di Tobia Iacconi

Ricordo che pensai: ora, fascista dimmerda, ora ti stroncolo. Ricordo che pensai: ora, sai che c’è, ora ti disintegro. Ti prendo per le orbite e ti lancio fuori dal treno in corsa. Questo pensai, dopo aver letto la scritta sulla tua maglietta nera dimmerda. Ma i treni regionali vanno troppo piano, pensai ancora, te la caveresti con due mesi di gesso e qualche cicatrice che esibiresti con onore – fasci dimmerda, voi e il vostro onore da tronfioni impettiti. Per quanto mi riguarda l’onore l’ho perso da piccolo e non ci tengo a riaverlo, nossignore, voglio piangere e avere paura e abbracciare i cuscini tutte le volte che mi va – ma il tuo onore, quell’onore tutto maschio che ti sta tanto a cuore, te lo levo a suon di schiaffi, parola mia – ora è il momento di far piangere te, fringuello nazista – ti faccio male, ti faccio tanto, tanto male. E poi, pensai mentre sbirciavo tra le tue spille dimmerda, che cazzo ci fai su un regionale, guardati attorno, qua dentro io e te siamo gli unici bianchi razza di coglione, come ti è saltato in mente di venirti a mischiare con noi disgraziati, tutti diversi e stanchi e arrabattati alla bell’e meglio, tutti assonnati per i nostri lavori dimmerda, tutti in ritardo perché alle coincidenze facciamo passare avanti i treni dei ricchi. Te lo dico io cosa ci fai, ti trovi anche tu su questo treno scannato perché non hai un soldo come tutti noi, imbecille, proprio tu, rigurgito del capitale, proprio tu – in mezzo a noi, internazionale di morti di fame – questo pensai osservando le tue spille dimmerda. E, indovina un po’, brutta testa di stronzo, ora mi metto a spiegare a tutti gli altri passeggeri che belle cose significano quei simboli da pezzo dimmerda che indossi con orgoglio, e allora sì, ah bene, allora sì che vedrai, capirai quanto sei solo e stronzo. Sissignore, chiuderemo il vagone, parola mia, tireremo il freno d’emergenza, sigilleremo porte e finestre per poterti picchiare indisturbati, per poterti randellare meglio e più a lungo e con ancora più gioia. Faremo dei turni, dei turni santo cielo, per non smettere mai di picchiarti e di farti sputare sangue e saliva e denti e pezzi di lingua. Ricordo che pensai: ci inventeremo delle nuove vite qua dentro, in questo vagone antidiluviano dimmerda, su questo binario infestato dai rovi che taglia come un rigagnolo di piscio questa periferia grigia e consumata – aggiungeremo tubi innocenti e pancali di truciolato – piegheremo lamiere di vecchie carcasse d’auto attorno ai frigoriferi abbandonati – costruiremo una nuova e meravigliosa città attorno, e sopra, e sotto a questo sconcertante treno regionale occupato – e questo tenace e combattivo spazio sarà fondato sull’antifascismo, sull’antirazzismo, sull’antisessismo, sulla condivisione e sulla cooperazione, sull’esaltazione viscerale di qualsiasi diversità – e sul riempirti di legnate – sì, hai capito bene: riempire di legnate proprio te, fascistello dimmerda. Prenderti a sberle sarà il rito fondativo al quale nessuno vorrà mancare. Mai. Nemmeno durante le ferie, nei giorni di pioggia.

Era il momento peggiore. La Lega e il Movimento Cinque Stelle erano al governo e Minniti era il peggior Ministro dell’Interno che avessimo mai avuto. No. Faccio confusione. Era il momento peggiore: il PD era al governo, sì, era così, e Salvini era il peggior Ministro dell’Interno che avessimo mai avuto, sì, dev’essere stato così. No. Faccio confusione. E poi non riesco proprio a ricordare dove fosse Berlusconi. C’era ancora Berlusconi? Non ricordo. Ricordo il postcolonialismo. Quello lo ricordo, ma vagamente. Ricordo che popoli interi si mettevano in moto, i loro saperi, i loro corpi, le loro poche cose. Sì. E noi non li volevamo. No. Gli altri, erano gli altri a non volerli. Noi li volevamo eccome, li avremmo voluti, li avremmo aiutati, se solo. Se solo. Ma era il momento peggiore. Non avevamo forze, eravamo stanchi, eravamo distratti. O, semplicemente, eravamo sazi. In pochi anni eravamo passati dalla lotta di piazza ai bistrot con cucina a vista, dai free party al clubbing, dalla contestazione alla sussunzione mercificata. Costringevamo ostriche e tartare di wagyu in soluzioni simmetricamente soddisfacenti, per poi fotografarle con inquadrature assiali citando Wes Anderson. Disquisivamo di Cărtărescu mentre degustavamo sontuosi pinot neri dell’Oregon e, dopo gli eventi vaporwave, ci affollavamo ad assaggiare gli esclusivi cocktail signature nei nostalgici speakeasy. Per consumare ed essere consumati dagli happening globali e trilingue di una nuova ed elettrizzante Belle Èpoque, avevamo lentamente abbandonato le periferie, i quartieri, le province profonde: i centri

storici, si sa, sono più fotogenici. Dalle retrovie della Storia, eccoli. Come se non fosse bastato il neoliberismo a scartavetrarci i coglioni. Anche i fascisti, erano tornati. No. Faccio confusione. Non se ne erano mai andati. Mondo Nuovo, Vecchie Merde.

Ricordo che pensai: ora ti faccio finire sul giornale, giuro, ti faccio diventare famoso dalle botte che ti rifilo. Ricordo che pensai: ora ti martirizzo, fascista dimmerda. Faranno delle magliette col tuo nome, camerata stocazzo, martire di stafica. Quanti anni avrai: venti, ventidue? Col cazzo che ti faccio arrivare a ventitré, bastardo. Ti stai accorgendo, voglio sperare, che non ti tolgo gli occhi di dosso? Bravo, inizia ad avere paura. Tanto questa è l’unica lingua che sapete parlare. La paura. Ma ora sei solo. Adesso tocca a te, tremare. Ricordo che pensai: la tua folgore dimmerda la spengo a sputi, stronzo, questo pensai, mentre decifravo di soppiatto gli obbrobri celtici tatuati sulle tue giovani braccia dimmerda. Tu, brutta merda. Merda infima e abietta. Mi fai schifo. [‘ʃkifo].

Era il momento peggiore. La finanza, astratta e intoccabile, governava il mondo degli uomini. La sua spietatezza algoritmica aveva affamato le masse, che adesso gridavano alla vendetta, all’abbattimento dello status quo, al rovesciamento di ogni potere. E il potere, per contro, aveva consegnato i governi all’unica forza apparentemente rivoluzionaria che avrebbe salvaguardato gli interessi del capitalismo: i fascisti. Ed eccone uno, di quegli infami bastardi. Proprio lì, a due sedili di distanza da me, su quel regionale dimmerda. Solo, senza branco. Più basso di me di almeno dieci centimetri. Più magro, meno corpulento. In forma, il nanerottolo, ma pur sempre venti chili meno di me. Quello stronzetto rappresentava tutto ciò che odiavo dell’umanità. Una forza ignorante e sovranista, una narrazione tetra e bigotta lo aveva plasmato affinché in lui affiorassero i lati peggiori – quelli meschini, vigliacchi e crudeli – dell’essere bianco, di sesso maschile, eterosessuale, occidentale, giovane, magro, pulito, in salute, di bell’aspetto – vale a dire gli elementi dominanti delle più comuni dicotomie sociali. Una narrazione sostanzialmente vittimista, capace di occultare sotto un astuto amalgama di eroismo, coraggio e onore la sua reale e trasversale peculiarità: l’essere sempre e comunque dalla parte del più forte.

Ricordo che pensai: ma non ora, fascista dimmerda, non qui. Ora i più forti siamo noi. È il momento di conoscere la pelle dei giusti, di sentire il rumore dell’osso sull’osso. O forse no. Ricordo che pensai: forse c’è qualcosa di ben peggiore, per uno come te. C’è qualcosa di ben peggiore dell’essere menato, qualcosa che risulterebbe insopportabile a tutta la maschiosfera, a tutto quel vostro mondo patriarcale, virile e cisgenere di cui andate tanto fieri: è in quel momento che pensai, lo ricordo bene, pensai che lo sai cosa ti dico, nazistello omofobo dimmerda? Che adesso t’inculo. T’inculo, sissignore, con tutto il cazzo, vaffanculo, fino a farti cacare sangue. E poi chiamo tutti gli altri e cascasse la volta a capriata del cielo merdoso se non li convinco a incularti uno per uno. Metterò un erogatore di biglietti con il numerino, come alle poste, come dal macellaio, così le persone non litigheranno per incularti per primi. E mica solo gli uomini, cosa credi? No caro, ti piacerebbe. Anche le donne, usando un po’ tutto quello che trovano: pugni, bastoni, vibratori, strap-on. E se credi che su un treno regionale faremo fatica a trovare qualche compagna transessuale, be’, ti sbagli di grosso. Sai che storie su Instagram? Bellezza, diventerai virale in men che non si dica. Salivando dalla rabbia, gli occhi arrabuzzati e cattivi, pensai: imparerai. Ti pentirai di ogni volta che hai detto frocio dimmerda, finocchio di qua, lesbicaccia di là. Ti pentirai di aver deriso ogni adolescente effemminato che hai avuto in classe, di aver chiamato troia ogni ragazza scosciata, di aver chiamato zecca ogni nostra compagna con la maglietta dei Crass. Ti pentirai della vostra necropolitica schifosa, grottesca e negazionista. Ti pentirai dei vostri incubi privati, grigi e omofobi, ti pentirai del mondo arido e depotenziato nel quale vorreste costringerci a vivere. O forse no. Forse non ti pentirai di niente. Ma sant’iddio, di cazzi ne avrai presi a secchiate. Chiudi gli occhi e prefigurati le nostre cappelle baby, lo splendore, il fulgido splendore. Ma poi pensai. Pensai a una frase apparsa sui muri di Parigi in quegli stessi giorni, quando il movimento dei gilet gialli bloccava la città e la Francia intera: Macron on t’encule pas, la sodomie c’est entre ami-e-s. In fondo ero, e sono, e sarò sempre, un idiota.

Solamente noi eterosessuali sappiamo essere così miopi. Ricordo che mi vergognai di me stesso, ricordo che serrai forte i denti, ricordo che pensai: hai capito, stronzo? Tra amici. Non te la meriti la nostra sodomia, stronzo. Voi siete gli stupratori, stronzo. Siete voi a fare schifo – noi siamo bellissime, stronzo. Noi siamo il clamore e l’audacia e la discordia vestita di luce. Siamo il liquore e il balsamo, siamo l’estasi e il furore. Siamo il tuono e siamo il miele, stronzo. Siamo il virus, l’azzardo, il fulcro e la visione. Noi siamo Arthur Rimbaud e siamo Sarah Kane, noi siamo il colore che abbaglia e noi siamo la pece che inonda. Siamo la brina e il tepore, siamo i cieli inclinati e siamo le birre calde nei centri sociali. Siamo precari, oppressi, disoccupati, sfruttati, e siamo così pieni di dolore da dimenticarci di mangiare. Ma siamo rabbia feconda che si tramanda, che incendia, che straripa. Noi siamo le barricate e i sanpietrini divelti, noi siamo le case occupate e le scarpe slacciate. Noi siamo il tuono che cresce dal basso, che ringhia, che lacera, che libera. Non lo capisci? Noi siamo l’impulso vitale, la scintilla orgiastica, il sole che sorge sul vostro avvenire dimmerda. Noi dormiamo nudi, avvinghiati, intrecciati, brutto stronzo, noi scopiamo in quattro per aspettare l’alba, e appena arriva scopiamo anche lei. Il disequilibrio dolce, i nostri corpi ibridi, noi. Non puoi non arrivarci, è evidente: noi siamo, razza di stronzo, tutta la gioia che voi non proverete mai.

Era il momento peggiore. Il capitalismo ci spingeva a sognare oggetti, abitudini e stili di vita che il capitale stesso non ci avrebbe mai permesso di raggiungere. Nella lotta per le briciole, i triti succedanei di felicità e di tranquillità economica che la Nazione aveva da offrire, gli italiani avevano iniziato a ringhiare verso gli unici che avevano meno di loro. Con i denti e con i pugni. Nelle ferite purulente del capitale, nei luoghi dimenticati dalla politica, nel tempo immobile delle vite senza speranza. Con tutta la loro ferocia. Come nei periodi peggiori della Storia, anche le persone comuni iniziavano a fare paura.

Ricordo che pensai che, in fondo, eri solo un ragazzo. Che alla tua età era sufficiente avere a che fare con un fratello maggiore megalomane, un cugino stronzo e bullo, un compagno di classe prepotente e carismatico o un padre testa di cazzo per fare la tua fine. Che magari eri nato nel quartiere sbagliato, nella casa popolare sbagliata, nella famiglia sbagliata al momento sbagliato. Ricordo che pensai che forse, per te, c’era ancora speranza. Che qualcuno o qualcosa avrebbe potuto salvarti. In quel momento capii che non ti avrei fatto niente. Non ti avrei gridato, non ti avrei nemmeno sfiorato. Mi giustificai pensando che, inoltre, le bastonate sono il vostro mezzo, il vostro ignobile linguaggio, i manganelli, i pestaggi, le lame infami; mentre noi abbiamo le parole, le argomentazioni, le idee, l’amore, e mentre mi dicevo queste stronzate iniziai a pensare al Natale dimmerda e alle vecchie pubblicità della Coca Cola: vorrei cantare insieme a voi, in magica armonia. La verità è che l’odio, a volte, può essere così dolce. Così buono. E la violenza è necessaria. I nostri nonni e le nostre nonne ce l’hanno insegnato, incidendolo col sangue sui libri di storia. D’un tratto un missile argenteo ad alta velocità sfrecciò accanto alla nostra bagnarola, togliendogli la pelle, quasi ribaltandola. Ricordo di aver provato compassione per il nostro vecchio trenino scalcinato, incartapecorito e prossimo alla pensione, mentre si allontanava sferragliando, sconfitto e mortificato dall’incontro col suo asettico e fotonico pronipote. Mentre inseguivo questo pensiero stupido e tenero ho incrociato i tuoi occhi cattivi e spavaldi. Mi stavi fissando con superiorità, con disgusto, senza alcuna traccia di paura. Ho distolto lo sguardo con un pretesto, ho tossicchiato, ho armeggiato col telefono scarico. Ricordo che pensai che non eri così mezza sega come mi eri sembrato all’inizio, pensai che sicuramente passavi il tuo tempo libero nelle palestre di MMA, a imparare come sbriciolare di botte un altro essere umano. Ricordo che pensai che magari non eri nemmeno solo, magari stavi solo aspettando che salisse qualche camerata alle stazioni successive. Ricordo che pensai che non era più l’Italia di un tempo, che su quel treno dimmerda sarebbe sicuramente spuntato qualche leghista pentastellato a darti manforte, e che insieme mi avreste rifilato due sganassoni e mandato a casa con le guance calde. Ma niente di tutto questo accadde. Il treno arrivò alla tua stazione dimmerda. Un paesino dimmerda anche il tuo, come i nostri, un paesino senza sogni, fuori dalla Storia del Mondo. Scendesti dal treno lanciandomi un ultimo sguardo carico di sfida e di odio. Io feci finta di niente, chinai il capo ancora una volta, gli occhi nervosi sul telefono spento. È finita, pensai. Quanto tempo avevamo passato accanto? Un minuto? Un’ora? Difficile dirlo. Mi facevo schifo. [‘ʃkifo].

La rabbia, a poco a poco, si farà paura. E diremo niente. Faremo niente. Ce ne staremo lì, in mezzo a tutti e soli come tutti, a far picchiare gli altri, a lasciarli rimpatriare o marcire nei lager. A lasciarli annegare. Torturare. Stuprare. Ci ergeremo seduti, indignati e sereni. Troveremo riparo e conforto nel capitale e nelle sue energiche e metodiche consolazioni: maratone di Black Mirror su Netflix, pizze Domino’s ordinate su Just Eat, libri di Frantz Fanon consegnati dai corrieri Amazon, carrellate di culi e sneakers su Instagram, una sana dipendenza da pillole e centomila seghe su Pornhub. Tutto, pur di non aver paura. Pur di non ricordare. Pur di non riconoscere il male, l’abominio, l’orrore. Un altro secolo passerà. Le donne e gli uomini dell’ennesimo Mondo Nuovo si chiederanno come la nostra civiltà abbia potuto lasciare che tutto questo accadesse, così come noi ce lo siamo chiesti dei nostri avi. E, proprio come noi, mentre guarderanno indietro non sapranno riconoscere le nuove atrocità del loro mondo e del loro tempo, poiché allora il male avrà cambiato forma, nome e colore. Ed è raro che il male si vesta di nero due volte di seguito. Ancora una volta gli antichi tumori dell’umanità ci trascineranno giù, nell’abisso orrido, nella tenebra immonda e molliccia. Scenderà la notte. S’infittirà un nero precoce, da Ovest, la memoria si farà ombra e, lentamente, dimenticheremo. E poi scenderà la pioggia, che purificherà ogni anima e laverà ogni peccato, e dimenticheremo. E poi tuonerà la Storia, annichilendo corpi e vite, e ancora una volta dimenticheremo. E poi arriverà qualcos’altro, qualcosa di ancora più narcotico e terribile, che porterà via tutto, che cancellerà ogni male, che ci farà dimenticare persino di aver dimenticato, di aver ricordato, qualcosa che non ricordo.

Non ricordo più.