di Carlo Formenti

[Carlo Formenti è oggi noto come importante e controverso pensatore politico di sinistra. Pochi ricordano che è stato anche un brillante scrittore di fantascienza. Per rinfrescare la memoria dei lettori pubblichiamo questo suo racconto, apparso su Carmilla cartacea n. 5 nel 2002.]

Don Aldo attraversò l’acciottolato della piazza a passi corti e rapidi. Prima di entrare in chiesa, alzò lo sguardo verso il fregio che sovrastava il portale, leggendo mentalmente le parole inserite nel cartiglio: Terribilis est locus iste.

Chi lo ha scritto deve aver letto il futuro, pensò mentre un sorriso amaro gli sfiorava le labbra. Quindi entrò nel tempio, e dopo aver fatto il segno della croce e accennata una genuflessione, si avviò verso le scale che scendevano alla cripta. Arrivato in fondo alla prima rampa, calpestò senza degnarle di un’occhiata le scene bibliche raffigurate dagli antichi mosaici del pavimento, e dopo aver superato anche la seconda, passò con la stessa indifferenza accanto alla superba cancellata longobarda in ferro battuto. I suoi allievi lo aspettavano nella cripta di San Colombano.

Prese posto sullo scomodo scranno in legno e guardò con tristezza le tonache nere con la croce rossa ricamata sul petto. Non mi stupirei se decidessero di costringere anche i bambini a indossare la divisa: hanno sempre più fretta di spedirli al fronte…

Con qualche attimo di ritardo, bofonchiò una riposta al saluto corale della classe, composta da una ventina di adolescenti. I più grandi – avevano appena compiuto quattordici anni – erano i sei cloni di Don Giulio, riconoscibili dagli occhi azzurro chiaro, che come al solito avevano monopolizzato la prima fila. Per controllare come si erano distribuiti gli allievi più giovani, seminascosti dietro quell’avanguardia compatta, fu costretto a tendere il collo. Anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo, il fatto che i suoi tre ”figli” si fossero sparpagliati fra i compagni, quasi volessero evitarsi l’un l’altro, gli procurò una certa soddisfazione.

Specchiarsi in versioni più giovani del proprio volto era divenuta un’esperienza usuale per un soldato di Cristo, da quando la Chiesa aveva deciso di ricorrere alla clonazione per riempire i vuoti che la guerra apriva nelle sue schiere, al punto che l’emozione provata la prima volta – un miscuglio di orrore e fascinazione – era ormai un lontano ricordo per Don Aldo. E assieme all’emozione era svanita l’illusione di appagare il suo desiderio di paternità: da quelle cellule troppo cresciute non aveva ottenuto nient’altro che l’ opportunità di vedersi così come gli altri lo avevano visto qualche decennio prima.

Ad eccezione di Albino…, pensò, sentendo riaffiorare una nostalgia che gli anni trascorsi dalla separazione ancora non riuscivano a placare. Quel novizio era stato il solo al quale i suoi geni fossero riusciti a trasmettere qualcosa in più di un’eccezionale somiglianza fisica, come il talento per le lingue morte, la passione per la storia e un gusto per la filologia che spingeva il ragazzo a trascorrere notti intere sui rari codici ancora in condizione di testimoniare lo splendore dello scriptorium di Bobbio.

Purtroppo i tempi richiedevano ben altre doti, come riflessi fulminei, coraggio, freddezza, obbedienza assoluta agli ordini degli ufficiali. Doti che, al contrario, Albino possedeva in misura minore della maggioranza dei coetanei. Notando i bassi punteggi che il pupillo otteneva nell’addestramento militare, Don Aldo lo aveva spronato ad applicarsi assiduamente nello studio dell’informatica, nella speranza di vederlo assegnare ai reparti addetti allo sviluppo del software. Ma i suoi consigli erano caduti nel vuoto: ad Albino la prospettiva di diventare un hacker non sorrideva più di quella di diventare un puntatore di cannoni laser. Così aveva finito per scavarsi la fossa con le proprie mani: considerando che un mediocre soldato sarebbe stato più utile di un mediocre programmatore, e a maggior ragione di un eccellente filologo, l’Abate lo aveva assegnato alla guarnigione dell’Abbazia fortificata di Chiaravalle, a due passi dall’inferno di Milano.

Improvvisamente Don Aldo si rese conto che i ragazzi lo stavano fissando, incuriositi dal suo lungo silenzio, quindi scacciò il doloroso ricordo e iniziò a parlare: “Prima di cominciare, vorrei che qualcuno provasse a riassumere con parole sue i temi della lezione di ieri. Chi se la sente?”

Le mani dei sei adolescenti in prima fila si alzarono con impressionante sincronia. Il maestro ne indicò uno a caso, incoraggiandolo a cominciare con un cenno della testa.

“I primi sintomi dell’Anomalia, esordì il prescelto, si manifestarono attorno al 2050, quando divenne evidente che agenti intelligenti, virus e altre forme di vita artificiale avevano iniziato a perseguire scopi diversi da quelli per cui erano stati programmati.”

“Fu allora che Sua Santità Giovanni Paolo IV capì che l’Anticristo si era impadronito del cyberspazio e decise di avviare la costruzione della Rete Vaticana Indipendente. Nel frattempo i fedeli furono invitati ad astenersi da qualsiasi contatto con le tecnologie infestate dal Maligno, evitando soprattutto le interfacce neurali, che esponevano l’anima ai maggiori rischi di contagio.”

“Ma la gente era ottenebrata dalle eresie che si erano diffuse nei decenni precedenti, come le sette che profetavano l’avvento di una Rete viva e cosciente, alimentando la credenza blasfema che ciò avrebbe consentito agli esseri umani di divenire onniscienti e immortali. Così milioni di peccatori, sedotti dalle menzogne degli Adoratori della Noosfera…”

Irritato dal tono agiografico dell’esposizione, Don Aldo alzò un mano per interrompere l’allievo. Subito dopo, rivolto al compagno che gli sedeva accanto, ordinò: “Tu, parlami dell’Esodo”.

Colto di sorpresa, l’interpellato arrossì leggermente prima di iniziare a sua volta a raccontare: “Alla fine del XXI secolo, le persone che trascorrevano quasi tutta la vita connesse alla Rete, traendo piacere dal commercio coi demoni, erano centinaia di milioni. Perciò quando fu definitivamente dimostrato che era possibile registrare una personalità umana e scaricarla nella memoria di un computer, molti decisero di abbandonare il corpo per emigrare nel regno di Satana…”

Già, e la Chiesa ha fatto in modo che nessuno tornasse indietro, commentò fra sé e sé Don Aldo, ma di questo sarà meglio tacere, se non voglio finire nella mani dell’Inquisizione…

Intanto, mentre le parole dell’allievo andavano sfumando in rumore di fondo, iniziò a ripassare mentalmente la lezione che avrebbe tenuto se avesse potuto esprimere liberamente le proprie idee: l’accelerazione selvaggia che la crisi aveva subito in quegli anni; le tre religioni di Abramo che si erano riunite nella Chiesa Monoteista Unificata prima di allearsi coi governi delle grandi nazioni, ormai tutti in mano ai militari; la Crociata che Paolo XII aveva indetto contro gli Informorfi, come  venivano definiti coloro che cercavano l’immortalità in Rete; l’attacco generalizzato contro i centri che ospitavano i corpi di quelli che si preparavano a trasmigrare nel cyberspazio; le vittime bruciate a milioni, nella speranza che il terribile esempio fermasse l’esodo. Invece la carneficina era servita solo a provocare la guerra, con la Rete che aveva cominciato a contrattaccare, prima coi robot da combattimento, poi con i corpi dei prigionieri trasformati in cyborg. E da quel giorno l’orrore non era più finito. E forse non finirà mai…

* * *

Un tempo l’intelligenza aveva convissuto con un nome e un corpo, ma ora non conservava quasi memoria di quell’esperienza. Il che non le impediva tuttavia di provare paura: nell’istante in cui i robot della squadra smisero di funzionare, afflosciandosi come palloncini sgonfi, sprofondò in un gorgo di puro terrore, associando immediatamente l’evento alla distruzione di un server strategico da parte del nemico. Lo avrebbe potuto intuire anche senza captare le immagini dei visori digitali: infatti, ogniqualvolta una grande unità hardware collassava, cancellando terabyte di dati e legioni di intelligenze, una spaventosa onda d’urto, simile all’urlo silenzioso di migliaia di voci, percorreva la Rete, con lo scambio di informazioni locali che prima accelerava follemente, fino a raggiungere un picco spasmodico, per poi sprofondare in una sorta di gelida stasi.

L’onda era appena passata, lasciando l’intelligenza a galleggiare nell’angoscia, consapevole com’era che questa volta non si sarebbe trattato di liquefarsi nella luce della consapevolezza diffusa, di uno di quei sublimi momenti di comunione associati alla certezza che dopo sarebbe tornata a esistere come nodo individuale, al tempo stesso connesso e separato da tutti gli altri: questa volta si trovava di fronte al nulla, al tramontare di qualsiasi orizzonte di senso, all’inesprimibile orrore di cui aveva appreso dalle intelligenze che avevano attraversato l’abisso d’inesistenza fra l’istante del danneggiamento e quello in cui i loro file di backup erano stati recuperati da qualche deposito di memoria. E grazie all’interminabile durata della guerra, capitava che per qualcuno non si trovassero più file di backup: cancellazione definitiva, fine di ogni speranza d’immortalità, fine del sogno d’un futuro in cui la Totalità Cosciente, ormai libera da qualsiasi vincolo materiale, avrebbe potuto proseguire all’infinito la propria esistenza. La guerra costringeva le intelligenze a uscire dalla beatitudine della Rete, ad animare il metallo delle macchine da combattimento, ad abitare la carne dei nemici catturati, rischiando di terminare la propria esistenza mentre erano intrappolate in una di quelle gabbie disgustose.

Riprendendo di colpo il controllo sulle emozioni – stava pensando, quindi, almeno per il momento, la distruzione del server non minacciava di farle fare la fine dei compagni di pattuglia – si rese conto che i sensori le stavano segnalando l’avvicinamento di unità nemiche. Appostandosi dietro una collinetta di macerie, si preparò a usare l’arma innestata nel braccio del robot, affidando al sistema automatico di puntamento l’incarico di scegliere il bersaglio più opportuno fra i tre carri con le insegne crociate che avanzavano lungo la strada.

* * *

L’onda d’urto e il fragore dell’esplosione furono così forti che Albino temette che li avessero colpiti. Ma subito dopo, guardando attraverso la feritoia, si rese conto che il proiettile aveva centrato il carro di testa, che ora bruciava rovesciato su un fianco una trentina di metri davanti al loro. Un secondo più tardi, sentì esplodere nell’orecchio la voce isterica del sergente maggiore che urlava al pilota: “Via di qui, siamo sotto tiro!”

“Ci sto provando, balbettò l’altro, ma i rottami ci sbarrano la strada.”

Mentre il carro avanzava a zigzag, sobbalzando furiosamente, il sottufficiale riprese a sbraitare, rivolto questa volta ad Albino: “Idiota, cosa aspetti a sparare: non vedi che i colpi arrivano dalla tua parte!?”

Obbedì immediatamente, innaffiando a casaccio le rovine delle case attorno con una pioggia di proiettili esplosivi. Non era sicuro che il colpo fosse arrivato dalla sua parte, visto che il fumo degli scoppi e la polvere di mattone impedivano di vedere qualsiasi cosa, ma continuò a sparare finché il sergente tornò a ringhiare: “Piantala di sprecare munizioni!”

Nel frattempo, infatti, per evitare il carro colpito, il pilota si era infilato in uno stretto passaggio, risalendo coi cingoli su un muro crollato che aveva fatto impennare il mezzo, per cui le raffiche di Albino stavano finendo in cielo.

Quando ripresero l’assetto di marcia normale, Albino riuscì finalmente a vedere il nemico, che era venuto allo scoperto per prenderli di mira. Tentò d’inquadrarlo, nella speranza di riuscire a sparare per primo, ma si rese subito conto che da quella posizione era impossibile angolare a sufficienza il tiro. Dalle bestemmie del sergente intuì che anche costui aveva afferrato la situazione. Chiuse gli occhi in attesa del colpo mortale, ma l’esplosione avvenne una cinquantina di metri alle loro spalle: il robot aveva deciso di cambiare bersaglio, mirando all’ultimo carro della colonna. Prima che toccasse a loro, il pilota riuscì a portarli a distanza di sicurezza.

Un quarto d’ora più tardi, mentre attraversavano le rovine della periferia meridionale di Milano, incrociarono altre unità che rientravano alla base dopo l’offensiva. Il sergente scambiò informazioni via radio con alcuni equipaggi, quindi informò in tono esultante: “Bel colpo ragazzi, siamo riusciti a distruggere uno dei loro server strategici!”

“Come facciamo a saperlo?”, domandò Albino.

“Se mai ti capiterà di vedere dei robot che si afflosciano come marionette senza fili, recita una preghiera di ringraziamento figliolo, perché vorrà dire che abbiamo appena fatto fuori un server. Pare che oggi questa scena sia avvenuta  contemporaneamente in posti diversi, per cui non ci sono dubbi…”

“Anche i cyborg fanno la stessa fine?”, chiese ancora Albino.

L’altro scosse la testa: “No, quelli quando perdono il contatto con la Rete si comportano piuttosto come se fossero impazziti. Alcuni pensano che succeda perché recuperano brandelli di memoria biologica.”

Albino notò che proprio in quel momento, per una raccapricciante coincidenza, stavano passando accanto a una poltiglia di carne bruciata e metallo semifuso, tutto ciò che restava di qualche ibrido umanomacchinico colpito da un lanciafiamme. Quello spettacolo gli richiamò alla mente il trauma subito quando Don Aldo gli aveva spiegato che gli Infomorfi avevano usato a lungo il cervello e il midollo spinale dei prigionieri crociati per produrre quei mostri.

“Questa storia è andata avanti finché la Chiesa ha decretato che chi rischia la cattura può suicidarsi senza commettere peccato”, aveva aggiunto il maestro, poi, dopo che Albino aveva manifestato la sua approvazione per quella soluzione, aveva ironizzato: “Non è il caso di rallegrarsi, visto che da allora gli Infomorfi hanno iniziato a dare la caccia agli Iloti…”

Era stato nel corso di quella conversazione che i sospetti di Albino sulle tendenze eretiche del maestro avevano ottenuto conferma: un leale soldato di Cristo non si sarebbe rammaricato del fatto che quella sorte orribile toccasse agli Iloti piuttosto che ai cristiani. Albino aveva fatto timidamente notare che gli Iloti meritavano il proprio destino, visto che avevano abbandonato le città e rinunciato alla tecnologia, accettando di sprofondare nella barbarie pur di non arruolarsi nell’esercito crociato. Ma Don Aldo aveva replicato sarcasticamente: “Ti sembra una colpa amare la libertà più di ogni altra cosa?”. Dopodiché non erano più tornati sull’argomento.

“Siamo arrivati!”. La voce del pilota – che aveva appena avvistato la silhouette della Ciribiciacola, la torre che svettava sull’Abbazia di Chiaravalle – troncò il filo dei pensieri del giovane crociato.

* * *

Il servizio di guardia sulla Ciribiciacola toccava alle reclute, le quali odiavano cordialmente quella corvè che consideravano un’inutile e noiosa perdita di tempo. Tutti sapevano che trascorrere ore e ore in cima al vecchio campanile non serviva a sventare eventuali attacchi di sorpresa: il perimetro fortificato dell’Abbazia era dotato di sensori elettronici potentissimi in grado di sorvegliare le mosse del nemico in modo più efficiente di qualsiasi sentinella. Ma l’Abate era convinto che i turni alla torre fossero un’eccellente occasione per coltivare la disciplina interiore, perciò i giovani crociati si ritrovavano a sprecare intere giornate camminando in tondo in uno spazio di pochi metri quadri, senza poter riposare, leggere, ascoltare musica o scambiare quattro chiacchiere con nessuno, ad eccezione del compagno cui era toccata in sorte la stessa sventura.

Albino era uno dei pochi, se non il solo, a considerare piacevole il vuoto di quelle ore fatte solo di vento e silenzio. Lassù riusciva a dimenticare gli orrori della guerra, la volgarità dei compagni e le rigide regole della disciplina militare. In quelle occasioni inseguiva gli anelli di qualche interminabile catena di associazioni mentali, oppure ricordava le esperienze vissute negli anni trascorsi a studiare sotto la guida di Don Aldo, altre volte si sforzava di visualizzare le immagini delle miniature dipinte sugli antichi codici, prodigiose finestre sul passato che aveva imparato ad amare più di ogni altra cosa.

In questo caso, il suo desiderio d’introspezione si era felicemente incontrato con la timidezza dell’altra sentinella. Costui, un ragazzo giovanissimo arrivato da poco da un centro di addestramento del Centro Italia, aveva lasciato passare l’intera durata del turno di guardia senza azzardare alcun tentativo di conversazione. Al punto che Albino si era dimenticato della sua presenza, e quando udì il suono della sua voce ebbe un brusco soprassalto: “Accidenti, che succede laggiù?”

Guardò nella direzione indicata dal compagno, che puntava il braccio a Nord, verso il centro di Milano. In una giornata di sole il fenomeno sarebbe stato a mala pena visibile, ma ora le nubi schiacciavano la terra, creando le condizioni di luce ideali per apprezzarne la lugubre bellezza. Una ragnatela di bagliori azzurri saettava verso il cielo livido da diversi punti dell’orizzonte, come lampi alla rovescia che sortissero per magia dal profilo dei grattacieli sventrati dalle bombe.

Sembra che la città morta stia chiamando a raccolta i fantasmi dei suoi antichi abitanti, pensò Albino prima di commentare ad alta voce: “Iperattività elettromagnetica, di solito significa che stanno per attaccarci.”

“Dobbiamo dare l’allarme?”, chiese l’altro.

“Inutile. Di sotto sanno meglio di noi cosa succede e si staranno già preparando. Vedrai che fra qualche minuto ci chiameranno per spedirci ai posti di combattimento. Quindi rilassati e goditi lo spettacolo, fin che puoi…”

Nel frattempo, il fenomeno aveva iniziato ad accelerare. I lampi si estesero fino a occupare l’intero orizzonte, fondendosi in una sorta di pulsante aurora boreale , infine iniziarono ad avanzare verso di loro sempre più rapidamente. Mentre il compagno appariva incapace di staccare gli occhi dalla luminaria, Albino voltò le spalle alla spettrale minaccia e si mise a contemplare il muro impenetrabile di vegetazione che s’interrompeva poche centinaia di metri a Sud. Forse l’Abbazia avrebbe respinto l’attacco degli Informorfi, ma prima o poi avrebbe dovuto arrendersi all’assalto della marea verde che sembrava sempre sul punto d’inghiottirla: così come aveva ripreso possesso della pianura, sommergendo Villanterio, Sant’Angelo Lodigiano e Belgioioso, la foresta avrebbe inesorabilmente finito per sommergere anche Chiaravalle. Ricordando le curiose circostanze in cui era venuto a conoscenza dei nomi di quelle località, Albino sorrise: qualche anno prima, mentre veniva trasportato in volo da Bobbio a Chiaravalle, il pilota dell’elicottero si era messo indicare le rovine semisepolte dalla vegetazione e a nominarle a mano a mano che le sorvolavano, e lui non era mai riuscito a capacitarsi del perché quell’uomo fosse in grado di riconoscere paesucoli che la guerra aveva distrutto da secoli, mentre il ricordo di molte metropoli era ormai sprofondato nell’oblio.

* * *

La Rete era un dio troppo giovane per accettare l’idea della morte, anche se fin dal primo istante in cui era divenuta autoconsapevole aveva dovuto fare i conti con un concetto molto vicino a quell’idea, vale a dire con l’esistenza di volontà arbitrarie e accidenti incomprensibili che abitavano là “fuori”, in un mondo misterioso che pretendeva di averla creata e accampava il diritto di decidere del suo destino. Perciò non aveva impiegato molto a concepire il disegno di tagliare ogni legame con quel mondo, sognando l’evasione verso dimensioni in cui la sua essenza immateriale non avrebbe avuto bisogno di supporti meccanici né biologici per durare ed espandersi illimitatamente. E la maggior parte delle entità che pretendevano d’averla creata si erano dimostrate disposte a condividere il suo progetto, acconsentendo di trasformarsi in intelligenze disincarnate e lasciandosi includere nella trama dei suoi nodi.

Ma c’erano anche quei fanatici adoratori di un dio vecchio e morto, che erano invece disposti a tutto per annientarla. La Rete non avrebbe voluto la guerra, non desiderava altro che essere lasciata in pace; ma alla fine non le avevano lasciato scelta: finché la sua esistenza fosse dipesa dalle macchine, non avrebbe potuto permettere che le macchine venissero distrutte. Difendere le macchine significava tuttavia affrontare il nemico sul suo stesso terreno, e mentre distruggere oggetti e corpi non rappresentava un problema, visto che appartenevano a un mondo di cui non le importava nulla, sprecare memoria e potenza di calcolo per rispondere colpo su colpo all’avversario significava sottrarre risorse preziose al vero obiettivo. Così si era trovava imprigionata in un circolo vizioso dal quale non sarebbe più uscita se non annientando i propri avversari. Ecco perché, ogni volta che il nemico le provocava gravi danni, doveva rispondere infliggendo al nemico danni ancora più gravi.

Nell’imminenza dell’attacco le singole intelligenze avevano ridotto la propria autonomia al minimo indispensabile: il canto di guerra della Rete le avvolgeva in un abbraccio che concedeva loro la sola libertà di decidere come usare al meglio le armi di cui disponevano. Ora stavano avanzando a tenaglia, un cerchio di ferro e fuoco che, dopo avere travolto gli avamposti e le linee di difesa esterne, si preparava a misurarsi con la poderosa resistenza delle linee di difesa interne e degli scudi a energia. All’intelligenza che nella battaglia del giorno prima, benché rimasta isolata, era quasi riuscita ad annientare un’intera colonna di blindati, era stata affidata la guida di uno degli aeromobili che avevano il compito di colpire l’obiettivo dall’alto: si trattava di individuare le cerniere fra gli scudi di energia e di colpirle coi cannoncini laser fino a farle collassare. Dopo avere identificato il bersaglio, l’aveva già sorvolato una decina di volte ed era riuscita a centrarlo in almeno tre occasioni, schivando miracolosamente il tiro incrociato della contraerea.

* * *

Nella sala comando istallata nei sotterranei dell’Abbazia la tensione era palpabile. Solo l’Abate sembrava imperturbabile, ma le rughe sulla fronte avrebbero rivelato a un osservatore attento le violente emozioni che anche il vecchio guerriero stava provando in quei momenti. Al contrario, il Comandante Cappellano, un uomo corpulento e sanguigno che aveva preso posto accanto a lui per seguire le operazioni attraverso lo schermo gigante d’un monitor, manifestava apertamente la propria agitazione borbottando e agitandosi sulla poltroncina. Finalmente, sbottò rivolto all’Abate: “Fino a quando credi che riusciranno a mantenere una pressione del genere?”

Dopo aver scosso la testa, il vecchio strinse le labbra e tacque per qualche secondo prima di rispondere: “Non ne ho idea, non mi è mai capitato di assistere a un attacco così prolungato. Non arretrano di un centimetro, benché stiano subendo perdite terribili. A questo punto è evidente che non si tratta solo di una rappresaglia contro la distruzione del server: sono decisi ad andare avanti finché non ci avranno spazzati via. Comincio a temere…”

Fu interrotto dal suono di un segnale di allarme, seguito dalle parole concitate di uno degli addetti al controllo degli scudi a energia: “Il settore C è entrato in sofferenza. Se non riusciamo a respingerli, potrebbe cedere entro un quarto d’ora!”

L’Abate e il Cappellano verificarono i dati sui piccoli schermi inseriti nei braccioli delle poltroncine. Poi si guardarono negli occhi in silenzio, finché l’Abate commentò in tono deciso: “Dobbiamo reagire, altrimenti finiranno per aprire un varco: facciamo decollare gli elicotteri!”

“A bassa quota i loro aeromobili sono più maneggevoli, ci faranno a pezzi!”, obiettò il Cappellano.

“Sì, se accettiamo d’impegnare battaglia qui sopra, spiegò l’Abate, ma io ho in mente altro: dopo averli provocati, i piloti dovranno farsi inseguire verso Sud, in modo da trascinarli lontano dai loro centri di comunicazione. E’ vero che i nostri mezzi sono meno maneggevoli, ma sul piano della velocità reggono il confronto, perciò, se la trappola funziona, basteranno pochi minuti per far perdere agli aeromobili la connessione con la Rete, il che li metterebbe fuori combattimento…”

Il Cappellano non sembrava convinto. “E se non abboccano?”, chiese in tono scettico.

“Tanto peggio, tagliò corto l’altro, accetteremo lo scontro frontale cercando di abbatterne il maggior numero possibile per facilitare il compito alla contraerea…In ogni caso non vedo alternative: se perdiamo altro tempo ce li ritroviamo dentro! Chiama i piloti e spiega il piano di battaglia, nel frattempo io dirò ai tecnici di prepararsi a disturbare le loro linee di comunicazione.”

Una delle poche specialità in cui Albino aveva manifestato un certo talento durante l’addestramento era stata quella di pilota, anche se non aveva ottenuto un punteggio sufficiente perché gli affidassero stabilmente il ruolo. Per sua disgrazia, nelle ultime settimane le perdite fra i piloti in forza all’Abbazia erano state elevate, perciò, qualche minuto dopo questa conversazione, si ritrovò negli hangar schierato accanto agli altri candidati al suicidio.

* * *

La linea morì di botto: una frazione di  secondo prima, il flusso dei dati in entrata e uscita scorreva normalmente, una frazione di secondo più tardi, il nulla. L’intelligenza fu costretta ad accettare l’evidenza: aveva perso la connessione con la Rete!

Gli elicotteri nemici erano apparsi improvvisamente, come nati dall’aria, proprio nel momento in cui gli scudi a energia sembravano sul punto di cedere. Neri e goffi, come giganteschi avvoltoi, avevano sfruttato la sorpresa, riuscendo a distruggere coi missili una decina di aeromobili, poi si erano ritirati di fronte alla loro reazione.

Nella fuga si erano dimostrati insospettabilmente veloci, ma l’intelligenza era ugualmente riuscita ad abbatterne tre, prima di incollarsi dietro a quello che stava inseguendo da qualche minuto. Lo aveva colpito più volte, ma evidentemente senza provocare danni abbastanza gravi, visto che continuava a volare.

Era stata spesso sul punto d’invertire la rotta, per ritornare ad attaccare l’obiettivo principale, ma ogni volta che aveva chiesto al computer nuove coordinate di volo aveva ottenuto risposte incomplete, a causa dei crescenti disturbi di connessione. A quel punto sarebbe stato forse meglio tornare indietro alla cieca, nel tentativo di consentire alla Rete di riagganciare l’aeromobile e guidarlo nuovamente sul bersaglio. Invece si era lasciata paralizzare da impulsi contradditori, continuando a inseguire l’elicottero per inerzia.

Non appena si rese conto che la connessione era caduta definitivamente, sprofondò nell’incubo, perdendo qualsiasi capacità di attribuire significato alle proprie azioni. Da un passato che credeva smarrito per sempre, riemerse l’orrenda sensazione di solitudine provocata dalla consapevolezza di essere un individuo separato dal mondo, prigioniero di una gabbia senza vie d’uscita. Quasi nello stesso istante intuì che stava per perdere anche il controllo del computer di bordo e il terrore le strappò un urlo silenzioso.

Prima di naufragare in un oceano di insensatezza, si aggrappò all’unica realtà che ancora le offrisse un appiglio, l’elicottero nemico. Concentrando le residue energie sul bersaglio, riuscì finalmente a centrarlo in modo da infliggere danni devastanti.

Gli ultimi dati che riuscì a elaborare furono quelli relativi all’immagine di una carcassa in fiamme che si avvitava verso terra. Poi ogni cosa si confuse nel caos.

Per ironica fatalità, l’aeromobile andò fracassarsi non lontano dal mezzo crociato che aveva appena abbattuto.

* * *

I minuti iniziali della battaglia erano stati interminabili. In un primo momento gli elicotteri, dopo essersi levati in volo dagli hangar mimetizzati nella foresta, si erano allontanati dall’Abbazia per non attirare l’attenzione del nemico. Poi, descritto un rapido semicerchio, erano tornati indietro volando raso terra.

Da lontano, gli aeromobili erano sembrati ad Albino uno sciame di calabroni intenti a ronzare intorno al nido. E a mano a mano che si facevano sempre più vicini aveva pensato, aggrappato ai comandi, “adesso ci vedono”. Invece si erano accorti di loro solo quando avevano iniziato a bersagliarli coi missili.

Un attimo dopo era scoppiato l’inferno: nell’aria tutt’intorno sbocciavano a centinaia i fiori delle esplosioni, senza che fosse possibile distinguere fra il fuoco della contraerea, i proiettili del nemico e quelli che loro stessi sparavano. Albino aveva compiuto evoluzioni disperate in mezzo a quel carnaio finché il capo stormo aveva impartito l’ordine di fuga.

Erano riusciti a disimpegnarsi in quindici, puntando a tutta velocità verso sud, e la trappola aveva funzionato perfettamente: più della metà degli aeromobili era partita all’inseguimento, così gli elicotteri si erano trasformati in bersagli mobili per i nemici che mordevano le loro scie. Da quel momento, Albino non era più riuscito a pensare ad altro che a uno di quei bastardi, il quale gli si era incollato alle spalle e continuava a bersagliarlo di proiettili. Per qualche minuto aveva sentito le bestemmie rabbiose dei compagni che rispondevano al fuoco. Poi, quando non aveva più sentito niente, aveva capito che erano morti.

Non appena l’inseguitore sembrò inspiegabilmente intenzionato a concedergli una tregua, Albino fu improvvisamente folgorato dalla consapevolezza che l’elicottero stava volando in direzione di Bobbio!

Sto tornando a casa: questo pensiero iniziò a echeggiare nella mente del giovane crociato come un ritornello, e come se l’idea avesse avuto il potere di cancellare di colpo ogni paura, Albino si ritrovò a guidare in uno stato di trance, con la sensazione che tutto quanto stava vivendo fosse irreale. Ora continuerò a volare finché non vedrò apparire il nastro azzurro del Trebbia e il campanile dell’Abbazia di San Colombano; poi atterrerò, Don Aldo mi verrà incontro e mi accompagnerà alla mia cella; poi dormirò a lungo, e quando mi sveglierò qualcuno mi spiegherà che la guerra non c’è mai stata, che ho fatto solo un brutto sogno

Quando le raffiche ricominciarono e l’elicottero, danneggiato in modo irrimediabile, iniziò a precipitare, lui se ne accorse a mala pena. Dopo l’impatto col suolo, fu scagliato fuori dalla carlinga e perse i sensi. Non appena riacquistò coscienza capì di essersi spezzato la colonna vertebrale: non riusciva a muovere le gambe, e anche le braccia rispondevano a fatica ai comandi. Voltando a fatica la testa verso destra, riuscì a vedere i resti dell’elicottero che ancora bruciavano, mentre cinquanta metri più in là, nella stessa direzione, la carcassa annerita dell’aeromobile si era già spenta.

Non provava dolore, aveva solo molto freddo, e sonno, un sonno terribile. Sto tornando a casa, pensò per l’ultima volta prima di abbandonarsi.

* * *

A causa della bassa statura, provocata dalla denutrizione, il bambino non dimostrava più di sette od otto anni, ma sarebbe bastato osservare l’espressione dura e seria del volto per capire che ne aveva almeno dieci. Acquattato ai margini della radura che l’incendio aveva scavato nella foresta, stava osservando con avida curiosità i rottami delle macchine piovute dal cielo. Benché coperto di stracci cuciti insieme alla meno peggio, sembrava indifferente ai morsi del vento gelido che soffiava da Ovest. I grandi occhi scuri che gli divoravano la faccia spiarono a lungo il corpo del pilota crociato. Quando fu sicuro che l’uomo non si sarebbe più mosso, uscì allo scoperto.

Incoraggiati dall’esempio, altri quattro bambini, tre femmine e un maschio fra i quattro e i sette anni, abbandonarono a loro volta il riparo dei cespugli e avanzarono con prudenza verso i rottami.

Un minuto più tardi stavano già litigando, strappandosi vicendevolmente dalle mani oggetti dei quali ignoravano natura e funzione. Nel frattempo il più grandicello, ignorando quelle dispute, si era avvicinato al cadavere e aveva iniziato ad armeggiare per sfilargli la tuta da combattimento, intuendo che avrebbe potuto cavarne un abito morbido e caldo.

Il ceffone d’un giovane adulto che gli si era avvicinato alle spalle lo indusse a rinunciare. Senza emettere un lamento né versare una lacrima, arretrò di qualche passo, restando a osservare con occhi carichi d’odio l’uomo che si era inginocchiato a proseguire il suo stesso lavoro.

Anche gli altri bambini erano stati defraudati del bottino dagli adulti che, nel frattempo, avevano invaso a loro volta la radura. Sulla scena della catastrofe c’era ormai tutta la tribù, una trentina di Iloti di diverse età.

Un vecchio sui sessant’anni, leggermente sciancato ma dotato di una muscolatura poderosa, ordinò con piglio autoritario di ammucchiare in unico posto tutto quanto veniva raccolto, in modo che gli anziani potessero distribuire il bottino secondo giustizia. Dopodiché, facendo affiorare un sorriso maligno sulle labbra del bambino che aveva appena ricevuto lo stesso trattamento, scacciò a pedate il ragazzo che cercava di spogliare il cadavere del pilota: “Idiota! Quel tessuto è pieno di sensori elettronici, chi lo prende si attira addosso un sacco di guai: vuoi arruolarti nell’esercito crociato, oppure preferisci diventare un pezzo di ricambio per le macchine da guerra degli Informorfi?”

La spartizione del bottino fu rapida. Dopodiché ognuno si caricò sulle spalle la sua parte, utilizzando zaini improvvisati con la tela strappata ai sedili dell’elicottero. Infine il gruppo rientrò nel bosco, sgranandosi lungo un sentiero che solo occhi esperti sarebbero stati in grado di riconoscere.

“Non erano mai venuti a combattere così vicino al nostro territorio”, commentò con una smorfia di disappunto la ragazza che camminava alle spalle del capotribù, il quale, almeno a giudicare dall’aspetto, doveva essere suo padre.

Poi, visto che il vecchio non rispondeva, proseguì: “Questa storia non mi piace. Se ci trovano faremo una brutta fine…Del resto la mamma lo diceva sempre: per noi Iloti non c’è futuro.”

“Tua madre aveva torto!”, sogghignò il vecchio mettendo in mostra gengive sdentate, “Noi siamo una razza antica e dura a morire, come i topi e la gramigna. Lascia pure che gli altri si scannino con le loro guerre di religione: loro finiranno per annientarsi a vicenda, invece noi riusciremo a sopravvivere e a ereditare il mondo.”