di Iuri Lombardi
Luciano Bianciardi, Il cattivo profeta, curato da Luciana Bianciardi, con nuova prefazione di Matteo Marchesini, Il Saggiatore, Milano, 2018, pp. 1482, € 62,00
Fresco di stampa, uscito in questo anno corrente per edizioni Il Saggiatore, è il volume Il cattivo profeta, a cura della figlia Liliana, su Luciano Bianciardi. Il tomo che racchiude l’intera produzione dello scrittore toscano vuole essere ed è un lavoro completo sull’opera di uno degli autori più significativi della letteratura del Novecento. E questo libro ha un senso direi duplice nel riproporre i lavori di Bianciardi: in primo luogo si rifà ad un aspetto di organicità dell’opera, un secondo, ma non per importanza di ordine, al pensiero. Intellettuale lucido, marxista atipico e allo stesso tempo controcorrente, Luciano Bianciardi non è stato solo un testimone del suo tempo, di quella stagione degli anni Cinquanta e poi quella del boom economico in Italia, ma un attento osservatore. Da uomo di lettere, proveniente da quel lembo di Toscana rurale e isolato (allora la Maremma era distante e difficile da raggiungere dalle altre parti o centri della regione), fece delle lettere oggetto di analisi sociologica e antropologica.
Il letterato, di fatto, per lo scrittore grossetano non doveva solo raccontare, limitarsi ad intrattenere con le sue storie, con trame più o meno appetibili un possibile pubblico di lettori; un letterato (cioè non uno studioso di letteratura ma un autore) deve analizzare e denunciare aspetti del tessuto politico ed economico di un paese, doveva interagire con l’assetto del tessuto nazionale. Uno scrittore doveva farsi quindi in primo momento testimone e poi protagonista del suo tempo. E testimone Bianciardi lo è stato, come protagonista. Da prima in Toscana con le lotte dei minatori, di battaglie sindacali sulla tutela della messa in sicurezza delle miniere di Ribolla, sulla saluta del singolo operaio e da questa esperienza, vissuta sino in fondo, esce un libro, un lungo reportage – contenuto nel volume in oggetto – firmato con un altro grande toscano Carlo Cassola I minatori della Maremma.
L’occhio dello scrittore, sia di Bianciardi sia di Cassola, in quel caso portò i due non solo ad occuparsi della miniera e del lavoro brutale che erano costretti a subire certi operai, ma in una analisi più ampia lo scrittore si interessò dell’intera sua area di appartenenza: la Maremma, luogo di grandi sofferenze sociali, di tribolate emigrazioni verso gli altri centri della Toscana o del nord, terra di mezzadri e di butteri, di paesi isolati su colli lontani, apparentemente, e forse di fatto allora, da ogni possibile civiltà moderna. L’analisi “clinica”, quella sociale e antropologica di Bianciardi inizia proprio da qui, dalla sua amata Toscana, da quel lembo tra la Amiata e il Tirreno che a lui, come a molti della sua generazione, pareva quasi un sud lontano e ancestrale. Inizia dunque da Grosseto e dintorni il suo viaggio politico e demistificatorio della storia contro le lobby e le caste, contro i governi di Roma, papalini e aristocratici nei modi, contro il potere dei colletti bianchi. Ecco allora che lo scrittore diventa non solo sociologo, non solo un testimone scomodo e non solo un viaggiatore del tempo: diventa un “dinamitardo”. L’uomo che accende la miccia sotto il palazzo della Lombardia, l’uomo dell’insofferenza, l’uomo costretto ad emigrare e con la rabbia di chi ha subito un torto (non certo e non solo personale ma storico) raggiunge Milano, oramai capitale economica dell’Italia. Quella Milano che non solo deteneva il potere dell’industria, del capitale, del lavoro ma che stava cambiando le sorti di un intero paese, di una intera nazione. Era dunque la Milano della lingua commerciale che stava soppiantando il Fiorentino colto e letterario, la Milano del sottoproletariato, delle donne operaie.
Maremma prima, Milano dopo, dunque.
Infaticabile traduttore e studioso di letteratura, scopritore e pioniere di classici, Bianciardi per sbarcare il lunario in Lombardia traduce e intanto osserva, analizza, si informa direttamente tra la gente, prende contatti con gli editori che, in un primo momento, gli rifiutano senza remore di sorta, brutalmente La vita agra, il suo capolavoro. Ma a Milano comunque l’indagine del profeta continua e gli anni milanesi sono comunque formidabili per elargire un discorso che per lui sorgeva da lontano. Il motivo scottante dell’integrazione, che gli stava a cuore, non solo lo descrive e ce lo fa provare anche a noi nel suo capolavoro, ma va oltre; ecco allora alla spicciolata l’importanza degli altri lavori che il volume di Liliana Bianciardi raccoglie.
Da Milano collabora a Il Giorno, allora il giornale era appena uscito, rifiuta una collaborazione fissa con il grande Corriere della Sera, denuncia il lavoro schiacciato nel sistema dell’editoria, di uno scrittore costretto ad accettare compromessi con gli editori nel romanzo Il lavoro culturale, ancora di ambientazione maremmana, per poi giungere al romanzo più crudo di un trasferimento da Grosseto alla Lombardia L’integrazione. Si tratta di lavori importanti, in cui non solo pianifica e sviluppa il suo piano d’azione, denuncia e da dissidente ribelle esprime tutta la sua rabbia, ma preparano i romanzi storici (editi nel volume de Il Saggiatore). Da lì a poco stende Da Quarto a Torino e poi La battaglia soda, e ancora Garibaldi, incentrati sull’unità d’Italia, Aprire il fuoco.
Insomma Bianciardi è stato un importante scrittore, un formidabile dissidente del suo tempo, un incalcolabile “sociologo” e di lui ancora tanto dobbiamo dire, nonostante la critica spesso tralasci aspetti determinanti, e questo volume Il cattivo profeta è la testimonianza di un grande atto d’amore di una figlia verso un padre e di un editore verso una delle voci più significative, se pur talvolta isolate, della nostra cultura, del nostro panorama letterario.