vita umana, determina un’eccedenza che «non è mai pienamente sussunta e trova espressione in alcuni “momenti” delle pratiche di vita quali l’arte, l’amore e il gioco. In Lefebvre, infatti, è determinante il riferimento alla poiesis del quotidiano, alla riappropriazione utopica di una dimensione estetica caratterizzata da una cifra profondamente rivoluzionaria e indomabile dalla matrice capitalistica; si tratta dell’ipotesi di un’arte di vivere che mira a consolidarsi non solo come mezzo ma come fine» [ p. 181].

Appare del tutto trasparente la simbiosi tra l’analisi lefebvriana e il pensiero situazionista che riceve e offre un’ulteriore radicalità alla critica della vita quotidiana, grazie alla propria esperienza nell’ambito artistico, sottoposto proprio in quegli stessi anni ad una feroce e aggressiva contestazione, con l’obiettivo di liberarlo dalla mordacchia dell’arte per l’arte in cui la società borghese l’aveva costretto e utilizzato al pari di un rossetto per le labbra da porre all’allora funzionalismo architettonico, al fine di ritrovarvi il suo primitivo significato sociale, teso a prefigurare la possibilità di superare l’arte realizzandola nella “costruzione di situazioni”, proprio attraverso la critica dell’urbanistica, la psicogegrafia, il gioco, il détournement. E quale miglior luogo di confronto/scontro con i situazionisti se non l’analisi della Comune di Parigi del 1871, interpretata da entrambi come la prima realizzazione della critica all’urbanistica del prefetto Haussmann da parte del proletariato insorto, finalmente padrone della città e del proprio destino.

Naturalmente, in sintonia con Biagi, lasciamo agli esegeti stabilire chi fra i situazionisti e Henri Lefebvre sia stato il primo a teorizzare il fatto che la Comune fosse stata “il tempo di una festa”, la “sospensione del tempo storico”, l’istante di un’interrotta battaglia che ha consentito ai comunardi di svelare le modalità oppressive del potere, realizzando la critica dello spazio sociale quale pratica dell’utopia concreta a partire dalla conquista della città e la riappropriazione della propria vita. Ci importa invece continuare il percorso che condusse Lefebvre a teorizzare il “diritto alla città” come conseguenza logica del conflitto in atto fra gli emarginati della città/mondo e chi governa il mondo/città in modo concentrazionario; conflitto maturato nella fase dello sviluppo economico fordista – quando l’esigenza di costruire alloggi per una popolazione urbana costantemente in crescita aveva trovato nel funzionalismo architettonico di Le Corbusier il corrispettivo ideologico di un urbanismo finalizzato alla creazione di macchine per abitare – e in seguito imploso con l’affermarsi della globalizzazione neoliberista, in cui le conurbazioni mondiali si sono trasformate in domicili da abitare come macchine, con i suoi abitanti/passeggeri considerati optional smart da poter interscambiare secondo le esigenze connesse al percorso produttivo della merce e riproduttivo della vita delle persone.

A fronte di questo repentino cambiamento dell’assetto urbano, sempre più macchina/dispositivo di controllo e sempre meno luogo abitabile/socializzabile di convivenza partecipativa, il concetto lefebvriano di “diritto alla città” non può e non deve essere inteso come uno dei tanti diritti da aggiungere alla lista dei “diritti universali”. Al contrario deve divenire una pratica in grado di aprire una “breccia” sui possibili modi per intaccare e rodere la produzione dello spazio capitalista; o – per dirla con i situazionisti – un “buco positivo” che lacera lo spazio occupato dal potere e contemporaneamente intraprende la costruzione di situazioni con l’obiettivo di dètourner l’habitat da parte degli insorti, così da poter realizzare l’urbanesimo unitario mediante l’edificazione, non certo di uno “spazio alternativo” e neppure di una “eterotopia” da contrapporre in parallelo all’isotopia imperante, ma il totale rovesciamento della spazialità che segrega il proletariato, lo sfrutta e lo aliena all’interno di città funzionali allo spettacolo della merce. In tal senso il “diritto alla città” – precisa Biagi – è «essenzialmente un esercizio pratico dell’agire politico, è un ambito dell’umano che riguarda la prassi politica radicale indirizzata al raggiungimento di un’autentica democrazia, anche nella sua dimensione spaziale. È il rovesciamento della città come “merce” da parte di chi è escluso, oppresso, e la dialettica ricostruzione di un essere-in-comune della polis come “opera” di coloro i quali la abitano. […]Trasformare il proprio spazio di vita, renderlo utile ai bisogni di tutti è l’autentica via per praticare quell’ideale utopico-pratico che Lefebvre ha chiamato “diritto alla città”. La città come prodotto, come merce è così rovesciata in favore di una città come opera autentica, al servizio – all’uso – di chi la abita.» [pp.203-204].

Certo, Lefebvre era ben consapevole della possibilità che il “diritto alla città” potesse essere recuperato, riciclato e riconquistato dal sistema capitalistico, svuotandone il contenuto sovversivo e riadattandolo ad una visione riformista, allo stesso modo di quanto è stato fatto con il concetto changer la vie, arrivando «a cambiare l’immagine della vita, invece di aver cambiato la vita stessa». Del resto questa è la lettura più comune che viene offerta ogni qualvolta è ripreso il concetto lefebvriano all’interno di una politica urbanistica protesa a migliorare, abbellire lo spazio urbano in modo da renderlo più accogliente, più vivibile, ma soprattutto meno conflittuale. Pure, sono le condizioni stesse dell’habitat urbano – sottoposto ad un processo di implosione delle città, trasformate in luoghi anonimi e al contempo identici per l’effetto dell’espulsione dal centro dei suoi abitanti, dispersi nelle periferie senza soluzione di continuità con la campagna urbanizzata, e la loro sostituzione in abitati per turisti – che individuano nello spazio urbano la posta in gioco di una «contesa fra chi può essere visibile e avere voce e chi invece deve rimanere invisibile e senza possibilità di proferire parola». Contesa che avrà le conseguenze di un Armageddon fra l’apocalisse di un capitalismo predatore delle risorse umane e ambientali, e l’utopia concreta del “diritto alla città”: gesto eroico di chi – come i comunardi parigini del marzo 1871 e i rivoltosi del Maggio 1968 – fino all’ultimo istante saprà coraggiosamente tenere aperta «la piccola breccia utopica contro il tempo della sottomissione».

Per ritornare ad essere abitatori del proprio spazio/destino, in nome della vita contro la sopravvivenza.